Le favole del reincanto (1)

Da qualche anno, seguo saltuariamente le riflessioni dell’antropologa genovese, Stefania Consigliere.

Poi qualche settimana fa, me la trovo davanti, proprio nel nostro Giardino, a fare una conferenza: ho sentito convergere la nostra esperienza, di crepa nel cemento, di gente che si trova e cerca di vivere, e di tutte le storie che scorrono nella cascata che vien già dalla facciata in mattoni di San Frediano, di campanili antimoderni…

con l’entusiasmo allegro di questa strana donna, che in un’ora e mezza, ci ha presentato il mondo, anzi molteplici mondi: demoliva con un sorriso l’intera impalcatura a cui siamo abituati, senza mai trascinare nel dolente mondo dell’antagonismo.

Ha da poco pubblicato Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, ho subito comprato due copie per regalarne anche una a una persona importante.

Lo sguardo antropologico è assolutamente fondamentale per capire il nostro.

Perché è l’unica persona che sa che un altro mondo è possibile, non perché si diverte a fantasticarci, ma perché il suo mestiere è proprio quello di occuparsi di altri mondi.

Che sono davvero possibili, per il semplice fatto che esistono, o sono esistiti.

Stefania è evanescente… su Duckduckgo – tanto per evitare Google – cerco una sua foto da mettere qui, e ne trovo solo una, in mezzo a molte consigliere narcisiste che di nome fanno Stefania. i piace però, perché è in bianco e nero, e dà l’idea che anche lei potrà un giorno scomparire nel mistero, come Licorice McKechnie.

Vi presenterò nei prossimi post alcune riflessioni tratte dalle Favole del reincanto.

alla prossima puntata…

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13 risposte a Le favole del reincanto (1)

  1. Ros scrive:

    impossibile commentare!
    Se questo passa, impossibile – per me – commentare più di tre righe, anche togliendo i link

  2. Ros scrive:

    I° parte

    ….Reincanto (favole che ho pur letto) è uscire da quell’incantesimo di cui parlava Mark Fisher in “Realismo capitalista” e nella sua intera opera;
    sortilegio che ci fa immaginare la fine del mondo ma non un cambiamento di stato da homo oeconomicus della “fine della storia” e categoricamente : There is no alternative!!!!!

    Uscire dall’eggregora.

    Ora! Visto che la natura, si dice, abborra il vuoto
    (e l’uomo, come vedremo, la stasi di
    “bassa entropia”),

    mi permetterei l’esagerazione compensatrice di un riequilibrio della situazione😋
    tornando, pure, al tema dell’ ecognosticismo.
    (intanto per un disguido tecnico d’impossibilità di pubblicare il commento,
    e di rivederlo più volte, lo stesso si è “entropizzato” non di poco)

    Riequilibrio che prosegue il commento sul lavoro come leviatanico e “moralmente” imperativo meccanismo (e sul perché di questo)

    Lavoro che come si vedrà è anche entropico e fatalmente apocalittico lokiano:

    https://kelebeklerblog.com/2022/04/20/ecofascismo-ecognosticismo-e-quel-cane-di-hitler-2/#comment-791185

    https://kelebeklerblog.com/2022/04/22/ecofascismo-ecognosticismo-e-quel-cane-di-hitler-4/#comment-791652

    Tornando quindi a: lavoro-consumo-entropia-II° legge della termodinamica-ambiente-apocalisse (Now)-Prometeo…
    …e Trickster apocalittici come il Loki norreno universali nei miti;

    come anche parrebbe emergere.

    …e poi al Re-incanto delle possibilità inedite e inimmaginabili
    (ma già immaginate e nelle migliaia di millenni della storia umana, 300.000, implementate con “successo”) proprie del futuro:

    Lavoro quale circolo vizioso nato, pare e dice, con l’agricoltura e il surplus di produzione (energia)
    insieme alle classi e alle diseguaglianze, alle élite,
    a “La divisione del lavoro sociale” di Emile Durkheim…

    Non dimenticando la “produzione” di abnorme aumento della pressione demografica (e dell’Entropia, II° legge della termodinamica)
    quantità – non qualità… e mi riferisco a qualità di vita non di eugenetiche bislaccherie – vista da alcuni come un successo manco fossimo un allevamento intensivo di pollame da coatta “produzione” a crescere infinitamente come dogma religioso…

    James Suzman “Lavoro. Una storia culturale e sociale”

    (bellissimo saggio! ho già detto, dove sono al mezzo del cammin della lettura,
    poi vedremo e vi dirò se ha trovato soluzioni inedite e praticabili)

    e “Cronofagia” di Davide Mazzocco:
    https://www.indiscreto.org/perche-non-esiste-piu-il-tempo-libero/

    Ripetendo – qualcosa – la conclusione riassuntiva:

    Con il riappropriarsi del TEMPO (della nostra unica vita),
    e la dimestichezza con l’interiorità, la Psyche,
    la dimensione immaginale propria dell’ Otium classico,

    le coattività dei bisogni e consumi, la loro sostenibilità potrebbero magicamente risolversi.
    E la decrescita babau (società ordinata a “bassa Entropia” di lavoro cioè di Trickster, G//aua degli ju|’hoan della Namidia, Loki, il coyote e il corvo, il ragno Anansi… il biblico serpente del giardino… ci arriverò e chiarirò in seguito😀)

    potrebbe davvero essere una dimensione inedita e felice.

  3. Ros scrive:

    II° parte

    Proseguo le mie … quelle che sono😁😋😊

    Nick Srnicek “Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro”, NERO

    “Manifesto contro il lavoro” (Krisis)

    https://www.krisis.org/1999/manifesto-contro-il-lavoro/

    “l truffatore aveva distrutto il lavoro,
    ma si era preso il salario di un lavoratore;
    ora deve lavorare senza salario, ma lavorando immaginare perfino nella sua cella
    quali benedizioni siano il successo e il profitto.

    […] Con il lavoro forzato deve essere educato al lavoro secondo morale come a un libero atto personale”

    Wilhelm Heinrich Riehl “Il lavoro tedesco”, 1886.

    “…Perciò l’operaio solo fuori dal lavoro si sente presso di sè;
    e si sente fuori di sè nel lavoro.
    E‘ a casa propria se non lavora, e se lavora non è a casa propria.
    Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato.
    Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno,
    ma è soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei.
    La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene a mancare la coazione fisica o qualsiasi altra coazione,
    il lavoro viene fuggito come la peste…”

    Karl Marx “Manoscritti economico-filosofici”, 1844.

    “Perché dovrei permettere al rospo chiamato Lavoro
    Di accovacciarsi sulla mia vita?
    Non posso usare il mio ingegno come un forcone
    Per allontanare la bestia?” Philip Larkin, Toads

    James Suzman “Lavoro. Una storia culturale e sociale”:

    qualche stralcio:

    “…Le nostre ansie sul futuro automatizzato contrastano con l’ottimismo di tanti pensatori e sognatori che, fin dai primi vagiti della Rivoluzione industriale, videro nell’automazione la chiave per dischiudere un’utopia economica – di persone come il padre della scienza economica, Adam Smith, che nel 1776 tesseva le lodi del «gran numero di macchine» che con il tempo avrebbero «facilita[to] e abbrevia[to] il lavoro»,
    o Oscar Wilde che, cent’anni dopo Smith, fantasticava di un futuro in cui «la macchina si occuperà di tutte le mansioni necessarie e spiacevoli».

    Nel 1930 Keynes predisse che all’inizio del xxi secolo lo sviluppo del capitale, l’aumento di produttività e i progressi tecnologici ci avrebbero condotto alle soglie di una «terra promessa» economica in cui ognuno avrebbe facilmente soddisfatto i propri bisogni fondamentali e nessuno avrebbe lavorato più di quindici ore la settimana.

    Ormai abbiamo varcato le soglie di crescita della produttività e del capitale che ci avrebbero consentito di tagliare il traguardo prefigurato decenni fa da Keynes: eppure, è evidente che l’umanità non è ancora pronta a presentare questo assegno all’incasso….”

    “…I vecchi non dubitavano minimamente che il serpente, che nel racconto del missionario aveva tentato Adamo ed Eva, non fosse altri che il vecchio imbroglione G//aua in uno dei suoi tanti travestimenti. Spargere bugie, indurre le persone a inseguire desideri proibiti per poi assistere con gioia alle loro devastanti conseguenze era esattamente il tipo di cose che piacevano tanto a G//aua.

    Gli ju|’hoan sono soltanto uno dei tanti popoli che hanno scoperto, sotto le spoglie del serpente tentatore del Paradiso terrestre, il proprio piantagrane cosmico.
    Sono questi imbroglioni, fastidiosi e distruttivi – come Loki lo scapestrato figlio di Odino o il coyote e il corvo di molte culture native nordamericane, o ancora l’irascibile e trasformista ragno Anansi, che imperversa in tante mitologie dell’Africa occidentale e dei Caraibi – ad aver creato il lavoro, che affligge gli uomini dagli inizi del tempo.

    Non è una coincidenza che nelle varie mitologie del mondo compaia la tensione tra caos e ordine. Del resto, anche la scienza sottolinea la relazione universale tra il disordine e il lavoro, che per la prima volta fu descritta, in Europa occidentale, in quell’epoca inebriante che fu l’Illuminismo.

    Gaspard-Gustave de Coriolis e le leggi sull’Entropia…”

    “Gli esseri viventi hanno un certo numero di caratteristiche distintive, assenti nelle cose prive di vita.
    La più evidente e importante di esse è che quanto è vivo raccoglie attivamente e utilizza energia per organizzare i propri atomi e molecole in cellule,
    le proprie cellule in organi e i propri organi in corpi, al fine di crescere e riprodursi;
    e che quando smette di farlo muore e, con il venir meno dell’energia che lo teneva insieme, si decompone.
    Detto altrimenti, vivere è lavorare
    (ma, sia beninteso, non il lavoro coatto biblico del surplus per le elìte).

    L’universo ospita una stupefacente varietà di sistemi complessi e dinamici 
    – dalle galassie ai pianeti – che a volte descriviamo come entità «viventi».

    Ma nessuno di tali sistemi – a eccezione degli organismi cellulari – 
    raccoglie strumentalmente energia da altre fonti al fine di utilizzarla per svolgere il lavoro che consenta loro di vivere e riprodursi.

    Una stella «vivente», per esempio, non si ricarica attivamente di energia
    attingendo al proprio ambiente, né cerca di generare una prole
    che nel tempo crescerà fino a diventare come lei:
    al contrario, alimenta il lavoro che svolge distruggendo la propria stessa massa,
    e quando questa si esaurisce la stella «muore».

    La vita, invece, lavora attivamente per sopravvivere, crescere e,
    potenzialmente, riprodursi, nonostante quella che alcuni fisici considerano
    la «legge suprema dell’universo»

  4. Ros scrive:

    III° parte

    la Seconda legge della termodinamica, anche nota come Legge dell’entropia.

    Questa legge descrive la tendenza di qualsiasi energia a distribuirsi uniformemente nell’universo.
    L’entropia, impersonata dalle molte divinità ingannatrici
    che nelle mitologie di tutto il mondo vanno in giro seminando danni, disfa inesorabilmente qualsiasi ordine si crei nell’universo.

    E la Seconda legge della termodinamica sottolinea che nel corso del tempo l’entropia, come il perfido imbroglione della mitologia norrena, il dio Loki, produrrà un’apocalisse:
    non distruggendo l’universo, ma piuttosto perché, una volta raggiunto l’obiettivo di spalmare uniformemente nell’universo tutta l’energia, non rimarrà più energia libera, e il risultato sarà la fine della possibilità di compiere qualsiasi lavoro nel senso attribuito dalla fisica a questa parola…”

    Decrescere altro non è che ri-diventare società a “bassa entropia”:
    l’entropia, ovvero il biblico serpente (causa della cacciata dall’Eden e dell’istituzione coatta del lavoro)

    L’entropia è immediatamente riconosciuta, nel Mito e nel Folklore,
    come una delle innumerevoli maschere dell’ “imbroglione”:
    G//aua degli ju|’hoan della Namidia, Loki, Ermes, Seth, Huehuecoyotl
    il coyote e il corvo Kutkh, il ragno Anansi…

    (Prometeo! A ben vedere. nel suo agire per entropizzare.

    …il dio trickster mascalzone universalmente presente in ogni mitologia
    a “disordinare” dividere e ingannare, creare Caos, ed eventi, Telos, storia…

    https://it.wikipedia.org/wiki/Trickster

    “…oggi sappiamo che non è affatto vero che i cacciatori-raccoglitori come gli ju|’hoan fossero perennemente sull’orlo della fame.
    Al contrario, erano quasi sempre ben nutriti,
    vivevano più a lungo dei membri della maggior parte delle società agricole,
    non lavoravano quasi mai più di quindici ore alla settimana e dedicavano gran parte del proprio tempo al riposo e allo svago.

    Sappiamo anche che potevano agire così perché non erano abituati a conservare il cibo, davano poca importanza all’accumulazione di ricchezza o di status
    e lavoravano quasi solo per far fronte alle proprie esigenze materiali a breve termine.

    Mentre il punto di vista economico è concentrato sull’idea che siamo tutti condannati a vivere nel purgatorio che si estende tra le nostre esigenze infinite
    e i nostri mezzi limitati, i cacciatori-raccoglitori avevano pochi desideri materiali,
    che potevano essere soddisfatti con uno sforzo di poche ore.

    La loro vita economica era organizzata sul postulato dell’abbondanza, invece che sull’ossessione della scarsità.

    E se le cose stanno così, ci sono buoni motivi per credere che, poiché i nostri antenati hanno cacciato e raccolto cibo per oltre il 95 per cento dei 300 000 anni di storia dell’Homo sapiens, le radici degli assunti sulla natura umana e il problema della scarsità, e dei nostri atteggiamenti verso il lavoro, risalgano alla nascita dell’agricoltura…”

    Ora direte per questa “bassa entropia” e decrescita
    (Miguel: “…Abbiamo raggiunto il picco delle risorse.
    Bisogna scendere, perché effettivamente bisogna scendere di qualche gradino…”)

    per molti necessaria da realizzare dobbiamo tornare all’impossibilità concreta di uno stile da cacciatore-raccoglitore?

    E’ una risposta semplicistica e tranchant.

    Žižek ne “In difesa delle cause perse”, e “Vivere alla fine dei tempi”
    alle domande oziose e inopportune tipo “Che fare ora?”
    ha sempre risposto:
    “Non aspettatevi risposte da me.
    Non credo che il compito di uno come me sia di proporre soluzioni complete.
    Quando la gente mi chiede che cosa fare sul piano economico, io che diavolo ne so? Penso che il compito di gente come me non sia di fornire delle risposte,
    ma di porre le domande giuste”.
    La risposta “Perché lo chiedi a me?”

    Lavandosene – giustamente? – le mani.

    • Andrea Di Vita scrive:

      @ Ros

      “E la Seconda legge della termodinamica sottolinea che nel corso del tempo l’entropia, come il perfido imbroglione della mitologia norrena, il dio Loki, produrrà un’apocalisse:
      non distruggendo l’universo, ma piuttosto perché, una volta raggiunto l’obiettivo di spalmare uniformemente nell’universo tutta l’energia, non rimarrà più energia libera, e il risultato sarà la fine della possibilità di compiere qualsiasi lavoro nel senso attribuito dalla fisica a questa parola”

      Si può approfondire. Mi converrà citare a proposito chi ne sa più di me:

      “For the battle array of organic evolution is presented to our view as an assembly of armies of energy transformers-accumulators (plants), and engines (animals); armies composed of multitudes of similar units, the individual organisms. The similarity of the units invites statistical treatment,
      the development of a statistical mechanics of which the units shall be, not simple material particles in ordinary reversible collision of the type familiar in the kinetic theory, collisions in which action and reaction were equal; the units in the new statistical mechanics will be energy transformers subject to irreversible collisions”

      A. J. Lotka, Proc. Natl. Acad. Sci. U S A. 8 (6), 151-154 (1922)

      Notiamo che Lotka è – col matematico italiano Volterra, che per primo applico’ la teoria all’evoluzione del pescato nei porti delle Marche nonostante il bando fascista degli Ebrei dall’università – il padre della dinamica delle popolazioni.

      Lotka scrive anche:

      “If sources are presented, capable of supplying available energy in excess of that actually being tapped by the entire system of living organisms, then an opportunity is furnished for suitably constituted organisms to enlarge the total energy flux through the system. […] natural selection will so operate as
      to increase […] the rate of circulation of matter through the system, and to increase the total energy flux through the system, so long as there is presented an unutilized residue of matter and available energy […] natural selection tends to make the energy flux through the system a maximum, so far as compatible with the constraints to which the system is subject […] the term ‘energy flux’ is here used to denote the available energy absorbed
      by and dissipated within the system per unit of time”

      A. J. Lotka, Proc. Natl. Acad. Sci. June 8 (6) 147-151 (1922)

      Massimizzare lo ‘energy flux’ equivale a massimizzare la quantità di energia disponibile per unità di tempo al funzionamento del sistema. (Tale energia disponibile viene spesso chiamata ‘energia libera’ o ‘exergia’, ma attenti alle diverse definizioni dei vari autori). In biologia, lo ‘energy flux’ sostiene il tasso metabolico, cioè la quantità di energia per unità di tempo di cui un essere vivente abbisogna per mantenere operativo il proprio organismo).

      Ovviamente maggiore il tasso metabolico, maggiore l’entropia prodotta nell’unità di tempo (che è uguale al tasso metabolico diviso la temperatura dell’organismo). Se dopo una giornata l’organismo è esattamente nelle condizioni di partenza allora la sua entropia non è cambiata, il che vuol dire che l’entropia prodotta (‘entropy generation’) l’ha buttata tutta nel mondo esterno.

      (In realtà un pochino di entropia resterà nell’organismo, e il suo accumulo girono dopo giorno produce l’invecchiamento).

      Dunque un sistema biologico dovrebbe tendere a massimizzare la ‘entropy generation’.

      Alcuni sostengono che la massimizzazione della ‘entropy generation’ non è una prerogativa dei soli sistemi biologici. Secondo tale punto di vista, per esempio, un fiume cercherà sempre nel suo corso di produrre il massimo disordine possibile negli argini che lo limitano, o con le buone (nel suo stato stazionario stabile in cui scorre tranquillo) o con le cattive (esondando). Tale regola è stata applicata alle alluvioni prodotte dal fiume Tànaro:

      U. Lucia, P. Buzzi, G. Grazzini, Irreversibility in River Flow Intl. J of Heat
      and Technology, 34, Special Issue 1, pp.S95-S100 (2016)

      Molti anni dopo Lotka, quando a Bikini la contaminazione scese a sufficienza fu mandata una squadra di biologi per studiare come la vita si riappropriava di quello che restava dell’atollo. Uno dei ricercatori di quella squadra, Odum, ricavò da quell’esperienza l’idea che l’ecologia si sviluppasse secondo reti di relazioni fra viventi che seguivano le stesse leggi che regolano il corto circuito nei circuiti elettrici, spingendosi fino a realizzare dei modellini degli ecosistemi californiani fatti di resistenze e condensatori ed alimentati a energia fotovoltaica. Tempo dopo, Odum riassunse così la sua idea:

      “energy dissipated in organization also has an optimum for maximum power where the power output is a dissipative process”

      H. T. Odum, Ecological Modelling, 20 (1983) 71-82

      In altre parole, come non appena se ne offre l’opportunità un circuito sotto tensione va in corto e scarica la potenza del generatore in una bella scintilla, così la vita non appena può trova nuovi sistemi (occupazione di nuove nicchie ecologiche, mutazioni…) per aumentare il tasso metabolico totale e produrre così più entropia da buttare verso l’esterno. Come dice il matematico di “Jurassic Park”, ‘la vita trova sempre una via’.

      Esiste un risultato di Odum che è ben noto agli elettrotecnici ma non agli ecologi. Tradotto in termini biologici:

      lo stato di massimo tasso metabolico non è MAI lo stato di massima efficienza.

      L’efficienza massima (l’eliminazione di ogni spreco) in un organismo la si ottiene – come è noto dal liceo – soltanto per trasformazioni quasi-statiche, ossia estremamente lente. In questo caso l’energia prodotta per unità di tempo tenderebbe a zero perché l’energia totale prodotta a partire dalle risorse disponibili è prodotta in un tempo estremamente lungo.

      La tartaruga batte la lepre, ma la favola non dice cosa successe quando dopo la gara arrivò il falco.

      Ne segue che i sistemi viventi coronati dal successo dell’evoluzione sono sempre un po’ inefficienti, un poco scassati.

      E’ vero che ciascuno tende a consumare e a stressarsi il meno possibile dati i vincoli. Chi si stressa inutilmente si fa del male da solo. Come dice Zipf:

      “any person […] will strive to solve his problems in such a way as to
      minimize the total work that he must expend in solving both his immediate problems and his probable future problems. That in turn means that the person will strive to minimize the probable average rate of his work-expenditure over time. And in so doing he will be minimizing his effort. […] Least effort, therefore, is a variant of least work”

      G. K. Zipf, Human Behavior and the Principle of Least Effort, Cambridge,
      MA: Addison-Wesley (1949)

      Questo principio di minimo sforzo regola la distribuzione della popolazione delle città, ma anche la distribuzione delle parole nel vocabolario e la distribuzione della ricchezza.

      Ma in vincoli includono appunto la necessità di competere, per cui i consumi e lo stress non possono ridursi oltre un certo limite.

      E’ possibile quindi che nei sistemi viventi (e umani, e naturali…) che sopravvivono alla competizione coesistano Lotka&Odum da una parte e Zipf dall’altra, la massimizzazione dell’entropia buttata all’esterno verso l’ambiente per unità di tempo e la minimizzazione dello stress – cioè dello sforzo, cioè degli sprechi, cioè dell’entropia prodotta all’interno per unità di tempo dall’altra.

      Ancora più di recente, DeLong ha eseguito degli esperimenti di laboratorio in cui si studia la coesistenza di due specie di microorganismi che occupano la stessa nicchia ecologica in un ambiente a condizioni di luce, umidità, contenuto di alimenti ecc. controllate e fisse. DeLong scrive:

      “Organisms maximize fitness by maximizing power. With greater power, there is greater opportunity to allocate energy to reproduction and survival,
      and therefore an organism that captures and utilizes more energy than another organism in a population will have a fitness advantage […] a winning species uses more power at its steady-state density than the losing species uses at its steady-state density […] if coexistence occurs, it will be characterized by community-level power that exceeds the highest-power competitors when grown in isolation”

      J. P. DeLong, Oikos 117: 1329-1336 (2008)

      Il limite dichiarato degli esperimenti di DeLong è che le risorse sono mantenute appositamente costanti nel tempo. Se le risorse sono limitate, e dunque si consumano, si è proposto come criterio di sopravvivenza il ‘maximum power principle’ venga sostituito dall’ ‘optimum power principle’. Questo sito – che sono sicuro piacerà molto – ne parla in modo chiaro

      https://www.resilience.org/stories/2021-10-19/evolution-and-climate-change-through-the-lens-of-power/

      Ciao!

      Andrea Di Vita

  5. Ros scrive:

    dalle dinamiche economiche basate sulla scarsità e non sull’abbondanza,
    come Mito fondante dall’agricoltura in avanti, e della “necessaria” pena del lavoro come fase entropica dovuta di G//aua, del Trickster prometeico
    (vedi ancora James Suzman) torniamo ora all’inedito “reincantatorio”
    della Dépense di Bataille.
    (e a Marcel Mauss, Potlatch, sacrifici festosi e dissiMark Fisher in “Realismo capitalista”
    propone re-incanti individuali “Weird and Eerie” alla Gaston Bachelard,
    e Albert Beguin di “L’anima romantica e il sogno”
    (e va già decisamente meglio!).

    “che ognuno sia il cambiamento che vorrebbe vedere nel mondo”
    detto in pensierini.

    Su come si sia conclusa la sua vicenda biografica – di Fisher –
    (insieme, per dirne uno su mille, a quella di Deleuze…)
    alla luce del centauro Sileno e di James Hillman con “Il suicidio e l’anima”,
    sarebbe puerile giudicarne ogni conclusione.

    Ma qui che ci re-incantiamo di “Immaginazione Creatrice” corbiniana

    pazione sacra, eccetera)

    In sunto: la Dépense è il modo migliore di spendere la fase entropica dell’energia eccedente nel suo modo più basso e limitato da conseguenze ulteriori e circoli viziosi esponenziali che nei miti porteranno fatalmente ad una Apocalisse resettatrice e ripristinatrice ad una versione entropicamente più bassa da dove poter nuovamente ripartire come nel Mito di Sisifo .

  6. Ros scrive:

    …il resto non me lo passa manco a spizzichi di due righe

    manca tutta la parte finale , ma pazienza, così è😀

  7. Ros scrive:

    Miguel ti pregherei cortesemente di cancellare tutti i commenti precedenti.
    cosi sono un incomprensibile guazzabuglio, e a furia di parcellizzarli devo pure averli montati male😀
    Grazie (si vede che non è cosa😀)

  8. Andrea Di Vita scrive:

    @ Martinez

    Sul tema del Re-incanto applicato alla più politica delle cose umane, la guerra (ma non solo a quella), il Lewis di Narnia dedica un intero saggio (C.S.Lewis, “Talking About Bycicles”, in “Present Concerns” Fount Paperbacks, London 1986, pp. 69-72), di cui vado a riportare alcuni passi:

    “Unenchanted Age: there was a time when women meant nothing to us. Then we fell in love; that, of course, was the Enchantment. Then, in the early or middle years of marriage there came – well. Disenchantment. All the promises had turned out, in a way, false. No woman could be expected ~ the thing was impossible ~ I don’t mean any disrespect either to my own wife or to yours. But […] I don’t think I could explain to a bachelor how there comes a time when you look back on that first mirage, perfectly well aware that it was a mirage, and yet, seeing all the things that have come out of it, things the boy and girl could never have dreamed of, and feeling also that to remember it is, in a sense, to bring it back in reality, so that under all the other experiences it is still there like a shell lying at the bottom of a clear, deep pool – and that nothing would have happened at all without it – so that even where it was least true it was telling you important truths in the only form you would then understand […] Isn’t it immensely important to distinguish Unenchantment from Disenchantment – and Enchantment from Re-enchantment? In the poets for instance. The war poetry of Homer or The Battle of Maldon, for example, is Re-enchantment. You see in every line that the poet knows, quite as well as any modern, the horrible thing he is writing about. He celebrates heroism but he has paid the proper price for doing so. He sees the horror and yet sees also the glory. In the Lays of Ancient Romey on the other hand, or in Lepanto^(]o\\y as Lepanto …[] one is still enchanted: the poets obviously have no idea what a battle is like. Similarly with Unenchantment and Disenchantment. You read an author in whom love is treated as lust and all war as murder – and so forth. But are you reading a Disenchanted man or only an Unenchanted man? Has the writer been through the Enchantment and come out on to the bleak highlands, or is he simply a subman who is free from the love mirage as a dog is free, and free from the heroic mirage as a coward is free? If Disenchanted, he may have something worth hearing to say, though less than a Re-enchanted man. If Unenchanted, into the fire with his book. […]”

    “I was just wondering whether the Enchantment which you claim to look back on from the final stage was often no more than an illusion of memory. Doesn’t one remember a good many more exciting experiences than one has really had.?”

    “Why yes. In a sense. Memory itself is the supreme example of the four ages. Wordsworth, you see, was Enchanted. He got delicious gleams of memory from his early youth and took them at their face value. He believed that if he could have got back to certain spots in his own past he would find there the moment of joy waiting for him. You are Disenchanted. You’ve begun to suspect that those moments, of which the memory is now so ravishing, weren’t at the time quite so wonderful as they now seem. You’re right. They weren’t. […] It was the merest Enchantment to suppose that any human beings, trusted with uncontrolled powers over their fellows, would not use it for exploitation; or even to suppose that their own standards of honour, valour, and elegance (for which alone they existed) would not soon degenerate into flash- vulgarity. Hence, rightly and inevitably, the Disenchantment, the age of Revolutions. But the question on which all hangs is whether we can go on to Re-enchantment.”

    https://archive.org/details/presentconcerns00csle/page/68/mode/2up?view=theater&q=enchantment

    Ciao!

    Andrea Di Vita

  9. Francesco scrive:

    Miguel,

    trovo divertente come la frase “un altro mondo è possibile” abbia significati completamente diversi a seconda di chi è ad affermarla. Credo che alla fine sia totalmente priva di senso, perchè se tutti siamo d’accordo ma le diamo un significato diverso … non è questa la definizione di non senso?

    Cosa ne dici?

    • Andrea Di Vita scrive:

      @ Francesco

      “divertente”

      Mi ricordo un meraviglioso titolo di The Economist di qualche anno fa:

      “Un altro mondo è possibile. Chi lo paga?”

      Ciao!

      Andrea Di Vita

      • Miguel Martinez scrive:

        ““Un altro mondo è possibile. Chi lo paga?””

        Questo mondo c’è.

        Chi l’ha pagato, chi lo sta pagando e chi lo pagherà?

        • Andrea Di Vita scrive:

          @ Martinez

          “pagato”

          Noi meno di altri.

          Se ha ragione Pareto, il libero mercato è un ottimo, appunto, di Pareto, il migliore dei mondi possibili una volta realizzato il quale se si applica una qualsiasi modifica qualcuno sarà comunque danneggiato.

          Nella realtà, tuttavia, si produce una distribuzione di ricchezza stabile ma diseguale, descritta dal principio di Pareto. In tale distribuzione una ristretta fetta di umanità ha accesso a risorse cui la grande maggioranza non ha accesso.

          Ciò può avvenire o perché è il principio di Pareto è intrinseco al libero mercato – e allora o si fa una rivoluzione mondiale come sognava Trotzki o non se ne esce, come vogliono i trotzkisti – oppure, al contrario, perché il libero mercato non è realizzato perfettamente e non possiamo quindi godere dei frutti della sua perfezione – il che è la tesi dei liberisti.

          Il guaio è che il libero mercato non si ottiene come diceva Bentham e come dicono oggi i liberisti, cioè come risultato automatico della somma dell’interesse dei singoli che cercano ciascuno il proprio vantaggio. In tal modo infatti non si ottiene un ottimo di Pareto ma un ottimo di Nash, una situazione cioè ottenuta la quale chi applica qualunque modifica verrà danneggiato/a lui/lei in primo luogo.

          I due ottimi non coincidono (è aver dimostrato questo che è valso il Nobel a Nash). Per passare dall’ottimo di Nash a quello di Pareto ci vuole una decisione collettiva in cui ciascuno rinuncia a una parte di benefici .

          La sinistra riformista – che appunto non è rivoluzionaria – sostiene che per fare beneficiare davvero tutti dei benefici dell’ottimo di Pareto – cioè del libero mercato – deve intervenire un’azione collettiva che non è la semplice risultante degli interessi individuali: e ci può pensare solo lo Stato.

          Sempre di ottimi, comunque, stiamo parlando: di situazioni cioè in cui gli sprechi sono minimizzati, e così lo stress a livello individuale a parità di risultato. Che questi ottimi siano compatibili con la vita, a lungo termine è dubbio, come ho accennato nel mio lungo post in risposta a Ros dove parlo di Lotka e Odum.

          Ciao!

          Andrea Di Vita

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