Il commentatore Tomar, che qualcuno di voi ha conosciuto, ha deciso di regalarci un pezzo inedito di storia, che pubblichiamo qui:
Quello che racconto nel testo che segue è un episodio del tutto sconosciuto a storici e commentatori che si sono occupati delle vicende della sinistra “rivoluzionaria”.
Ho deciso di rendere pubblica questa testimonianza, sia pure solo nell’ambito degli ospiti di Miguel, perché di quell’episodio sono l’unico testimone ancora in vita, a parte un altro che però non penso avrà mai voglia di raccontarlo in questa vita (ammesso che ancora se ne ricordi).
Si tratta di un episodio piccolissimo se vogliamo – ancor più piccolo della notizia cui era collegato, il tragicomicamente fallito attentato al dirigente del MSI Servello (il killer si era sparato praticamente sui piedi mentre gironzolava per il pianerottolo dell’Onorevole), notizia che ebbe la prima pagina il giorno dopo, ma svanì nei giorni seguenti, essendo il maldestro attentatore riuscito a convincere poliziotti e magistrati di essere solo un lupo solitario un po’ fuori di testa – ma è un episodio la cui ignoranza ha consentito a molti di quei commentatori di sostenere, riguardo alla storia e alla pratica politica di Lotta Continua, delle tesi che quell’episodio smentisce alla radice.
La testimonianza è qui riportata nella forma originaria in cui è stata scritta, quella di una lettera alla figlia dell’amico F. poco dopo la sua morte nel 2015, ucciso dall’amianto con cui avevano tappezzato l’università di Torino in cui insegnava.
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22 marzo 1972: uno strano episodio
Un briciolo di contesto storico
Per aiutarti a comprendere meglio la portata di quell’episodio, penso sia utile ricostruire brevemente il contesto storico in cui maturò, dove per contesto storico intendo qui solo quella sua piccola parte relativa alle forze della cosiddetta sinistra extraparlamentare (SE) e al tipo di evoluzione che caratterizzò tali forze nel biennio 1971-72.
A cavallo tra il 1970 e il 1971 le forze della SE si trovarono nel loro complesso in una situazione critica e tanto più quelle come Lotta Continua che basavano il loro successo sulla capacità di incidere sulle lotte operaie nelle grandi fabbriche, come loro era in parte riuscito durante “l’autunno caldo” del 1969.
Infatti con la nascita dei Consigli di fabbrica formati dai delegati di reparto eletti dal basso, i sindacati e in particolare la loro punta avanzata dei metalmeccanici erano riusciti a rinnovarsi profondamente e a rafforzarsi proprio grazie a questo bagno di democrazia. In queste nuove strutture di democrazia sindacale gli operai legati a LC (o a PO e simili) avevano sempre più difficoltà a esercitare un’influenza significativa, soprattutto perché, astraendosi dalla concreta realtà delle dinamiche sindacali (che implicano momenti di scontro ma ovviamente anche di pausa), finivano per apparire come portatori di interessi esterni funzionali solo alle esigenze della loro organizzazione (in sostanza, che in fabbrica ci fosse un casino permanente).
Così, dopo il “biennio rosso” 1968-69, mentre gruppi come il MS milanese reagivano allo sfumare sui tempi lunghi della prospettiva rivoluzionaria arroccandosi nella gestione dei propri piccoli centri di contropotere “rivoluzionario” (la Statale in primis), LC che di tempi lunghi non ne voleva sapere e denegando la propria marginalizzazione nelle grandi fabbriche, s’inventò l’estensione della “lotta dura” dalla fabbrica all’insieme della realtà sociale e nella primavera del 1971 lanciò la linea “prendiamoci la città”. Più che un’estensione era una fuga in avanti e di lato, un escamotage per cercar di recuperare protagonismo, ma questo mi è stato chiaro solo nella riflessione successiva, e comunque è questo il momento in cui entriamo in scena tuo papà, S. e io.
Il trio dei “critichini”
Dopo la fine della breve esperienza nel Partito comunista d’Italia marxista-leninista (ottobre 1968 – giugno 1969, non so quanto papà te ne abbia mai parlato), F., io e S. (che non era stato nel Pcd’I m.l. ed era comunque un po’ meno coinvolto) ci ritrovammo da “cani sciolti” a far politica all’interno dell’Università statale e partecipando al dibattito da cui era attraversato il movimento studentesco. Non ti sto a raccontare gli elementi, spesso grotteschi, di quel dibattito, che alla fine vide prevalere (anche a pugni) la componente sempre più neostalinista di Toscano e Capanna, ma noi tre non riuscivamo a identificarci completamente neanche nelle posizioni della minoranza sconfitta, tanto che cominciarono a chiamarci “i critichini”.
Fatto sta che nella primavera del 1971 eravamo più “cani sciolti” che mai e quando LC organizzò l’occupazione della facoltà di Architettura insieme ai senza casa che erano stati sgomberati dalle case occupate di viale Tibaldi (la prima iniziativa di “prendiamoci la città”) ci ritrovammo a partecipare con simpatia alle assemblee di Architettura in cui senza casa, professori e studenti discutevano di urbanistica alternativa, rivoluzionaria ecc. A noi sembrava perlomeno un passo nella direzione, indicata dalla Rivoluzione Culturale cinese, della cultura (e degli intellettuali) al servizio delle masse e quindi dopo che Architettura venne sgomberata (con piccoli scontri cui partecipai tirando il mio ultimo sasso) avemmo degli incontri con Giorgio Pietrostefani, dirigente nazionale e capo milanese di LC, proponendogli una nostra collaborazione “esterna” con l’organizzazione (sul fatto che non entravamo né ci sentivamo di LC eravamo molto decisi).
Questa collaborazione diventò operativa dopo l’estate: io entrai nella redazione del giornale (allora settimanale) mentre F. e S. cominciarono a partecipare alle riunioni e all’attività di un gruppo di fabbrica (non ricordo più esattamente quale: quasi senz’altro Pirelli, Autobianchi o Alfa Romeo).
“IRA vince perché spara”
Quello di cui non ci rendemmo inizialmente conto era che nel corso dell’estate il gruppo dirigente di LC (che aveva trascorso le consuete “vacanze rivoluzionarie” nell’Irlanda del nord) aveva maturato una nuova – decisamente più soggettivistica e avventurista – fuga in avanti, passando dal “prendiamoci la città” alla tesi dello “scontro generale”, tesi che se approvata ufficialmente solo nel congresso di LC dell’aprile 1972, stava man mano cominciando a divenire operante.
Noi ce ne rendemmo conto solo dopo la manifestazione del 12 dicembre 1971 in ricordo della strage di Piazza Fontana. Per quella data LC e PO avevano programmato che il previsto corteo si trasformasse in una vasta operazione di guerriglia urbana. Alla vigilia della manifestazione però la polizia fermò una macchina di militanti di PO piena di bottiglie Molotov e quindi il corteo venne vietato consentendo solo un comizio in piazza Leonardo da Vinci. LC e PO avrebbero voluto che non si rispettasse il divieto e fare comunque casino, ma il MS e Avanguardia Operaia non erano d’accordo e per non restare isolata LC (PO a Milano contava poco) dovette rassegnarsi al contentino del comizio “unitario” affidato ad Adriano Sofri.
Due o tre giorni dopo vi fu un’assemblea generale alla sede di LC. Non ricordo perché, ma vi partecipai solo io: era evidente il dispetto per la mancata guerriglia del 12 e nel suo discorso Pietrostefani disse che l’appuntamento era solo rinviato e che nella primavera successiva bisognava prepararsi a uno scontro generale sempre più violento, per cui la parola d’ordine di LC doveva diventare “IRA vince perché spara”.
Ricordo che alla fine di quel discorso imboccai la porta d’uscita dalla sede, rabbioso e ben deciso a non aver più niente a che fare con quella banda di deliranti avventuristi. Parlai subito del discorso di Pietrostefani con F. e S. ed eravamo tutti e tre d’accordo nel considerare conclusa la nostra collaborazione con LC: sia chiaro, non perché noi fossimo non violenti o “pacifisti”, ideologicamente non lo era nessuno allora, ma semplicemente perché restavamo fedeli al modello rivoluzionario classico, che prefigurava il passaggio alla lotta armata solo in presenza di una ribellione generalizzata e diffusa delle masse popolari e di fronte al previsto rifiuto della borghesia di rinunciare spontaneamente al proprio dominio. E di tale ribellione generalizzata e diffusa noi non avvertivamo alcuna traccia, e infatti non c’era al di fuori dell’interessato delirio di costoro.
Sul piano concreto la conseguenza fu per me immediata: semplicemente smisi di presentarmi alle riunioni della redazione di LC (non avvisai né parlai con nessuno, ogni discorso a quel punto mi sembrava meno che inutile, e devo dire che nessuno mi venne a cercare o a parlare).
Per F. e S. il divorzio si presentò più laborioso: nel lavoro all’interno del gruppo di fabbrica si erano stabiliti una serie di rapporti umani con i suoi componenti che era difficile troncare di botto, anche perché la nuova linea “irista” non aveva una traduzione immediata a quel livello, dove il lavoro politico continuava a consistere nel distribuire volantini e fermarsi a parlare con gli operai all’uscita dei turni (il livello militare si andava infatti organizzando in strutture clandestine ignote alla stragrande maggioranza dei militanti). Fatto sta che nel marzo del 1972 F. e S. non avevano ancora del tutto abbandonato il loro sempre più riluttante impegno in quei gruppi (ricordo dell’angoscia e del fastidio crescenti di cui F. mi parlava a proposito delle riunioni del suo gruppo).
L’orribile marzo 1972 a Milano
3 marzo: le BR sequestrano e sottopongono a un breve “processo politico” il dirigente della SitSiemens Idalgo Macchiarini, rilasciandolo dopo mezzora con un cartello appeso al collo.
11 marzo: in tutta un’ampia zona a sud di Piazza Castello avvengono gli scontri più violenti che Milano avesse mai visto e nei quali i servizi d’ordine per una volta uniti di MS, AO e LC (spesso inclini a sprangarsi tra concorrenti) hanno spesso la meglio sui poliziotti (cose tipo una decina di molotov lanciate contemporaneamente da dietro la prima fila del servizio d’ordine contro due camionette che correvano verso i dimostranti per metterli in fuga e agevolare l’azione dei poliziotti a terra che le seguivano a distanza… le camionette che s’incendiano, i quattro poliziotti che scappano, uno con parte della divisa in fiamme, anche le truppe di terra arretrano… e un urlo di bellica esultanza si leva dalle schiere dei Servizi d’Ordine Riuniti… quella giornata fu la più evidente manifestazione del fatto che in quell’indemoniata primavera la frenesia militarista attraversava tutte le sigle dell’ultrasinistra, anche se alcune si fermarono qui, alle molotov e alle spranghe). In questa versione da tragica operetta dello “scontro generale” la polizia dà il suo contributo uccidendo con un lacrimogeno il pensionato Giuseppe Tavecchio.
Ah, dimenticavo di dire che il casus belli di quell’esercitazione era impedire un comizio in piazza Castello del Movimento Sociale, in cui credo dovessero parlare Almirante e Servello.
14 marzo: il corpo di Giangiacomo Feltrinelli viene trovato su un traliccio dell’alta tensione dilaniato dall’ordigno che stava piazzando. Tutte le forze della SE stigmatizzano il fatto come provocazione, complotto, tranello e simili, tranne PO, che ai funerali griderà del “compagno Osvaldo, un rivoluzionario caduto nella guerra di liberazione dallo sfruttamento”. PO sapeva bene in effetti come stavano le cose, in quanto PO era ormai solo la sigla di copertura di sé stessa come Lavoro Illegale, ovvero della struttura militare in cui s’era trasformata e che collaborava strettamente con i GAP di Feltrinelli.
22 marzo: in cui non succede “niente”, ovvero tal Maurizio Pedrazzini si lascia sfuggire un colpo di pistola sul pianerottolo dell’abitazione dell’onorevole del MSI Franco Servello. Bloccato e arrestato dice “volevo solo spaventarlo”. Risulta aver frequentato Lotta Continua, ma l’organizzazione non lo riconosce come proprio militante e lui dice di aver fatto tutto da solo e di sua iniziativa. Verrà rilasciato dopo non molto tempo. (Di Pedrazzini come membro della struttura militare clandestina di LC ha parlato diffusamente Leonardo Marino nelle sue deposizioni al processo Calabresi. Nel 1988 si renderà irreperibile dal giorno dopo dell’arresto di Sofri, Pietrostefani e Bompressi. Morirà nel 1998 in Austria in un conflitto a fuoco con la polizia durante una fallita rapina in banca).
Va infine ricordato che il suo vero apice l’indemoniata primavera milanese lo raggiunge due mesi dopo, con uccisione il 17 maggio del commissario Calabresi. Anche qui tutte le forze della SE parlano subito di “provocazione fascista” o di stato, tranne stavolta LC, che nell’editoriale di Sofri sul giornale lo definisce “atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”.
Due individui con fare circospetto…
E veniamo al ricordo vero e proprio di cui volevo raccontarti, che richiederà molto meno spazio della cornice e soprattutto non sarà così angoscioso, perché tutto sommato è stato un episodio fondamentalmente comico, sia pure con un po’ di brivido.
Il 23 marzo del 1972 tuo papà mi chiama al telefono verso l’ora di pranzo: ha una voce preoccupata e sussurrante, dice che ha bisogno di parlarmi e chiede di vederci appena possibile, però non può passare lui a prendermi perché non ha la macchina disponibile, quindi se posso passare io da lui…
Dopo mezz’ora sono sotto casa sua e mi racconta: “sai quelli del gruppo di fabbrica l’altro ieri mi hanno chiesto se gli prestavo la macchina per andare a fare un volantinaggio alla fabbrica XY, poi stamattina mi ha chiamato Pietrostefani, chiedendomi di raggiungerlo alla sede del giornale. Arrivo, mi porta nel bagno, comincia a tirare l’acqua (ricordo esattamente il sorriso sardonico con cui F. accompagnò questa precisazione, che alludeva alle nostre fissazioni sulla cautela rivoluzionaria) e mi dice che questo Pedrazzini (che lui manco conosceva) è andato a cercare di far fuori Servello con la mia macchina e naturalmente aveva le mie chiavi in tasca, per cui mi chiede di provare a recuperarla al più presto possibile, anche se ovviamente non sapeva dove Pedrazzini l’avesse precisamente parcheggiata.”
Puoi immaginare come per tuo padre la rabbia per essere stato così ingannato e usato fosse in quel momento sovrastata dal terrore di finire coinvolto in quella follia, paura che prese anche me, dato che accettai subito di aiutarlo nel “recupero” della macchina. Recupero che a parte il problema di trovare il posto in cui era parcheggiata presentava una chiara insidia: e se la macchina fosse ormai un tranello? Se dalle chiavi la polizia fosse già risalita al tipo di vettura, l’avesse cercata e già trovata nelle vicinanze della casa di Servello e ora aspettasse solo che qualche “complice” venisse a recuperarla, come stavamo facendo appunto noi?
A parte l’appoggio emotivo, l’essere in due presentava un minimo di vantaggio rispetto a questa eventualità, perché una volta individuata la macchina uno (io) poteva mettersi a osservare il posto a distanza e da un’altra prospettiva, coprendo in qualche modo alle spalle l’altro mentre si avvicinava al mezzo e pronto ad avvertirlo con un forte colpo di tosse se avesse scorto qualche presenza sospetta.
Ci mettemmo dunque a girare per le strade intorno a casa Servello (mi sembra fosse in via Teodosio) e dopo una decina di minuti trovammo la macchina, in una piccola via tranquilla e senza negozi. In effetti non c’era nessuno per la strada: noi passammo accanto all’auto dando solo una rapida occhiata all’interno, poi ci separammo come convenuto andando in direzioni opposte. Io mi fermai a un capo della via, mentre F. dopo essere arrivato a quello opposto ha cominciato a tornare indietro verso la metà della via, dove si trovava l’auto. Cercava di camminare a mo’ di passeggio, ma non smetteva di occhieggiare cautamente qua e là, e insomma un occhio acuto avrebbe trovato il suo fare circospetto, come circospetto ero io nella mia immobilità, anche se avevo cercato di renderla più disinvolta accendendomi una sigaretta. Vista da fuori – e poi nel ricordo – era una scenetta puramente comica, quella di due assoluti innocenti che si muovevano da criminali, ma ti assicuro che nel mezzo minuto della camminata di ritorno di F. verso la macchina e fino a quando, dopo un mio cenno di via libera, l’aprì e vi entrò, la mia trepidazione era grande e quella di tuo papà credo ancor maggiore.
Come ho detto non c’era nessuno in giro e andò tutto bene. Forse a quell’epoca non era così facile come oggi risalire a un’auto partendo dalle chiavi (mi piacerebbe appurare con precisione questo aspetto), o forse semplicemente la polizia non aveva ancora ritenuto di doversi occupare di quel mazzo di chiavi: in fondo non era successo niente, no?
Con tuo papà riparlammo di questo episodio soprattutto dopo il 1988 e durante la lunga vicenda del processo Calabresi, perché costituiva una schiacciante conferma della veridicità di quanto aveva raccontato Marino oltre che una schiacciante demolizione della tesi del fronte innocentista (e delle difese) secondo cui LC era sì favorevole alla violenza di piazza ma assolutamente non praticava l’omicidio politico. Vi fu anche un momento in cui prendemmo in considerazione l’ipotesi, nell’eventualità che il tentativo di far passare Marino per un mitomane vendicativo e prezzolato rischiasse di avere successo, di presentarci spontaneamente a deporre “per salvare il suo onore”.
Fortunatamente non ce fu bisogno.