Il post di Sherif sul valore della vita ha suscitato un’ondata di pensieri e di ricordi.
All’inizio di marzo di quest’anno, viaggiavo su un tassì dal centro di Città del Messico all’aeroporto. Sentiamo alla radio una piccola notizia di cronaca – in una delle vie più centrali della città, un ignoto buontempone aveva appeso un osso pelvico umano da un lampione. Cosa che fece scoppiare in risate il tassista.
Una notizia profondamente messicana, parente forse del linciaggio di due agenti della squadra antidroga, fatti a pezzi in pieno giorno dagli abitanti di un quartiere periferico della metropoli che vanta ventiquattro milioni di anime; ma anche del signore che abitava sulla spiaggia di Cancún che negli stessi giorni si era mangiato il proprio compagno di capanna, dopo un complesso rituale. Evidentemente, a Cancún non ci sono solo i congressi scientifici che le multinazionali farmaceutiche organizzano per i loro amici medici.
In Messico, come in Egitto, la vita ha un valore ben diverso che nell’Italia ricca di ospedali bene o male funzionanti, ma povera di preziosi bambini. Però il Messico ha saputo trasformare la morte violenta in spunto perenne di ironia. Nel Tesoro della Sierra Madre, B. Traven – un autore di cui non si è mai saputa l’identità – racconta di come i governativi stanno per fucilare un insorto cattolico: durante la grande e dimenticata rivolta dei Cristeros, negli anni Venti, morirono forse 300.000 persone.
Al contadino che si è scavato da solo la fossa, i soldati offrono un’ultima sigaretta. Quando finisce di fumare, gli chiedono se è pronto per essere fucilato. “Muy listo, señor“, risponde – “prontissimo!”.
La leggerezza verso la morte, e in particolare verso quella violenta, diventa pervasiva. Quando avevo quattro o cinque anni, mi ricordo del giardiniere Florencio che si fece una “latitanza” di alcune settimane dopo aver ucciso un tale in una rissa. Scaduta la microlatitanza, durato il tempo per sfuggire a quello che in Messico valevano come indagini in simili casi, Florencio tornò tranquillamente a casa sua.
In Messico, nelle carrozze della metropolitana sotto i grandi ritratti di Gesù e tra la folla di venditori di saponette, di torce elettriche e di stendipanni, si legge poco. Una delle poche letture diffuse è costituita dai fumetti che raccontano le avventure della Santa Muerte, la “Magra sposa”, l’enigmatica patrona di briganti e mendicanti e dei loro stretti parenti, gli onnipresenti e temutissimi poliziotti. Il suo tempio si trova nel gigantesco mercato di Tepito, e vi si recano in pellegrinaggio, a portare offerte di birra e sigarette, le prostitute scampate alle violenze degli agenti di polizia, o i ladri dopo un furto riuscito; ma anche tutti i deandreani sfortunati di un mondo senza giustizia.
Colpisce l’iconografia della Santa Muerte, sospesa tra Walt Disney e Mictlantecuhtli, il signore nahua della morte, con una forte influenza della controriforma cattolica. Oggi, la forma strutturata del culto assume il nome splendidamente ambiguo di “Iglesia Tradicional Mex-USA”.
La Maquinita è una vecchia ballata estemporanea, raccolta da Frances Toor durante i suoi viaggi in Messico. Già il titolo – “Il trenino” – con il suo antropomorfico e affettuoso diminutivo, è caratteristicamente messicano. Racconta di un improbabile scontro tra un treno e un aereo, avvenuto surrealmente “nell’anno quaranta, prima del cinquantaquattro” tra Tula e Guanajuato.
“Cercando il venditore di bibite e giornali, lo trovarono moribondo: e il poveretto gridava ancora, “birre fredde!”
Arrivarono la Croce Bianca e la Croce Rossa, per scoprire che “tutti i morti erano scappati dalla paura”.
Ma il verso conclusivo esprime la crudele sapienza delle terre dove la vita ha scarso valore:
“y la maquina seguía pita pita y caminando”
E la locomotiva continuava ciuf ciuf a camminare…
Se alla ” Santa Muerte”, per ringraziarla dello scampato pericolo, si offrono birra e sigarette anzichè fiori e fioretti, mi immagino che nel loro dare relativo valore alla vita e alla morte, nell’andamento lento del ciuf ciuf, i passeggeri di categoria fonda sappiano godere delle piccole cose e dare ad esse gran valore.
Da Florencio( che nome da giardiniere) a Firenze, ne hai fatta di strada, kel. Sarebbe troppo facile se ogni tanto non ti capitasse di condividere una stanzetta dove ti manca l’aria.
Aurora.
Degno di Gabriel Garcia Marquez e di un fumetto ironicamente e macabramente horrorifico molto ben riuscito!!! 😉
Antonio
Dovresti scrivere un libro, Miguel, ci hai mai pensato?
C.
“Ma il verso conclusivo esprime la crudele sapienza delle terre dove la vita ha scarso valore:
“y la maquina seguía pita pita y caminando”
E la locomotiva continuava ciuf ciuf a camminare…
Flash da anni settanta:
Con le regine, i suoi fanti e i suoi re, il carrozzone va avanti da sé…
Davvero un bel testo, che voglio commentare, per la lunghezza del commento, in tre parti. Le prime due parti sono d’un articolo scritto, a suo modo, “a due mani”: è ripreso un pezzo di colore “locale” da un giornale conformista per ragazzi e commentato poi in modo comunista. La terza è un passo di cicerone.
A JANITZIO LA MORTE NON FA PAURA
“In Messico, nel lago Patzcuaro, si trova la piccola isola di Janitzio. A 2.350 metri d’altezza, un paesaggio stupendo si spalanca davanti ai visitatori: acque tranquille, montagne dai fianchi tormentati, un cielo così vicino che sembra di poterlo toccare col dito. Discendenti da una razza fiera, gli indiani Tarascani combatterono contro gli Spagnoli conquistadores. Furono vinti e adottarono la religione cristiana degli invasori; ma i santi che essi venerano hanno conservato i caratteri delle antiche divinità, il Sole, l’Acqua, il Fuoco e la Luna.
I Tarascani sono abili nel lavorare il cuoio, nello scolpire il legno, nel lavorare l’argilla e nel tessere la lana. Sono anche abilissimi pescatori. Quando ritirano le loro reti dalla strana foggia, somiglianti a grosse farfalle, sono sempre ricche di pesce. Ma anche se industriosi, i Tarascani sono ancora molto primitivi. Essi considerano infatti la vita come uno stato transitorio, un breve momento che bisogna passare per giungere alla beatitudine della morte. La morte non rappresenta più un’inesorabile fatalità; al contrario essa è considerata un bene, l’unico veramente inestimabile. Ecco perché ‘il giorno dei morti’ non è, per gli abitanti di Janitzio, un giorno di dolore.
La festa inizia di buon mattino. Le case vengono decorate a festa e tutte le immagini dei santi si arricchiscono di pizzi e fiori di carta. I ritratti dei defunti vengono esposti e illuminati da decine di ceri. Le donne preparano i piatti favoriti dai parenti defunti poiché essi, tornando a visitare i vivi, vi traggano consolazione.
Nel cimitero, dietro la chiesa, si decorano anche le tombe che molto spesso non hanno nome. Non vi sono iscrizioni funebri a Janitzio! Ma non per questo si dimenticano i morti. La via che conduce dal cimitero al villaggio viene cosparsa di petali di fiori, affinché i defunti possano agevolmente trovare la strada di casa.
Nel ‘giorno dei morti’ le donne di Janitzio si fanno belle. Pettinano le lunghe trecce scure e si adornano di gioielli d’argento. Il costume si compone di una lunga sottana rossa bordata di nero a larghe pieghe. La camicetta ricamata scompare sotto il rebozo che ricopre la testa e le spalle e dal quale, spesso, spunta la testina dell’ultimo nato. A mezzanotte le donne vanno tutte insieme nel camposanto e si inginocchiano a pregare per i loro cari defunti. Accendono i ceri, i più grandi dedicati agli adulti e i più piccoli per coloro che se ne sono andati troppo presto da questa ‘valle di lacrime’. Poi si abbandonano alla meditazione che, a poco a poco, si traduce in parole. Inizia così uno litania che non è di dolore, ma che esprime la comunione esistente tra i vivi e i morti.
Intanto gli uomini rimasti al villaggio si riuniscono a bere vicino alla chiesa dove è stato elevato un catafalco nero dedicato ai morti che non hanno più nessuno che preghi per loro. Ritorneranno a casa verso l’alba, mentre le loro donne, che hanno vegliato tutta la notte al cimitero, vanno a sentire la messa seminascoste nel rebozo. Trascorre così a Janitzio ‘la giornata dei morti’. Sui volti degli abitanti del villaggio non si legge dolore, ma la festosa aspettativa di chi attende la visita delle persone più care”.
Qui finisce il pezzo per ragazzi.
Qui inizia il commento comunista.
“Abbiamo ripresa tal quale e col suo titolo questa notiziola da un giornale italiano per i ragazzi. È una delle tante rifritture di materiale americano di “cultura” che passano di giornale in giornale e di rivista in rivista senza che pennaioli di servizio si accorgano di altro che del grado di effetto del pezzo che circola. Il ricopiatore ennesimo non si è nemmeno sognato il significato profondo che la sua diffusione nasconde, sia pur nella forma convenzionalmente conformista.
Le nobilissime popolazioni messicane, diventate cattoliche sotto il terrore spietato degli invasori spagnoli, mostrerebbero, col non avere terrore ed orrore della morte, di essere rimaste “primitive”.
Erano, invece, quei popoli, eredi di una civiltà incompresa ai cristiani di allora e di oggi, e trasmessa dal comunismo antichissimo. L’insulso individualismo moderno non può che stupire beota se, pur nel testo scolorito, si legge di tombe senza iscrizione e di cibi che si apprestano ai morti che nessuno commemora. Veri “morti ignoti”, non per retorica bolsa e demagogica, ma per possente semplicità di una vita che è della specie e per la specie, eterna come natura e non come sciocco sciame di anime vaganti negli extra-mondi, per la quale, e per il suo sviluppo, valgono le esperienze dei morti, dei vivi e dei non nati, in una serie storica il cui avvicendarsi non è lutto, ma gioia di tutti i momenti del ciclo materiale.
Anche nel simbolo, quei costumi sono più alti di quelli nostrani, ad esempio in quelle donne che si fanno belle per i morti e non per il più danaroso dei vivi, come nella società mercantile, fogna in cui noi siamo immersi.
Se sotto le spoglie degli squallidi santi cattolici vive ancora la forma antichissima delle divinità non inumane, come il Sole, ciò ricorda le notizie – quanto giunte a noi travisate! – della civiltà Inca, che Marx ammirava. Non erano primitivi e feroci tanto da immolare i più begli esemplari della specie giovane al Sole che chiedeva sangue umano, ma splendide di un intuito possente, quelle comunità che riconoscevano il fluire della vita nella energia, che è la stessa quando il Sole la irradia sul pianeta e quando fluisce nelle arterie dell’uomo vivo e diventa unità ed amore nella specie una, che fino a quando non cade nella superstizione dell’anima personale col suo bilancio bigotto di dare ed avere, soprastruttura della venalità monetaria, non teme la morte e non ignora che la morte della persona può essere inno di gioia, e contributo fecondo alla vita dell’umanità.
Nel comunismo naturale e primigenio, anche se l’umanità è sentita nel limite dell’orda, il singolo non ha scopi che consistano nel sottrarre bene al fratello ma è pronto ad immolarsi per il sopravvivere della grande fratria senza alcuna paura. Sciocca leggenda vede in questa forma il terrore del dio che si plachi col sangue.
Nella forma dello scambio, della moneta, e delle classi, il senso della perennità della specie sparisce, e sorge quello ignobile della perennità del peculio, tradotta nella immortalità dell’anima che contratta la sua felicità fuori natura con un dio strozzino che tiene questa banca e pesa. In queste società che pretendono di essere salite da barbarie a civiltà si teme la morte personale e ci si prostra alle mummie, fino ai mausolei di Mosca, dalla storia infame.
Nel comunismo, che non si è avuto ancora, ma che resta certezza di scienza, si riconquista la identità del singolo e della sua sorte con quella della specie, distrutta entro essa tutti i limiti di famiglia, razza e nazione. Con questa vittoria finisce ogni timore della morte personale, ed allora soltanto ogni culto del vivo e del morto, essendo per la prima volta la società organizzata sul benessere e la gioia e sulla riduzione al minimo razionale del dolore della sofferenza e del sacrificio, togliendo ogni carattere misterioso e sinistro alla vicenda armoniosa del succedersi delle generazioni, condizione naturale del prosperare della specie”.
Da “Il programma comunista” n. 23 del 1961.
Ecco, io credo che anche nel mostruoso, come altro chiamarlo, formicaio di 24 milioni d’anime, qualcosa di questo straordinario rapporto vita/morte sia rimasto tra i messicani. Ma la violenza generalizzata non può non lasciare strascichi. E vengo a cicerone.
Questo suo passo è la perorazione che chiude la difesa di roscio amerino, un giovane accusato di aver ucciso il padre da accusatori abituati ad ingrassare sulle condanne politiche o civili delle loro vittime. Si era alla fine dell’epoca sillana e vivissimo era il ricordo delle stragi di quella guerra civile e dei terribili strascichi d’odio e di vendetta dei vincitori, ancora persistenti.
L’oratore sta rivolgendosi ai giudici del processo:
[154] homines sapientes et ista auctoritate et potestate praeditos qua vos estis ex quibus rebus maxime res publica laborat, eis maxime mederi convenit. vestrum nemo est quin intellegat populum Romanum qui quondam in hostis lenissimus existimabatur hoc tempore domestica crudelitate laborare. hanc tollite ex civitate, iudices, hanc pati nolite diutius in hac re publica versari; quae non modo id habet in se mali quod tot civis atrocissime sustulit verum etiam hominibus lenissimis ademit misericordiam consuetudine incommodorum. nam cum omnibus horis aliquid atrociter fieri videmus aut audimus, etiam qui natura mitissimi sumus adsiduitate molestiarum sensum omnem humanitatis ex animis amittimus.
“uomini sapienti e dotati di tanta autorità e potestà quali voi siete devono soprattutto porre rimedio a quelle cose di cui maggiormente la repubblica soffre. Nessuno di voi ignora che il popolo romano, che un tempo era considerato molto clemente anche coi nemici, in questo frangente soffre di crudeltà domestica. Cancellatela dalla città, non permettete che duri ancora in questa repubblica. Essa non solo è un male per aver fatto perire tanti cittadini, ma anche perché l’abitudine alle disgrazie spegne la misericordia pure degli uomini più miti. Infatti, quando in ogni momento vediamo e sentiamo che sono accadute atrocità, anche quelli di noi di natura più mite, per il ripetersi di tanti dolori, lasciamo fuggire dall’animo ogni senso d’umanità”.
Era giovane allora cicerone, e poteva dire parole come queste.
Messe insieme le tre parti, posso concludere che la santa muerte sembra riflettere l’incredibile miscuglio d’un nobile antico sentimento verso la morte ancora in qualche modo avvertito e il cinismo più fondo a cui abitua la dimestichezza con l’atroce.
Di chi è lo splendido commento comunista ? E chi ha fatto questo bel “collage” ? Se sei tu p, come al solito mi sgomenti, ho troppo da spolverare, ma anche mi consoli, trovi una giustificazione plausibile a tutto.
Aurora.
Adesso basta.
Penso che sarete tutti d’accordo.
Le riflessioni di “p” non possono semplicemente marcire tra i commenti del mio blog, che tra l’altro non riesco nemmeno a salvare collettivamente sul mio computer.
Chiedo a tutti, cosa possiamo fare?
Miguel Martinez
D’istinto e dopo essere rimasta con la bocca aperta alla lettura dei tre commenti di Pietro, ho pensato che un suo blog lo avrei letto volentieri.
Ma avervi insieme, tu e lui qui, non è per niente male.
Intanto quei post, Miguel, non puoi lasciarli lì tra i commenti.
Tirali fuori e sistemali, con l’arte tua, magari nel tuo sito ed anche tra i post di partenza qui nel blog.
Per il resto Pietro ci farà sapere qualcosa.
Cocco
Cocco
Colpa tua miguel, senza quel tuo post mai avrei collegato quel vecchio articolo di “programma” (la zampata è del maestro di caffé, aurora, ma non è così importante l’autore) con il finale, splendido, invero, di quell’orazione ciceroniana (e detto da me…). Ma io sono solo uno dei commentatori del tuo blog, e davvero non potrei fare altro di più. Però apprezzo moltissimo che il mio contributo ti piaccia. p (prima m’era sfuggito di firmare).
Attenzione! Un momento! Forse poco più…
E’ l’alba, l’alba del Venerdì Santo del 1958. Ho quattro anni. Sono rannicchiato in posizione fetale nel mio lettino, al caldo, sicuro e protetto sotto le coperte ben rimboccate. Eppure sento nel profondo un senso di angoscia salire dal profondo. Non dipende da me. In lontananza sento un lamento straziante che mi assedia e mi minaccia. Mi pervade. Diventa sempre più assillante, più vicino, più forte. (Come è possibile che un bambino di quattro anni, che abita in una casa borghese e di antica progenie, in un paese del sud non certo profondo ma pur sempre sud, provi sentimenti così laceranti?)
Il lamento ora è più comprensibile:
“Sono stati
i miei peccati,
Gesù mio,
perdon pietà.”
Devo alzarmi, devo andare a vedere, devo capire, anche se la paura è forte, il terrore quasi mi acceca… Scivolo giù dal mio letto, nel buio della casa ancora addormentata. Forse qualcuno è già alzato ma io non me ne avvedo. Gattono sul pavimento freddo fino al balcone, mi sollevo e lo apro. La luce esterna è ancora fioca ma la strada brulica di persone. La banda intona sempre e continuamente la stessa deprimente e incessante litania. Il coro non conosce soste:
“Sono stati
i miei peccati,
Gesù mio,
perdon pietà.”
I clarini, col loro tono grave, i tamburi con la loro martellante insistenza, gli ottoni che squarciano l’aria e il lamento, mesto e sempre più triste mi distrugge. Ecco, sono in ginocchio, davanti alle sbarre del balcone. Una faccia enorme mi si para dinanzi, neanche a un palmo. Sporca di lunghi rivoli di sangue, i capelli scarmigliati, gli occhi chiusi ed il volto reclinato. E’ il Cristo morto sulla Croce che mi passa davanti e seppure non fisicamente, il mio spirito prova un sobbalzo che mi spinge all’indietro, pur rimanendo avvinghiato al balcone. La morte mi è venuta davanti, ha ghermito la mia piccola anima e l’ha scaraventata a terra ed io tremante la sto guardando, atterrito e contratto… Perché? Chi? Come… Cos’è stato… Cosa vuole da me quest’immagine fredda e scolpita che mi ha segnato con definitiva mestizia e fissità?
E’ la mia religione… Ormai è tutto finito. Il corteo si allontana, la nenia ora è meno pressante; accosto delicatamente il balcone e me ne torno a letto infreddolito. Mi riaddormento, forse per non risvegliarmi più… o meglio, mi sveglio, come al solito, verso le nove del mattino ma ho come la netta impressione che quel Venerdì Santo al mio posto si sia alzato un altro bambino. Io, ormai, ero volato via, dietro quel simulacro che non aveva nulla del Cristo morto. Perché, quando, un giorno, ho avuto una nuova sensazione, quella di essermi ricongiunto a me stesso, sapevo che “Dio, se muore, è per tre giorni e poi risorge”.
Per questo ho sempre cercato di allontanare da me quel simulacro. Il Trionfatore sulla morte non poteva far male all’anima di un bimbo. Il Liberatore non poteva lacerarmi l’anima. Qualcosa d’altro aveva colpito la mia innocenza, in quell’alba del Venerdì Santo del 1958.
Era un simulacro… Ed io l’ho assorbito! Tutto…
Antonio
Antonio, è atroce, quel ” PARDON, pietà”, quel francesismo, da dove è saltato fuori in una processione di Fondi, anch’esso un tempo, come Torremaggiore, appartenente alla grande famiglia dei de Sangro ?
Influenze di Borgogna,dell’ antica progenie, forse.
Aurora.
Scusa, Antonio, ho letto “pardon” anzichè “PERDON”.
Aurora.
E’ un errore interno del software, io ho scritto perdon!!!
Antonio
“Le riflessioni di “p” non possono semplicemente marcire tra i commenti del mio blog, che tra l’altro non riesco nemmeno a salvare collettivamente sul mio computer.
Chiedo a tutti, cosa possiamo fare? ”
…..
Salviamo quelle di Ritvan piuttosto !
…Mi fa sentire come Lucrezio con Epicuro…….come Confucio che dopo aver incontrato Lao Tze sentenziò che un uomo di simile saggezza e serenità gli apparve simile al drago del tuono !
Davide