Oum Obeyda, Soldati di luce

Malika el Aroud, detta Oum Obeyda, in carcere in Belgio, la conosco come autrice di un libro estremamente intenso, Soldati di luce, che circola più o meno privatamente o in rete. E’ la storia di una normale ragazza europea, che gira per discoteche, si fa le canne e si ribella ai genitori, restando incinta e allevando una ragazzina con grande coraggio e grinta.

Solo che questa ragazza madre ha alle spalle tutta la storia del mondo: i nonni resistenti nel Rif del Marocco, il padre reclutato per fare i lavori duri che i belgi non intendevano fare, la scoperta dell’Islam, la militanza rivoluzionaria.

Soldati di luce, fatte tutte le tare allo stile di una persona che la vita l’ha vissuta davvero e non ha passato il suo tempo a studiare, è un libro che vale decisamente la pena leggere.

Se non vi fa troppa paura, potete scaricarlo qui.

Qui c’è la presentazione che ne fa il sociologo delle religioni Jean-François Meyer.



È un libro che non troverete dal vostro libraio di fiducia. È stato pubblicato a proprie spese dall’autrice, senza essere rivisto da un editore professionista, così come il lettore può notare subito. Non è un capolavoro letterario, tuttavia si tratta di un’opera che si ha voglia di leggere fino alla fine. In effetti, l’autrice parla col suo cuore e ci offre materia di riflessione non soltanto su ciò che si è convenuto chiamare "l’Islâm radicale", ma anche sulla situazione dei Musulmani in Occidente. Il libro non contiene alcuna rivelazione sulla "rete di Bin Ladin": il suo interesse si situa altrove.

Esso stimola prima di tutto la riflessione, poiché Malika, che firma il libro, ci presenta un’immagine completamente diversa dalla percezione della maggior parte di noi. Non è mai inutile sapere ciò che pensano e provano coloro che vengono presentati oggi come i nemici dell’umanità. In questo libro, il campo del bene e il campo del male si scambiano i posti, agli antipodi di ciò che ci va ripetendo il discorso della "guerra contro il terrorismo". I partigiani di Bin Ladin diventano "soldati di Luce", mentre i loro avversari sono presentati come dei criminali. Nei confronti dei primi, Malika esprime un’ammirazione incondizionata.

Tuttavia, su altri aspetti, è lontana dal dipingere un mondo in bianco e nero: si dimostra severa nei confronti di numerosi Musulmani che ha incontrato, ivi compresi alcuni pretesi adepti del Jihâd. Al contrario, sottolinea anche la qualità umana di alcuni non musulmani di cui ha incrociato le strade.

È un libro partigiano, certamente, perché si tratta di "restituire l’onore a mio marito e ai miei fratelli", poiché si dice "fiera di essere la figlia di questi Mujâhidîn… la sposa di un Mujâhid… la sorella dei Mujâhidîn", ma è nel contempo un libro sincero.

Ci sembra che in quest’opera ci siano due assi di riferimento che dovrebbero attrarre la nostra attenzione: l’uno è l’itinerario di una figlia di immigrati in Europa; l’altro è il ritratto che ci dona dei militanti jihadisti con i quali si è trovata in contatto.

Quando una ragazza riscopre l’Islâm…

In effetti, Malika non è sempre stata una Musulmana convinta. Giunta all’adolescenza, comincia a ribellarsi contro la sua educazione. Vi è qualche passaggio pungente e ben considerato su suo padre, che disapprova il suo modo di vestirsi all’esterno, ma non osa dirle nulla, "annientato dalla sua umiliazione", poiché "fuori non sono io il padrone" (pag. 31). "Come potevo comprendere a 17 anni che il silenzio di mio padre dinanzi al mio abbigliamento svergognato (secondo le norme musulmane) e il fatto che egli mi seguisse silenziosamente con lo sguardo, nascondesse un vero grido di dolore davanti all’annientamento dei suoi valori e al suo stesso fallimento?" (pag. 33-34). Anche se delle circostanze riserveranno in seguito a Malika un destino fuori dal comune, la sua storia e le sue lacerazioni sono quelle di milioni di altre famiglie di immigranti, divise tra esperienze contraddittorie, tra la loro cultura, i loro riferimenti religiosi, e il loro nuovo paese. Sono anche elementi di cui dobbiamo prendere coscienza, se vogliamo interpretare adeguatamente i fenomeni di radicalizzazione.

Malika ha dunque seguito la sua propria via: nessun rispetto per i divieti religiosi, poi ciò che descrive come una "discesa nelle tenebre". Delle esperienze coniugali fallimentari si aggiungono. Quando tocca il fondo, trova l’energia per cambiare vita. Ciò si accompagna progressivamente alla riscoperta della fede, attraverso varie tappe, per esempio l’ascolto dei versetti del Corano alla radio che, d’un tratto, la sconvolge e la spinge a chiedersi quale sia il senso della vita che conduce. Difficoltà, tuttavia, a trovare le risposte in un ambiente musulmano poco istruito della sua stessa religione.

Apparentemente, è di sua stessa iniziativa che comincia a rigettare alcune pratiche di religiosità popolare, per rivolgersi verso un Islâm considerato come più puro. Poi, è l’incontro con un centro musulmano multi-etnico, in cui vengono impartite lezioni sulla religione in francese (Malika non è arabofona a quell’epoca), e in cui si sente praticare un Islâm purificato dalle "superstizioni". È là che la conversione si completa, soprattutto con l’adozione del velo, dopo quattro mesi di frequentazione del gruppo di donne che si riunisce in questo centro.

Leggendo il racconto di Malika, le sue reazioni e i commenti, il lettore può constatare ben presto di trovarsi dinanzi ad una donna che appartiene ad una di queste generazioni che sono cresciute in Occidente, e che non si sentono più attaccate alla loro terra d’origine. D’altronde, scrive: "(…) sono molto seria quando dico che sono Belga, e me ne vanto (…), io che non mi sono mai sentita Marocchina, al punto tale da detestare di mettere piede in questo paese che non ho mai, dico mai, considerato il mio. Poiché, dopo tutto, è il Belgio che si è occupato della mia educazione, della mia scolarizzazione, dei miei bisogni; è in questo paese che ho tutti i miei ricordi d’infanzia, e quando ero in Afghanistan ne avevo spesso nostalgia" (pag.117).

La piena (ri)conversione all’Islâm che effettua Malika si compie dunque verso un Islâm spogliato di ogni appartenenza nazionale. Leggendo il suo racconto, non ci si può impedire di pensare a più riprese a dei passaggi del libro di Olivier Roy sull’ "Islâm mondializzato" (Paris, Seuil, 2002). Nelle sue reazioni, in seguito, in Afghanistan, si rivela d’altronde spesso una donna di educazione occidentale. La sua personalità è il risultato di una riunione tra questa esperienza profondamente segnata dall’Occidente e il suo ritorno all’Islâm.

Non ha soltanto degli elogi per l’ambiente musulmano belga che frequenta. È ancora un po’ irritata con quei Musulmani che le hanno presentato due uomini con i quali ha avuto delle esperienze matrimoniali tanto brevi quanto disastrose. È interessante constatare che uno era uno pseudo-mujâhid algerino che lei descrive come "ipocrita" e "maschilista". Il passaggio è severo tanto per le angherie "commesse da sedicenti Musulmani" in Algeria, che per l’attitudine di certi ambienti che si pretendono Musulmani nei confronti delle donne.

Il racconto di Malika è di rottura, effettivamente, rispetto alle rappresentazioni sempliciste sulle donne velate: l’autore della prefazione dell’opera non ha torto a descrivere Malika come una " ‘femminista’ autenticamente Musulmana", un "femminismo che esige il rispetto della donna da parte di un uomo che rispetta se stesso", e che ritorna al suo ruolo di "protettore generoso e attento di una compagna che gli è stata donata da Dio" (pag. 5)

Sarà probabilmente una delle più grandi sorprese per il lettore, che ha ancora nella memoria tutti i racconti sulla situazione delle donne in Afghanistan: i combattenti arabi e altri che Malika incontra in Afghanistan sono degli uomini galanti, pieni di cortesia e delicatezza per le donne (ne cita diversi esempi concreti), ma "queste usanze sono scomparse presso i Musulmani d’Europa", nota lei tristemente (pag. 135). Aneddoto rivelatore: il marito che Malika troverà finalmente e con il quale vivrà "una vera storia d’amore" (pag. 53), Dahmane Abdessatar (rahimahullah), si rammendava da solo i vestiti, poiché si era accorto che Malika detestava cucire (pag. 35)!

Propaganda? Il libro respira troppo la sincerità, anche se Malika ha abbracciato una causa e la difende; anche se non può evidentemente raccontare altro che ciò che ha visto di persona. L’ambiente dell’Islâm radicale è evidentemente multiforme, ma comprende anche degli idealisti, della gente convinta, che prende sul serio la sua religione ed è permanentemente cosciente di dover rendere conto ad Allah dei suoi atti nei confronti dei principi islamici. In quanto al ricorso alla violenza, essi lo considerano come difensivo: "il Jihâd significa la lotta per difendersi, poiché nessuna guerra è santa, al contrario è sporca e omicida" (pag. 114). Il libro di Malika ci aiuta forse meglio delle rappresentazioni caricaturali a cogliere la psicologia dell’élite dei combattenti del Jihâd.


L’ideale afghano

Ciò ci conduce al secondo aspetto importante del libro, ossia ciò che Malika ci spiega sulla sua esperienza afghana e sui combattenti del Jihâd. Attraverso il libro ritornano spesso, come un tema essenziale, le sofferenze inflitte a dei popoli musulmani nelle diverse regioni del mondo, che suscitano l’indignazione – e richiamano alla solidarietà. Nell’ultimo capitolo del libro, è addirittura il tema del complotto organizzato contro i Musulmani che viene evocato, complotto il cui scopo sarebbe "lo sterminio dei Musumani" (pag. 153; cfr. anche pag. 126). (Notiamo di passaggio che il documento che si suppone dimostri il complotto è stato trovato su Internet, interessante indicazione del ruolo attualmente giocato da questo canale per la diffusione delle tesi complottiste).

Nella conversazione tra Malika e suo marito, il tema delle sofferenze dei Musulmani in tutto il mondo ritorna costantemente: "Il suo argomento preferito era parlare della gente musulmana oppressa nel mondo… Non aveva che l’imbarazzo della scelta" (pag. 65). Ma Dahmane Abdessatar è tra coloro che non si accontentano di indignarsi davanti alla loro televisione: "Aveva paura di morire senza aver fatto il supremo sforzo nella Via di Allah…Il Jihâd; e sentiva che era a lui, in particolare che Usama (bin Ladin) rivolgeva un messaggio. Lui, uomo musulmano in tutta la sua pienezza, si sentiva umiliato dinanzi alla propria impotenza, quella di vedere le donne della sua comunità (della Ummah) farsi malmenare, violentare, fare a pezzi, come se l’insieme degli uomini del mondo musulmano fossero un solo uomo il cui onore fosse stato infangato, e lui, Abdessatar, fosse quest’uomo" (pag. 66)

Tutto ciò lo tocca profondamente, ne è "letteralmente malato", racconta Malika. Ed è per questo che il messaggio di Usama bin Ladin l’attira. L’immagine di coloro che commettono degli atti terroristi nel nome del Jihâd e della difesa dei Musulmani appare dunque del tutto diversa a Malika: "(…) si può forse accusare mio marito, quest’uomo credente e pieno di bontà nei confronti degli altri, di essere un terrorista cieco e limitato, animato da sentimenti bellicosi miseri ed egoisti? O al contrario un uomo ponderato, pronto a sacrificare la sua vita per salvare degli innocenti oppressi?" (pag. 77)

Non possiamo riassumere qui le avventure afghane di Malika: vi si reca, ci dice lei, allo scopo di occuparsi degli orfani, raggiungendo suo marito che vi si impegna da alcuni mesi. Malika non sa tutto, poiché i combattenti di questa rete conoscono il valore della discrezione nell’azione clandestina, come nota lei stessa: "In verità, mio marito sembrava avere un giardino che teneva attentamente segreto, anche a me, ed è comprensibile, poiché in seguito le sue azioni hanno avuto delle ricadute politiche internazionali… ciò significa che era tenuto a proteggere la vita del gruppo attraverso la sua discrezione, per non mettere il gruppo e i suoi progetti politici in pericolo" (pag. 76).

Ciò che stupisce è anche la solidarietà apparentemente manifestata da questa rete nei confronti di coloro che si sono impegnati al suo interno. Non soltanto la moglie di Dahmane Abdessatar è circondata d’affetto dopo la morte di questi, ma, quando i soldati dell’Alleanza del Nord la fanno prigioniera, insieme a qualche altra moglie dei combattenti arabi (senza scoprire tuttavia la sua identità – nel qual caso non sarebbe senza dubbio più qui a trasmetterci il suo racconto), i "soldati di Luce" organizzano un’operazione per ritrovarle e liberarle, nonostante ci si trovi in piena guerra. Poi fanno passare queste donne e questi bambini in sicurezza in Pakistan. Se essi accettano la sua decisione di tornare in Belgio, è solo dopo aver a lungo cercato di dissuaderla e averle proposto di sparire con una nuova identità: "Lascia che ti mettiamo in sicurezza in un paese che sceglieremo per te, avrai una nuova casa e ci occuperemo di tutti i tuoi bisogni materiali" (pag. 110-111).

-…)

Il volume contiene delle pagine vibranti d’elogio sui soldati del Jihâd: "Si tratta in effetti dei soldati di Allah, sono come delle luci su questa terra, mi hanno abbagliata quando mi trovavo laggiù, in Afghanistan" (pag. 123). Ai suoi occhi, non sono dei terroristi, ma delle persone che si alzano contro i loro stessi governi dittatoriali o partono per sostenere delle popolazioni musulmane oppresse un po’ dovunque sul pianeta: "Sono arrivati allo stadio in cui hanno preso coscienza della loro responsabilità, della loro religione e del fatto che compariranno dinanzi ad Allah, questi uomini corrono verso il Paradiso, sperano di trovarlo combattendo accanto ai loro fratelli oppressi (…)" (pag. 125-126)

Malika non dubita che altri prenderanno il loro posto ogni volta che essi cadranno in combattimento: "So che esisteranno altri soldati di luce, per alzarsi e prendere il testimone (…) accorreranno di nuovo sui campi di battaglia per soccorrere i loro fratelli… fino alla fine dei tempi saranno presenti inshaAllah, con nuovi visi; quando questi cadranno, altri si leveranno! Degli uomini… veri!" (pag. 126).

Il Jihâd si trasforma così in lotta perpetua. Nel presente contesto, in cui non è conveniente dimostrare un amore per Usama bin Ladin (hafizahullah) e delle convinzioni jihadiste, il libro di Malika è una delle rare testimonianze che ci rivela con chiarezza in francese l’itinerario e i sentimenti di una persona che ha scelto questo campo. Anche se presenta soltanto un’esperienza, limitata a ciò che Malika ha visto (ossia una piccolissima parte della realtà), ciò non toglie che questo documento – che non nasconde di essere risolutamente partigiano – merita a questo titolo l’interesse.


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