Non costa Quasi Niente

Molti avranno visto l’immagine che il salsicciaio Matteo Salvini ha diffuso su Twitter:

accompagnata dal testo,

“Eco-norme surreali volute da Bruxelles? No, grazie. Sì al buonsenso! Per Più Italia e Meno Europa, vota Lega”

Ora, la misura non è esattamente surreale. E’ più facile abbandonare in giro un tappo da solo che una bottiglia, sappiamo che sulle nostre spiagge si trovano molti più tappi che conchiglie.

Ma proprio perché è così minimale la misura, ha qualcosa di ridicolo. E magari io, che non butterei un tappo senza pensarci, mi sento un pochino offeso; e questo si somma a tante altre cose che non capiamo, e che ci piovono addosso, e in un mondo in cui l’unico potere che ci è concesso è quello di votare ogni cinque anni contro qualcuno, contribuiscono alla sensazione di far parte di un gregge diretto da un pastore disumano, per fini che sa solo lui.

Allo stesso tempo, dovrebbe essere ovvio che il problema non è il tappo, è la bottiglia:Nel 2016, furono prodotti 320 mila miliardi di tonnellate di plastiche di tutti i tipi.

Ma sentiamo la parte veramente interessata: la UNESDA Soft Drinks Europe (“UNESDA rappresenta l’industria europea delle bevande analcoliche”) e la Federazione Europea di Acque Imbottigliate, due lobby con sede – ovviamente – a Bruxelles.

Sono contrari quanto Salvini alla misura del tappo legato (“tethered cap”), ma per motivi ben più seri.

Iniziano facendo rumorosa professione di fede ambientalista, ovviamente.

Ma fanno notare che i tappi legati richiedono plastiche diverse e più pesanti, e quindi faranno aumentare le tonnellate di plastica in giro; la loro lavorazione dovrebbe aggiungere una gran quantità di emissioni di CO2; e per produrli, si dovrà rivedere tutta la linea di produzione, con un aumento di costi notevole.

A questo punto, abbiamo già capito chi avrà scatenato la campagna sui social contro i tappi legati, altro che il Salsicciaio...

Ora, i plasticari hanno ragione, dal punto di vista loro.

Le bottiglie di plastica usa e getta sono un prodotto che al cliente finale non costa quasi niente, per cui quasi tutti gli esseri umani ne possono comprare senza nemmeno pensasrci.

Quindi ogni anno nel mondo si producono circa 600 miliardi di bottiglie di plastica usa e getta.

Prodotti che non costano quasi niente, solo che il quasi moltiplicato per 600 miliardi fa una bella cifra, è un elemento fondamentale di tutta la catena planetaria della Grande Distribuzione Organizzata. E le aziende federate all’Unesda si vantano di dare lavoro a 1,7 milioni di persone. E più si parla di ambiente, più cresce il mercato dell’acqua in bottiglia:

Non entriamo qui nel devastante impatto ambientale di queste bottiglie usa-e-getta, persino i plasticari lo riconoscono; eppure come si vede il mercato della devastazione cresce proprio negli anni in cui cresce la retorica ambientalista.

I tappi legati faranno sicuramente aumentare i costi ai produttori; che quindi aumenteranno il prezzo all’utente finale e continueranno a guadagnare lo stesso? No, perché se le bottigliette cominciassero a costare quasi qualcosa, la gente ci penserebbe due volte. Magari scoprirebbe che l’acqua del rubinetto è potabile…

Per cui i plasticari suggeriscono una sola strategia alternativa: il riciclaggio. Cioè tutte le bottiglie, invece di essere buttate, tornano a casa e ridiventano bottiglie e le spiagge restano pulite e gli inceneritori non emettono fumi. Questa è la proposta dell’industria della plastica da sempre, ma è ovviamente bacata alla radice: la plastica non viene “re-cycled”, ma “down-cycled”, con le bottigliette ci fai prima le palette per raccogliere la spazzatura, e poi più niente (semplificando); e più si ricicla la plastica, più diventa tossica.

Ma la proposta sembra semplice: per continuare a produrre sempre più bottigliette di plastica che non costano quasi niente, si fa così:

  1. A spese del contribuente, lo Stato lancia una grande campagna per dire dove si butta questo e dove si butta quello. L’Uomo Medio vive sommerso tra milioni di messaggi che contemporaneamente cercano di sedurre, di vendere qualcosa, di prenderein giro, di spaventare e per fortuna è quindi diventato quasi sordo a roba del genere; ma comunque i plasticari vogliono proprio quello che l’Uomo Medio non vuole – uno Stato Predicatore.
  2. A spese del contribuente, lo Stato potenzia tutta l’immensa infrastruttura che permette il riciclaggio.
  3. A spese del contribuente, lo Stato finanzia la ricerca e l’innovazione che permetterà a plasticari di godere di un po’ di materia prima più o meno gratuita.

Il bello è che il Contribuente è lo stesso tizio che compra la bottiglietta di plastica.

Quindi la situazione è questa.

C’è un’Istituzione (che chiamiamo vagamente “Europa”) che deve affrontare la catastrofe ambientale indotta dall’uso della plastica usa e getta.

Per farlo, ha davanti a sé un’alternativa:

  1. chiudere tutta la filiera, far licenziare 1,7 milioni di persone, far infuriare centinaia di milioni di elettori abituati a compare la bottiglina al supermercato, far tremare il PIL.
  2. Fare ammuina, cioè imporre i tappi legati. Che non sono del tutto inutili, certo, e danno l’illusione che si è fatto qualcosa.

C’è una Destra politica che coglie un rigetto istintivo di tanti. Immaginatevi una persona che lavora sodo e non ha tempo da perdere a informarsi troppo; che ha sentito dire che il riciclaggio risolve tutto, e sta attenta a riciclare; poi arriva una misura piccola, ma che si sente anche fisicamente come un po’ scomoda e ridicola, quasi a tatto una presa in giro, e che dice, “io non mi fido di te, che ricicli“. E la persona si chiede a pelle – “perché io, che non faccio male a nessuno, devo sempre pagare?

C’è una Sinistra politica che si eccita subito, dicendo che la Destra è talmente menefreghista che pur di danneggiare l’ambiente, respinge anche una misura così evidentemente positiva e così piccola e così poco fastidiosa.

E c’è una Destra che ri-coglie la palla al balzo, e nota come la Sinistra sia sempre vessatoria e nemica della libertà e vuol fare pagare tutte le crisi agli ultimi.

Così sul nulla, riparte il Motore Perpetuo a Energia Avversaria.

Mentre la catastrofe ambientale avanza inesorabile, ovunque inconstrata.

Pubblicato in ambiente, Collasso, destre, imprenditori, Sinistre e comunisti | Contrassegnato , , , , , , , , , , | 347 commenti

Manifesti riciclabili!

Stessi slogan, in Francia come al ballottaggio a Firenze! Prossimamente nel Regno Unito! E poi negli USA! Manifesti riciclabili!

Pubblicato in monispo | Contrassegnato , , , | 18 commenti

Colombo, Galileo, the Gelato, the Gondola, Leonardo. And the Pizza, of course

Al Conad, c’è un cliente dai vestiti disordinati che alle 11 di mattina ha già aperto la sua bottiglia di birra prima ancora di passare per la cassa, e sta parlando di politica.

Che nel caso specifico consiste nel deridere il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano.

“Eh, ha detto che Colombo aveva imparato da Galileo! Ma Galileo è vissuto dopo Colombo! E fa il Ministro della Cultura!”

e scoppia a ridere.

Siccome ho il cervello che funziona per vie traverse, mi vengono tante riflessioni.

La prima è che conosco molti clochard, e so che ci sono storie e livelli culturali spesso inimmaginabili; ma mi chiedo (è solo una domanda) se il clochard in questione sapesse davvero che Galileo fosse vissuto dopo Colombo, oppure ci fosse arrivato perché la vicenda era diventata un caso mediatico, e oggi anche i clochard hanno lo smarfo.

La seconda riflessione riguarda il caso mediatico. In un evento a Taormina sconosciuto a tutti, il ministro, parlando non si sa in quale contesto, ha detto una frase, che non è sfuggita al video. Ora, se il ministro della cultura, invece di firmare atti, se ne stava a pavoneggiare davanti alle telecamere, a un evento dall’ineffabile nome di “Taobuk 2024 – Identità italiana, identità culturale” che riesce a combinare una misspelling di “book” con il concetto di “identità italiana”, è solo colpa sua.

Però, a ripensarci, poniamo che a me, mi facciano Ministro della Cultura perché ho un blog. Mi piazzano dentro una gigantesca macchina, con 12.000 dipendenti molto più esperti di me nelle cose che contano. Anche l’ultimo usciere…

Sono dentro questa macchina, e vincolato in modo ferreo anche da un numero di leggi che qualcuno stima in 10.000, qualcuno in 250.000.

Ora, in Italia…

fermi tutti: quando sento dire “in Italia” già sento cinquanta milioni di italiani che aggiungono, “ma se invece fossimo in un paese normale…” No, voglio solo dire che conosco l’Italia, e non so altrove…

… è quindi normale che un politico si dedichi a farsi vedere, prendendosi applausi e pomodori, mentre i funzionari lavorano.

Anzi, pochi applausi e molti pomodori, perché una caratteristica della democrazia parlamentare è che il Cittadino Medio, che conta quanto una icse ogni cinque anni, si sente però in diritto permanente mentre fa la fila alla cassa, di sfottere i Politici Incompetenti e Cretini, “che se fossi io a giocare la partita, avrei fatto gol subito”…

Pretendere che un Ministro della Cultura debba sapere che Galileo è venuto dopo Colombo significa ignorare la funzione del Ministero della Cultura.

Fondamentalmente, si tratta di miliardi di soldi nostri da investire in eventi, mostre, quadri che volano in aereo dagli Uffizi all’Evento a Miami, e nel vendere l’Italia.

Ora, la gente come noi è fissata con tutte le storie dei luoghi, con le pietre, con vecchi racconti, con i morti.

Ma le persone normali sanno che la Cultura Italiana è un’aura.

Qui vicino c’è lo Sbrino Gelato Contadino, che fa un gelato ottimo, ma mi chiedo cosa c’entrino i contadini con il gelato.

E c’è sempre la fila di giovani bionde statunitensi che fissano lo smarfo.

A dieci metri, c’è una cabina fotografica, di quelle che si usavano una volta per fare le foto per i documenti, e lì la folla diventa come quella davanti all’ultimo panificio di Gaza. Wow Italy = Fototessera.

Poi c’è la Fiat 500 di Stefano Di Puccio parcheggiata, con un’altra fila a fotografarla.

E poi ci sono appunto Colombo, Galileo, the Gelato, the Gondola, Leonardo, Pizza... E mi sembra che il Ministro non abbia sbagliato la sequenza alfabetica.

Questa Sequenza (dimenticavo, Fiat 500 e Fototessera) ha regalato a imprenditori italiani che non sanno nemmeno distinguere il Medioevo dall’Uomo delle Caverne, i miliardi con cui hanno sistematicamente distrutto le nostre montagne, i nostri boschi, le nostre spiagge, la nostra biodiversità e le nostre città: in una parola, la nostra identità quella vera.

Poi ancora, mi affascina il meccanismo per cui un’intera parte politica (in questo caso la “Sinistra”, ma a “Destra” il fenomeno è uguale e speculare) pensa solo a cogliere in fallo il Nemico, senza il quale non esisterebbe.

Nel mondo dell’intelligenza artificiale, tutto scompare subito: ma in questo momento la Sinistra è quella cosa che si sente di avere ragione, perché in un evento del tutto sconosciuto e di cui nessuno conosce il contesto, qualcuno ha registrato una frase ridicola di un politico di Parte Nemica. Una di quelle cose che girano e gireranno all’infinito nello spazio e nel tempo, inchiodando a vita il poveretto che ha fatto una gaffe, almeno finché una Coronal Mass Ejection non distruggerà ogni traccia degli ultimi decenni di storia.

“Impegno” vuol dire bruciare tutte le energie di una vita, a trovare i difetti di qualcun altro, a disprezzarlo, a combatterlo. E si finisce per esistere per il Nemico.

Non sentirai quasi mai dire, io sto cercando di fare… no, solo “hai visto che schifo il Nemico…”

Pubblicato in Cialtroni e gente strana, destre, esperienze di Miguel Martinez, Firenze, giornalisti cialtroni, imprenditori, Italia, migrazioni, riflessioni sul dominio, società dello spettacolo | Contrassegnato , , , , | 194 commenti

Yad elay!

Ieri, giornata memorabile.

Esco di casa che forse pioverà, ma mi chiedo se serva davvero mettermi il cappellino impermeabile. E invece il cielo intero esplode.

E’ qualcosa che riconosco subito, ma che avevo visto in Italia soltanto due anni fa: agosto del 2022, cenammo nella piazza di Piombino sotto una ruota panoramica, e la mattina dopo in pochi minuti un temporale di poche decine di minuti lanciò le cabine della ruota, qualcuna sulla piazza e qualcuna in mare.

Riconosco la mia vita da bambino, in Messico, quando la Tata Conchita mi portava al parco a giocare d’estate, e il cielo improvvisamente si oscurava a bomba.

Riscaldamento globale è un modo ingannevole di definire lo scombussolamento universale in corso: stiamo diventando un paese tropicale, che vuol dire magari una cosa poco intuitiva: che d’estate piove più che d’inverno.

In quindici minuti Via Romana è diventata un fiume e sono dovuto scappare. Ci sono punti di marciapiede in cui per non trovare sommersi i piedi, devo aggrapparmi alle maniglie dei portoni.

A fuggire assieme a noi una banda di turisti con passeggini e bambini in braccio: pelle molto chiara, diversi biondi e occhi azzurri, ma (per fare il Lombroso) con un aspetto meno piatto dei tedeschi.

Cerco di aiutare una mamma con un bambino in braccio ad attraversare il fiume, il marito – molto gentile – mi precede, le stende la mano e le grida preoccupato,

YAD ELAY!

E rimango folgorato, perché dalle mie conoscenze di arabo, non può che voler dire, “la mano a me!”

E l’ebraico israeliano, con la sua buffa pronuncia asemitica (unico suono non italiano la “kh”),

vabbene che l’ebraico israeliano è una resuscitazione coeva delle Quadrate Legioni mussoliniane riscoperte da qualche professore di liceo classico.

Eppure, la lingua che oggi è araba e quella che ai tempi della cristallizzazione talmudica fantasmaticamente resuscitata, era ebraica, si saranno separate – tanto per dire una data a caso – seimila anni fa.

E queste lingue non sono state trasmesse dalle scuole, ma quasi sempre di mamma in figlia in nipote. Analfabete dopo analfabete, a guardare la manina, e dire yad, e tramandarselo senza pensarci.

Vado al nostro Giardino, il mondo che teniamo in piedi fuori dallo Stato – senza litigare con nessuno – da undici anni.

C’è Stella, una ragazza greca dai capelli neri, cantante lirica. E’ arrivata da poco, ma parla perfettamente l’italiano. Ha attaccato in giro delle locandine su carta, dove ha chiesto alle persone, noi siamo il Grecale, vuoi far parte di un coro greco?

E ha trovato subito una dozzina di persone, nessuna greca, pronta a imparare canzoni in greco e cantarle.

Ma non sapevano dove ritrovarsi.

Mi ha chiamato Germana, nella cui casa c’è una statua di Artemide, a dirmi che una sua amica di nome proprio Artemis, greca, le aveva detto che Stella, greca, cercava un luogo dove fare le prove.

Così la invitiamo nel nostro Giardino, e nella sala che un architetto geniale ha costruito con quattro soldi, abbiamo assistito al concerto del Coro Grecale, dopo meno di due mesi di formazione.

Io guardo sempre ai margini, in questo caso di uno spettacolo bellissimo. Non dico quindi nulla sulla bravura inattesa dei coristi improvvisati.

Il titolo della prima canzone: Μήλο μου κόκκινο, “milo mu kòkkino”, mia rossa mela. Piena di profondi sottintesi, ma mi colpisce quella parola per rosso, “kokkino“, che mi ricorda la cocciniglia, e infatti scavando, scopro che dietro c’è una quercia particolare, il κόκκος, dove si albergano volentieri quelli che in persiano erano i vermi, kermes, che schiacciati facevano il miglior rosso, il cremisi, che l’Europa abbia conosciuto prima della conquista delle Americhe.

E l’ultima canzone, invece è in francese, e risale al 1500:

“Quand je bois du vin clairet
Ami tout tourne, tourne, tourne, tourne.
Aussi désormais je bois Anjou ou Arbois.
Chantons et buvons, à ce flacon faisons la guerre,
Chantons et buvons, les amis, buvons donc!”

E guardo la fila della dozzina dei cantanti (un po’ più donne che uomini), e ciascuno di loro ha una particolare bellezza. E so che sono qui, in questo luogo che abbiamo costruito solo per amore, e mi chiedo, cosa ci possa essere di sbagliato nella specie umana?

E poi mi rendo conto che loro cercano un attimo di sosta alla guerra, ironizzando sull’idea di fare la guerra a una bottiglia.

Come se fosse l’eccezione alla più umana di tutte le occupazioni, farsi la guerra vera, quella che uccide e stermina, e che è sempre alle porte, oggi più che da tanti decenni.

Guardo di nuovo i volti di quelli che vorrebbero fare la guerra alla bottiglia, e cerco di immaginarli come quelli che da quando l’umanità è tale, fanno la guerra all’umanità, con le migliori intenzioni.

C’è qualcosa che non capisco. O che ha capito soltanto Vernon Lee.

Però qualcosa dentro di me dice che ha comunque senso tenere in mano le chiavi di questo spazio, un grosso mazzo condiviso con altre belle persone, dove ieri sera attorno al nostro Tasso – dove abbiamo seppellito l’ultima gatta del giardino – c’era un lago profondo di acqua, e mi sono messo a pregare sul suo bordo.

Stanotte la Gatta Grigia, che è ancora viva, era tutta arrotolata tra me e il mio braccio destro. E mentre faceva le fusa, mi ha steso una zampa sulla mano. Importante capirsi.

Pubblicato in ambiente, Collasso, Commoning, esperienze di Miguel Martinez, Firenze, Italia, mundus imaginalis | Contrassegnato , , , , , , , , , , , | 30 commenti

Vite gratis per cibo a buon mercato

Prendo di peso e incollo qui le riflessioni di Igor Giussani pubblicate su Apocalottimismo.

Credo che vi siano molti spunti importanti.

Vite gratis per cibo a buon mercato

di Igor Giussani

Il presidente Mattarella è stata la figura più autorevole tra le tante che hanno condannato la crudele e criminale vicenda che ha causato nelle campagne di Latina la morte del bracciante indiano Satnam Singh, e c’è chi ha parlato esplicitamente di schiavitù. Al di là della retorica, l’espressione non è certo fuori luogo per descrivere quanto avviene laddove il caporalato impera e prospera. Tuttavia, come ha ben spiegato il giornalista d’inchiesta Stefano Liberti ne I signori del cibo, la denuncia moralistica rischia di sminuire la vera essenza del problema, che travalica la piaga dei caporali e le cronache nostrane per assumere proporzioni globali, in una rete intricata tra Occidente, BRICS e Africa:

Non sono schiavi. Sono impiegati a giornata, certamente ricattabili e quasi del tutto privi di potere negoziale, ma che nessuno costringe a lavorare in catene. La distinzione non è un mero esercizio semantico: definendo questi braccianti schiavi e dando al fenomeno una coloratura arcaica, quasi marginale, lo si relativizza, riducendolo al rango di anomalia locale. Invece, il sistema non riguarda solo il Sud Italia con le sue sacche di illegalità e d’intermediazione illecita… Il bracciantato regolato dai caporali… è l’espressione di un movimento che si dispiega a livello planetario.

Questo movimento è la diretta conseguenza dell’offensiva delle aziende-locusta che lavorano sui grandi numeri, trasportano i prodotti alimentari da un capo all’altro del pianeta e si assicurano margini di guadagno grazie alle loro economie di scala, ai loro network commerciali e politici, alla loro potenza di fuoco. Sono i gruppi che muovono le navi-container piene di soia dal Brasile ai porti cinesi e i carichi di pomodoro concentrato dagli stessi porti verso altre direzioni. Sono quelli che rinchiudono in capannoni centinaia di migliaia di maiali nutrendoli con la soia brasiliana. Sono quelli che inscatolano ed esportano il tonno che sta scomparendo dai nostri mari. Sono quelli che comprano il pomodoro raccolto dai bambini nello Xinjang pagati un tot al metro o dagli africani senza documenti nel Sud Italia pagati un tot a cassone.

Riassumendo schematicamente: i brasiliani usano le loro terre per produrre soia che viene ingurgitata dai maiali industrializzati che la Cina ha importato dagli Stati Uniti; i cinesi usano le loro campagne per produrre il concentrato di pomodoro che verrà esportato in Africa o servirà da base al ketchup negli hamburger che i fast food come McDonald’s vendono in tutto l’Occidente – e che stanno cominciando a spopolare in Cina.

Animali stipati negli allevamenti intensivi e umanità sfruttata nei campi (sono consapevole della crudezza dell’accostamento) rappresentano di fatto una delle fondamenta su cui si regge la grande macchina dell’alimentazione globale. Chi vive nei paesi industrializzati è abituato alla sovrabbondanza di cibo e ne sminuisce l’importanza lasciandosi piuttosto ammaliare da gadget elettronici e frivolezze simili. Eppure senza cibo molto banalmente è impossibile sopravvivere ed è fondamento di qualsiasi ipotesi di benessere, non a caso il suo controllo ha sempre giocato un ruolo fondamentale nelle strategie di dominazione politica, ieri come oggi.

Raj Patel e Jason Moore, nella loro pregevole analisi storica dei meccanismi profondi del capitalismo, hanno evidenziato l’importanza di garantire cibo a buon mercato, per ragioni non certo filantropiche ma legate alla buona tenuta del sistema. Alimenti a basso prezzo consentono in ottica liberista di contenere l’impatto della precarizzazione del lavoro (fate caso alla coincidenza temporale tra avvento dei discount e progressiva riduzione delle tutele sindacali), in quella keynesiana invece incentivano la classe lavoratrice al consumo di beni voluttuari o comunque meno imprescindibili per l’esistenza.

A partire dalla dal nuovo millennio, però, il prezzo del cibo è progressivamente salito e oggi supera, in termini reali, quelli precedenti alla diffusione capillare della rivoluzione verde, universalmente considerata la panacea contro ogni timore di ‘bomba demografica’.

Per scongiurare lo spettro della crisi alimentare, si ipotizza una svolta epocale simile a quella operata dalla rivoluzione verde, ossia la cosiddetta ‘agricoltura di precisione’ basata sull’implementazione su vasta scala di OGM vecchi e nuovi, droni, GPS e sensoristica avanzata; ma tutto ciò comporta altri costi che andrebbero ad aggiungersi a quelli crescenti di sementi, fertilizzanti, pesticidi e combustibili. Si capisce pertanto l’importanza di calmierare le spese tramite pratiche come il bracciantato arruolato dai caporali, un ‘retaggio servile’ che risulta quindi del tutto complementare alla ipertecnologia, che potrebbe quindi esasperare ulteriormente questo fenomeno anziché combatterlo.

 Al cordoglio pubblico riguardo ai fatti di Latina stanno seguendo dichiarazioni e dibattiti di circostanza che avranno come esito prevedibile iniziative estemporanee dell’ispettorato del lavoro e qualche azione dimostrativa di forze dell’ordine e magistratura contro i caporali, poi quando la luce dei riflettori si sarà spenta l’ignavia prenderà di nuovo il posto dell’indignazione. Del resto, a parte interventi per contenere il danno (comunque meglio di niente), l’unico modo per superare il caporalato e tante delle storture che attanagliano il mondo rurale è rifondare da capo l’agricoltura e poi l’intero paradigma alimentare.

In questo caso, però, la discriminante non è tanto sulle tecniche, come lascerebbero intendere le consuete diatribe del tipo ‘OGM vs biologico’. Certo, la transgenesi e i processi agricoli ad alto contenuto tecnologico favoriscono ulteriormente i processi di concentrazione economica che stanno strangolando i contadini e agevolano lo sfruttamento, ma l’agroecologia in stile Whole Foods (catena di prodotti biologici controllata da Amazon) è solo un’operazione di facciata senza risvolti concreti in fatto di sostenibilità ambientale e sociale. Il vero spartiacque è una cultura che smetta di considerare il cibo una mera commodity, per dirlo nel gergo economicista.

Attribuire all’alimentazione dignità e considerazione adeguate è il primo passo per garantirle anche ai servizi ecosistemici fondamentali per la fertilità, ai terreni agricoli, all’allevamento animale e ai lavoratori della terra, siano essi semplici braccianti, coltivatori diretti o contadini di altro genere. Ciò implicherebbe però di superare non solo il capitalismo, ma anche la logica industrialista e sviluppista condivisa dal socialismo marxista e che permea tutte le società attuali, occidentali e non. Occorrerebbe insomma una visione autenticamente ecologica, purtroppo la grande maggioranza degli agricoltori vede con il fumo negli occhi l’ambientalismo (si pensi alle recenti proteste contro il Green New Deal) e i principali movimenti ecologisti, vedi gli attivisti del clima, si concentrano per lo più sulle fonti energetiche, trascurando colpevolmente il settore agricolo.

L’agricoltura ha creato la civiltà umana, se questa dovesse collassare una delle cause fondamentali sarà averla sminuita e soggiogata a logiche ritenute superiori. Finché tutto si limita ad anonimi braccianti sfruttati che riacquistano visibilità solo con una morte atroce o a contadini strozzati da mediatori e GDO, possiamo voltarci dall’altra: ma per quanto ancora?

Pubblicato in ambiente, Collasso, contadini, imprenditori | Contrassegnato , , , , , , | 46 commenti

Repubblica vive nel futuro!

Oggi è domenica 23 giugno, siamo d’accordo?

Oggi è il primo giorno, di due, in cui c’è il ballottaggio a Firenze, siamo d’accordo?

Oggi Repubblica pubblica quello che è successo ieri, cioè oggi:

Pubblicato in Firenze, giornalisti cialtroni, monispo, società dello spettacolo | Contrassegnato , , | 10 commenti

Un voto ecumenico

Due settimane fa, ho votato per qualcuno, come ho raccontato qui.

E mi è andata malino, come spesso succede agli ottimisti.

Oggi c’è il ballottaggio, cioè bisogna votare contro uno dei due sopravvissuti.

Ecco la scheda:

Alla nostra sinistra, un crucco, alla destra, un’autoctona. Tenete presente, quando dico sinistra e destra.

Allora, i miei amici a Firenze si dividono in due grandi categorie.

Da una parte, ci sono quelli che

“Basta!!!!!!! sono decenni che comanda questa gente che non ti ascolta mai, che hanno trasformato Firenze in una Disneyland dove le multinazionali del turismo decidono tutto, che sono andati a prostituirsi in giro per il mondo vendendo i beni del Comune, che hanno mandato via le maestre della scuola d’infanzia sostituendole con precarie delle cooperative, dove al posto del polmone verde di Firenze hanno deciso di costruirci la nuova pista dell’aeroporto, che hanno svenduto tutto il convento di Santo Spirito a una ragazzina che casualmente era proprietaria di dieci ditte in Calabria, che vogliono sbucaltare tutto il centro storico con quindici parcheggi sotterranei per attirare ancora più gentrificazione, che di notte non mandano mai i vigili a multare chi viola la ZTL…”

Questi miei amici, e sono tanti, voteranno a sinistra, nel senso chirale, sulla scheda, icsando l’impronunciabile nome di uno straniero.

Dall’altra parte, ci sono ancora più amici che domani andranno a votare, dicendo,

“Aiuto emergenza!!!!!! Dobbiamo salvare Firenze dalla Marea Nera che avanza! Fermiamo quelli che vorrebbero fare gli sfratti facili, che si fanno regalare le concessioni delle spiagge, che non vogliono dare i posti al nido ai figli delle signore che fanno le pulizie in casa per loro perché sono straniere, che al posto del polmone verde di Firenze vorrebbero far costruire la nuova pista dell’aeroporto, che magari vogliono abolire la pulizia municipale per favorire quelli che bucano la ZTL…”

Questi miei amici voteranno tutti a destra sulla scheda elettorale.

Ora, una mia amica si è posta la domanda, e se avessero entrambi ragione?

E così ha pensato che invece di votare sempre contro, potrebbe finalmente essere una buona occasione per votare per.

Votando, appunto, per tutti e due:

Pubblicato in destre, Firenze, monispo | Contrassegnato , , , | 24 commenti

Un pezzo di storia

Il commentatore Tomar, che qualcuno di voi ha conosciuto, ha deciso di regalarci un pezzo inedito di storia, che pubblichiamo qui:

Quello che racconto nel testo che segue è un episodio del tutto sconosciuto a storici e commentatori che si sono occupati delle vicende della sinistra “rivoluzionaria”. 

Ho deciso di rendere pubblica questa testimonianza, sia pure solo nell’ambito degli ospiti di Miguel, perché di quell’episodio sono l’unico testimone ancora in vita, a parte un altro che però non penso avrà mai voglia di raccontarlo in questa vita (ammesso che ancora se ne ricordi).

Si tratta di un episodio piccolissimo se vogliamo – ancor più piccolo della notizia cui era collegato, il tragicomicamente fallito attentato al dirigente del MSI Servello (il killer si era sparato praticamente sui piedi mentre gironzolava per il pianerottolo dell’Onorevole), notizia che ebbe la prima pagina il giorno dopo, ma svanì nei giorni seguenti, essendo il maldestro attentatore riuscito a convincere poliziotti e magistrati di essere solo un lupo solitario un po’ fuori di testa ­– ma è un episodio la cui ignoranza ha consentito a molti di quei commentatori di sostenere, riguardo alla storia e alla pratica politica di Lotta Continua, delle tesi che quell’episodio smentisce alla radice.

La testimonianza è qui riportata nella forma originaria in cui è stata scritta, quella di una lettera alla figlia dell’amico F. poco dopo la sua morte nel 2015, ucciso dall’amianto con cui avevano tappezzato l’università di Torino in cui insegnava.

****

22 marzo 1972: uno strano episodio

Un briciolo di contesto storico

Per aiutarti a comprendere meglio la portata di quell’episodio, penso sia utile ricostruire brevemente il contesto storico in cui maturò, dove per contesto storico intendo qui solo quella sua piccola parte relativa alle forze della cosiddetta sinistra extraparlamentare (SE) e al tipo di evoluzione che caratterizzò tali forze nel biennio 1971-72.

A cavallo tra il 1970 e il 1971 le forze della SE si trovarono nel loro complesso in una situazione critica e tanto più quelle come Lotta Continua che basavano il loro successo sulla capacità di incidere sulle lotte operaie nelle grandi fabbriche, come loro era in parte riuscito durante “l’autunno caldo” del 1969.

Infatti con la nascita dei Consigli di fabbrica formati dai delegati di reparto eletti dal basso, i sindacati e in particolare la loro punta avanzata dei metalmeccanici erano riusciti a rinnovarsi profondamente e a rafforzarsi proprio grazie a questo bagno di democrazia. In queste nuove strutture di democrazia sindacale gli operai legati a LC (o a PO e simili) avevano sempre più difficoltà a esercitare un’influenza significativa, soprattutto perché, astraendosi dalla concreta realtà delle dinamiche sindacali (che implicano momenti di scontro ma ovviamente anche di pausa), finivano per apparire come portatori di interessi esterni funzionali solo alle esigenze della loro organizzazione (in sostanza, che in fabbrica ci fosse un casino permanente).

Così, dopo il “biennio rosso” 1968-69, mentre gruppi come il MS milanese reagivano allo sfumare sui tempi lunghi della prospettiva rivoluzionaria arroccandosi nella gestione dei propri piccoli centri di contropotere “rivoluzionario” (la Statale in primis), LC che di tempi lunghi non ne voleva sapere e denegando la propria marginalizzazione nelle grandi fabbriche, s’inventò l’estensione della “lotta dura” dalla fabbrica all’insieme della realtà sociale e nella primavera del 1971 lanciò la linea “prendiamoci la città”. Più che un’estensione era una fuga in avanti e di lato, un escamotage per cercar di recuperare protagonismo, ma questo mi è stato chiaro solo nella riflessione successiva, e comunque è questo il momento in cui entriamo in scena tuo papà, S. e io.

Il trio dei “critichini”

Dopo la fine della breve esperienza nel Partito comunista d’Italia marxista-leninista (ottobre 1968 – giugno 1969, non so quanto papà te ne abbia mai parlato), F., io e S. (che non era stato nel Pcd’I m.l. ed era comunque un po’ meno coinvolto) ci ritrovammo da “cani sciolti” a far politica all’interno dell’Università statale e partecipando al dibattito da cui era attraversato il movimento studentesco. Non ti sto a raccontare gli elementi, spesso grotteschi, di quel dibattito, che alla fine vide prevalere (anche a pugni) la componente sempre più neostalinista di Toscano e Capanna, ma noi tre non riuscivamo a identificarci completamente neanche nelle posizioni della minoranza sconfitta, tanto che cominciarono a chiamarci “i critichini”.

Fatto sta che nella primavera del 1971 eravamo più “cani sciolti” che mai e quando LC organizzò l’occupazione della facoltà di Architettura insieme ai senza casa che erano stati sgomberati dalle case occupate di viale Tibaldi (la prima iniziativa di “prendiamoci la città”) ci ritrovammo a partecipare con simpatia alle assemblee di Architettura in cui senza casa, professori e studenti discutevano di urbanistica alternativa, rivoluzionaria ecc. A noi sembrava perlomeno un passo nella direzione, indicata dalla Rivoluzione Culturale cinese, della cultura (e degli intellettuali) al servizio delle masse e quindi dopo che Architettura venne sgomberata (con piccoli scontri cui partecipai tirando il mio ultimo sasso) avemmo degli incontri con Giorgio Pietrostefani, dirigente nazionale e capo milanese di LC, proponendogli una nostra collaborazione “esterna” con l’organizzazione (sul fatto che non entravamo né ci sentivamo di LC eravamo molto decisi).

Questa collaborazione diventò operativa dopo l’estate: io entrai nella redazione del giornale (allora settimanale) mentre F. e S. cominciarono a partecipare alle riunioni e all’attività di un gruppo di fabbrica (non ricordo più esattamente quale: quasi senz’altro Pirelli, Autobianchi o Alfa Romeo).

“IRA vince perché spara”

Quello di cui non ci rendemmo inizialmente conto era che nel corso dell’estate il gruppo dirigente di LC (che aveva trascorso le consuete “vacanze rivoluzionarie” nell’Irlanda del nord) aveva maturato una nuova – decisamente più soggettivistica e avventurista – fuga in avanti, passando dal “prendiamoci la città” alla tesi dello “scontro generale”, tesi che se approvata ufficialmente solo nel congresso di LC dell’aprile 1972, stava man mano cominciando a divenire operante.

Noi ce ne rendemmo conto solo dopo la manifestazione del 12 dicembre 1971 in ricordo della strage di Piazza Fontana. Per quella data LC e PO avevano programmato che il previsto corteo si trasformasse in una vasta operazione di guerriglia urbana. Alla vigilia della manifestazione però la polizia fermò una macchina di militanti di PO piena di bottiglie Molotov e quindi il corteo venne vietato consentendo solo un comizio in piazza Leonardo da Vinci. LC e PO avrebbero voluto che non si rispettasse il divieto e fare comunque casino, ma il MS e Avanguardia Operaia non erano d’accordo e per non restare isolata LC (PO a Milano contava poco) dovette rassegnarsi al contentino del comizio “unitario” affidato ad Adriano Sofri.

Due o tre giorni dopo vi fu un’assemblea generale alla sede di LC. Non ricordo perché, ma vi partecipai solo io: era evidente il dispetto per la mancata guerriglia del 12 e nel suo discorso Pietrostefani disse che l’appuntamento era solo rinviato e che nella primavera successiva bisognava prepararsi a uno scontro generale sempre più violento, per cui la parola d’ordine di LC doveva diventare “IRA vince perché spara”.

Ricordo che alla fine di quel discorso imboccai la porta d’uscita dalla sede, rabbioso e ben deciso a non aver più niente a che fare con quella banda di deliranti avventuristi. Parlai subito del discorso di Pietrostefani con F. e S. ed eravamo tutti e tre d’accordo nel considerare conclusa la nostra collaborazione con LC: sia chiaro, non perché noi fossimo non violenti o “pacifisti”, ideologicamente non lo era nessuno allora, ma semplicemente perché restavamo fedeli al modello rivoluzionario classico, che prefigurava il passaggio alla lotta armata solo in presenza di una ribellione generalizzata e diffusa delle masse popolari e di fronte al previsto rifiuto della borghesia di rinunciare spontaneamente al proprio dominio. E di tale ribellione generalizzata e diffusa noi non avvertivamo alcuna traccia, e infatti non c’era al di fuori dell’interessato delirio di costoro.

Sul piano concreto la conseguenza fu per me immediata: semplicemente smisi di presentarmi alle riunioni della redazione di LC (non avvisai né parlai con nessuno, ogni discorso a quel punto mi sembrava meno che inutile, e devo dire che nessuno mi venne a cercare o a parlare).

Per F. e S. il divorzio si presentò più laborioso: nel lavoro all’interno del gruppo di fabbrica si erano stabiliti una serie di rapporti umani con i suoi componenti che era difficile troncare di botto, anche perché la nuova linea “irista” non aveva una traduzione immediata a quel livello, dove il lavoro politico continuava a consistere nel distribuire volantini e fermarsi a parlare con gli operai all’uscita dei turni (il livello militare si andava infatti organizzando in strutture clandestine ignote alla stragrande maggioranza dei militanti). Fatto sta che nel marzo del 1972 F. e S. non avevano ancora del tutto abbandonato il loro sempre più riluttante impegno in quei gruppi (ricordo dell’angoscia e del fastidio crescenti di cui F. mi parlava a proposito delle riunioni del suo gruppo).

L’orribile marzo 1972 a Milano

3 marzo: le BR sequestrano e sottopongono a un breve “processo politico” il dirigente della SitSiemens Idalgo Macchiarini, rilasciandolo dopo mezzora con un cartello appeso al collo.

11 marzo: in tutta un’ampia zona a sud di Piazza Castello avvengono gli scontri più violenti che Milano avesse mai visto e nei quali i servizi d’ordine per una volta uniti di MS, AO e LC (spesso inclini a sprangarsi tra concorrenti) hanno spesso la meglio sui poliziotti (cose tipo una decina di molotov lanciate contemporaneamente da dietro la prima fila del servizio d’ordine contro due camionette che correvano verso i dimostranti per metterli in fuga e agevolare l’azione dei poliziotti a terra che le seguivano a distanza… le camionette che s’incendiano, i quattro poliziotti che scappano, uno con parte della divisa in fiamme, anche le truppe di terra arretrano… e un urlo di bellica esultanza si leva dalle schiere dei Servizi d’Ordine Riuniti… quella giornata fu la più evidente manifestazione del fatto che in quell’indemoniata primavera la frenesia militarista attraversava tutte le sigle dell’ultrasinistra, anche se alcune si fermarono qui, alle molotov e alle spranghe). In questa versione da tragica operetta dello “scontro generale” la polizia dà il suo contributo uccidendo con un lacrimogeno il pensionato Giuseppe Tavecchio.

Ah, dimenticavo di dire che il casus belli di quell’esercitazione era impedire un comizio in piazza Castello del Movimento Sociale, in cui credo dovessero parlare Almirante e Servello.

14 marzo: il corpo di Giangiacomo Feltrinelli viene trovato su un traliccio dell’alta tensione dilaniato dall’ordigno che stava piazzando. Tutte le forze della SE stigmatizzano il fatto come provocazione, complotto, tranello e simili, tranne PO, che ai funerali griderà del “compagno Osvaldo, un rivoluzionario caduto nella guerra di liberazione dallo sfruttamento”. PO sapeva bene in effetti come stavano le cose, in quanto PO era ormai solo la sigla di copertura di sé stessa come Lavoro Illegale, ovvero della struttura militare in cui s’era trasformata e che collaborava strettamente con i GAP di Feltrinelli.

22 marzo: in cui non succede “niente”, ovvero tal Maurizio Pedrazzini si lascia sfuggire un colpo di pistola sul pianerottolo dell’abitazione dell’onorevole del MSI Franco Servello. Bloccato e arrestato dice “volevo solo spaventarlo”. Risulta aver frequentato Lotta Continua, ma l’organizzazione non lo riconosce come proprio militante e lui dice di aver fatto tutto da solo e di sua iniziativa. Verrà rilasciato dopo non molto tempo. (Di Pedrazzini come membro della struttura militare clandestina di LC ha parlato diffusamente Leonardo Marino nelle sue deposizioni al processo Calabresi. Nel 1988 si renderà irreperibile dal giorno dopo dell’arresto di Sofri, Pietrostefani e Bompressi. Morirà nel 1998 in Austria in un conflitto a fuoco con la polizia durante una fallita rapina in banca).

Va infine ricordato che il suo vero apice l’indemoniata primavera milanese lo raggiunge due mesi dopo, con uccisione il 17 maggio del commissario Calabresi. Anche qui tutte le forze della SE parlano subito di “provocazione fascista” o di stato, tranne stavolta LC, che nell’editoriale di Sofri sul giornale lo definisce “atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”.

Due individui con fare circospetto…

E veniamo al ricordo vero e proprio di cui volevo raccontarti, che richiederà molto meno spazio della cornice e soprattutto non sarà così angoscioso, perché tutto sommato è stato un episodio fondamentalmente comico, sia pure con un po’ di brivido.

Il 23 marzo del 1972 tuo papà mi chiama al telefono verso l’ora di pranzo: ha una voce preoccupata e sussurrante, dice che ha bisogno di parlarmi e chiede di vederci appena possibile, però non può passare lui a prendermi perché non ha la macchina disponibile, quindi se posso passare io da lui…

Dopo mezz’ora sono sotto casa sua e mi racconta: “sai quelli del gruppo di fabbrica l’altro ieri mi hanno chiesto se gli prestavo la macchina per andare a fare un volantinaggio alla fabbrica XY, poi stamattina mi ha chiamato Pietrostefani, chiedendomi di raggiungerlo alla sede del giornale. Arrivo, mi porta nel bagno, comincia a tirare l’acqua (ricordo esattamente il sorriso sardonico con cui F. accompagnò questa precisazione, che alludeva alle nostre fissazioni sulla cautela rivoluzionaria) e mi dice che questo Pedrazzini (che lui manco conosceva) è andato a cercare di far fuori Servello con la mia macchina e naturalmente aveva le mie chiavi in tasca, per cui mi chiede di provare a recuperarla al più presto possibile, anche se ovviamente non sapeva dove Pedrazzini l’avesse precisamente parcheggiata.”

Puoi immaginare come per tuo padre la rabbia per essere stato così ingannato e usato fosse in quel momento sovrastata dal terrore di finire coinvolto in quella follia, paura che prese anche me, dato che accettai subito di aiutarlo nel “recupero” della macchina. Recupero che a parte il problema di trovare il posto in cui era parcheggiata presentava una chiara insidia: e se la macchina fosse ormai un tranello? Se dalle chiavi la polizia fosse già risalita al tipo di vettura, l’avesse cercata e già trovata nelle vicinanze della casa di Servello e ora aspettasse solo che qualche “complice” venisse a recuperarla, come stavamo facendo appunto noi?

A parte l’appoggio emotivo, l’essere in due presentava un minimo di vantaggio rispetto a questa eventualità, perché una volta individuata la macchina uno (io) poteva mettersi a osservare il posto a distanza e da un’altra prospettiva, coprendo in qualche modo alle spalle l’altro mentre si avvicinava al mezzo e pronto ad avvertirlo con un forte colpo di tosse se avesse scorto qualche presenza sospetta.

Ci mettemmo dunque a girare per le strade intorno a casa Servello (mi sembra fosse in via Teodosio) e dopo una decina di minuti trovammo la macchina, in una piccola via tranquilla e senza negozi. In effetti non c’era nessuno per la strada: noi passammo accanto all’auto dando solo una rapida occhiata all’interno, poi ci separammo come convenuto andando in direzioni opposte. Io mi fermai a un capo della via, mentre F. dopo essere arrivato a quello opposto ha cominciato a tornare indietro verso la metà della via, dove si trovava l’auto. Cercava di camminare a mo’ di passeggio, ma non smetteva di occhieggiare cautamente qua e là, e insomma un occhio acuto avrebbe trovato il suo fare circospetto, come circospetto ero io nella mia immobilità, anche se avevo cercato di renderla più disinvolta accendendomi una sigaretta. Vista da fuori – e poi nel ricordo – era una scenetta puramente comica, quella di due assoluti innocenti che si muovevano da criminali, ma ti assicuro che nel mezzo minuto della camminata di ritorno di F. verso la macchina e fino a quando, dopo un mio cenno di via libera, l’aprì e vi entrò, la mia trepidazione era grande e quella di tuo papà credo ancor maggiore.

Come ho detto non c’era nessuno in giro e andò tutto bene. Forse a quell’epoca non era così facile come oggi risalire a un’auto partendo dalle chiavi (mi piacerebbe appurare con precisione questo aspetto), o forse semplicemente la polizia non aveva ancora ritenuto di doversi occupare di quel mazzo di chiavi: in fondo non era successo niente, no?

Con tuo papà riparlammo di questo episodio soprattutto dopo il 1988 e durante la lunga vicenda del processo Calabresi, perché costituiva una schiacciante conferma della veridicità di quanto aveva raccontato Marino oltre che una schiacciante demolizione della tesi del fronte innocentista (e delle difese) secondo cui LC era sì favorevole alla violenza di piazza ma assolutamente non praticava l’omicidio politico. Vi fu anche un momento in cui prendemmo in considerazione l’ipotesi, nell’eventualità che il tentativo di far passare Marino per un mitomane vendicativo e prezzolato rischiasse di avere successo, di presentarci spontaneamente a deporre “per salvare il suo onore”.

Fortunatamente non ce fu bisogno.

Pubblicato in Italia, Sinistre e comunisti | Contrassegnato , , , , , , , , , , | 442 commenti