Il problema delle utopie

Un saggio di Ewan Morrison su Areomagazine, che vale la pena di leggere, in particolare in questo momento in cui le utopie non sono più fantasie marginali, ma il discorso centrale di “come ricostruire il mondo dopo il Covid”.

Alla radice delle utopie, giustamente, non ci sono teneri sovversivi estremisti, ma – come dice Morrison – “la tradizione illuminista, con il suo sogno di una scienza totale del genere umano e di una società perfettamente pianificata.” E potremmo aggiungere, di tutta la cultura tecnoscientifica e dell’immaginazione capitalista.

E poi uno che prova lo stesso senso di alienazione di fronte a Imagine dei Beatles è un po’ un fratello per me.

Per motivi di tempo, ve lo consegno in traduzione DeepL, con appena un’occhiata per controllare, perdonate quindi eventuali stranezze.

Perché dobbiamo allontanarci da Omelas: Il problema delle utopie

La storia della narrativa utopica dimostra che non possiamo nemmeno immaginare un mondo migliore.

Mentre la politica progressista fa un altro passo verso il dominio in tutto l’occidente, c’è stata un’altra rinascita dell’utopismo. La rivoluzione francese è invocata nella Zona Autonoma di Seattle; si parla ancora una volta di abolire le forze di polizia e le prigioni; e di avere un’economia verde globale autosufficiente. L’OMS sostiene addirittura che la pandemia di Covid-19 potrebbe portarci verso un “mondo più sano, più giusto e più verde”.

Tali dichiarazioni sono echi di ideali di centinaia di anni fa che provengono dal manuale dell’immaginazione utopica. C’è una generale convinzione moderna che l’ideale dell’utopia sia l’obiettivo che sta dietro tutte le manifestazioni di progresso che, come dice Oscar Wilde, “una mappa del mondo che non includa l’Utopia non vale nemmeno la pena di essere guardata”.

Ma come sono in realtà tutte le utopie immaginate dal 1500 ad oggi?

Qualcuna di esse è praticabile, vivibile? Dopo tutto, il cambiamento politico e la giustizia sociale devono avere un obiettivo: non sarebbe saggio cercare di cambiare le nostre società senza un’idea di come potrebbe e dovrebbe essere la società futura perfetta.

Si potrebbe immaginare che ci sia un mondo vasto, ricco e vario di utopie nella narrativa, un’enorme mappa di possibilità, ma in realtà il genere non è solo minuscolo, ma poco fantasioso, ripetitivo e formulaico. La narrativa utopica è un testamento involontario del fallimento dell’immaginazione utopica e, cosa importante, questo potrebbe avere un’influenza sulla politica che individua l’Utopia (consciamente o inconsciamente) come una destinazione per l’umanità.

La narrativa utopica è un genere impopolare per una buona ragione

La narrativa utopica ha prodotto pochissime opere di alta qualità e durature: appena quaranta negli ultimi cinquecento anni. Nessuna ha raggiunto la visibilità del tomo pioniere del genere: Utopia di Thomas More (1519). Persino il titolo di More indica l’impossibilità di realizzare un tale luogo: utopia significa “da nessuna parte” (dal greco ou “non” e topos “luogo”).

Una delle ragioni per cui le utopie sono così impopolari è che – a differenza delle distopie – presentano poche buone opportunità per la narrazione e le linee della trama. Le utopie hanno pochissima avventura o pericolo.

Persino i classici sono rigidi, con quasi nessuna azione o tensione e narrazioni che sono in realtà solo saggi pieni di esposizione didascalica, come si può vedere in Nuova Atlantide, L’isola dei pini, Utopia, La descrizione di un nuovo mondo chiamato mondo fiammeggiante, Il viaggio in Icaria, Erewhon, Guardando indietro, Walden Due, Una moderna utopia di H. G. Wells e L’isola di Aldous Huxley.

Tutte queste fiction descrivono utopie in cui le emozioni umane di invidia, lussuria, odio e avidità sono scomparse, e tutte usano esattamente la stessa pedante struttura narrativa.

In ognuna, uno straniero scopre un paradiso tagliato fuori dal mondo (dal mare, dalle montagne, dal ghiaccio o dai pianificatori sociali). Allo straniero (o agli stranieri) viene poi offerta una visita guidata da un abitante (o abitanti) utopico in cui le leggi, i costumi e l’economia di questo paradiso sono spiegati in grande dettaglio. Il protagonista è ridotto a un semplice cifrario per l’autore del saggio, che pone domande come: “ditemi, vi supplico, come vengono riscosse le vostre tasse?”-Mercier, The Year 2440 (1771)- e “ammetto la rivendicazione di questa classe alla pietà, ma come potrebbero coloro che non hanno prodotto nulla rivendicare una parte del prodotto come diritto?”-Bellamy, Looking Backward (1888).

Questo stanco espediente letterario arranca dall’originale Utopia di More del 1516 al romanzo comportamentista Walden Two di B. F. Skinner del 1942, in cui il protagonista pone alle sue guide turistiche più di duecento domande, tra cui: “Ma cosa ci guadagnano i bambini?” e “Non potreste inavvertitamente insegnare ai vostri figli alcune delle stesse emozioni che state cercando di eliminare?”

Quel poco di trama che c’è nella narrativa utopica di solito non è altro che un dibattito nella mente del protagonista, nelle ultime pagine, se rimanere o meno nella società perfetta. Questo piccolo dilemma è a volte aumentato dall’avere lo straniero accompagnato da uno o due altri, del vecchio mondo, che hanno opinioni diverse sull’utopia. Questo è tutto per il dramma. Infatti, come protesta un personaggio dell’utopia tutta femminile Herland (1905) di Charlotte Perkins Gilman, in Utopia “non c’ dramma nelle loro opere”. Poiché tutti i conflitti sono stati cancellati dalla società utopica, non c’è nessuna storia con cui un lettore possa relazionarsi. C’è solo il compito di leggere dell’efficiente svolgimento di queste vite perfettamente pianificate, ma del tutto prive di eventi.

Per quanto riguarda gli abitanti della narrativa utopica, non sono mai personaggi credibili, con profondità emotiva o complessità psicologica, proprio perché sono senza difetti. In tutti i 500 anni del genere, i personaggi si presentano uniformemente o come gente a cui hanno fatto il lavaggio del cervello o insipidi o come automi da guida turistica, che parlano dei piani di perfezione dell’autore.

Non ci sono individui reali nella narrativa utopica, nessuno memorabile – il genere richiede che sia così. Questo è vero tanto nell’Armonia Universale di Charles Fourier (1772-1837) quanto ne L’isola di Aldous Huxley (1962). Nel paradiso delle scienze comportamentali di B. F. Skinner, i personaggi godono di “relazioni sociali piacevoli e proficue su una scala quasi inimmaginabile nel mondo in generale”, sono stati modificati geneticamente o comportamentalmente e devono – secondo i requisiti del genere – essere senza rabbia e le “emozioni meschine che mangiano il cuore [degli umani non utopici]”. Perché se gli abitanti di Utopia fossero come il resto di noi – afflitti da ambizioni, avidità, invidia, risentimento e lussuria – l’utopia crollerebbe presto di nuovo alla civiltà conflittuale in cui già viviamo. Il risultato è che i personaggi di tutte le utopie fittizie sono così impeccabili da non essere né coinvolgenti, né tantomeno umani.

I trucchi linguistici della narrativa utopica

Ancora e ancora, la narrativa utopica impiega due trucchi linguistici nei suoi tentativi di immaginare la società inimmaginabile: una dipendenza dalla ripetizione iperbolica di aggettivi che significano cose positive, come bello, gioioso e sano; e un uso ripetitivo di negativi negati per dedurre cose positive: in Utopia, non c’è guerra, nessun ego, nessuna avidità, ecc.

News from Nowhere (1890) di William Morris è un caso di studio nel desiderare l’esistenza di un’utopia con nient’altro che il trucco linguistico degli aggettivi positivi. I suoi abitanti utopici sono “persone belle, dall’aspetto sano, uomini, donne e bambini vestiti allegramente… con un interesse compiaciuto e affettuoso” e “risate musicali“, che abitano “questo paese bello e felice” che offre “una ricchezza infinita di belle viste, e suoni e profumi deliziosi”.

L’intera utopia di Morris è costruita sull’aggettivo bello. I bambini sono descritti ancora e ancora come belli, la pelle degli abitanti è bella, le braccia delle donne sono belle, così come lo sono le monete, i cavalli, i fiumi, i campi, gli oggetti di vetro, i piatti, i giardini di rose, i “libri estremamente belli”, il tempo, le donne sagge, le giovani donne, le foreste e l’architettura:

“Tutta questa massa di architettura che avevamo incontrato così all’improvviso tra i campi piacevoli non era solo squisitamente bella in sé, ma portava su di sé l’espressione di una tale generosità e abbondanza di vita che mi ha esaltato ad un livello che non avevo ancora raggiunto”.

Anche le giovani ragazze possiedono una bellezza unica che “non era solo bella”.

Se si togliesse l’aggettivo bello dall’utopia di Morris, crollerebbe. Un’altra utopia completamente dipendente dalla dichiarazione di positività e dal ricamo di aggettivi felici è Lost Horizon (1933) di James Hilton. Il nome della sua utopia è entrato nella lingua: Shangri-La.

Shangri-La è un luogo di “totale bellezza”. Le guide del protagonista sono “di buon umore e leggermente curiose, cortesi e spensierate” mentre visitano “una delle comunità più piacevoli… mai viste”. Gli abitanti di Shangri-La vivono per duecentocinquanta anni: “Tra decenni, non vi sentirete più vecchi di quanto siete oggi – potete conservare … una lunga e meravigliosa giovinezza … raggiungerete calma e profondità, maturità e saggezza”.

La meglio scritta e più fantasiosa di tutte le utopie è Herland (1915) di Charlotte Perkins Gilman, ma anch’essa dipende quasi completamente dallo stesso trucco di mettere insieme lunghe liste di aggettivi felici. In questa utopia collettivista partenogenetica interamente femminile, i bambini sono “piccole creature vigorose, gioiose e desiderose”, che “conoscono la pace, la bellezza, l’ordine, la sicurezza, l’amore, la saggezza, la giustizia, la pazienza e l’abbondanza”, in un “mondo grande, luminoso e amichevole pieno delle cose più interessanti e incantevoli da imparare e da fare”, in cui “le persone ovunque sono amichevoli e gentili”.

Il romanzo utopico femminista “Herland” fu pubblicato per la prima volta a puntate sulla rivista di Perkins Gilman “The Forerunner” (1915)

Gli adulti di Herlander sono ulteriori stringhe di aggettivi: “alti, forti, sani e belli”, con “pace e abbondanza, ricchezza e bellezza, bontà e intelletto”. Di nuovo, c’è l’affidamento sulla ripetizione della bellezza come descrittore, nella “ricca, pacifica bellezza di tutta la terra”.

Herland crea anche la sua utopia semplicemente negando le cose che l’autore associava ad esperienze negative. Così non ci sono “bestie selvagge”, “nessun criminale”, “nessuna malattia infantile”, “nessun alcol”, “nessun tabacco”, “nessuna competizione” e gli abitanti non hanno “nessun sentimento sessuale” e “nessun sesso”. Non c’è “nessun matrimonio” e le loro case sono completamente a prova di bambino (come altre utopie, questa ha più di un tocco di infantilizzazione) con “niente che faccia male, niente scale, niente angoli, niente piccoli oggetti da ingoiare, niente fuoco“. E, naturalmente, questo paradiso non contiene l’elemento più dirompente di tutti. Non c’è “nessun posto per gli uomini”.

Le negazioni hanno una lunga e prevedibile tradizione che si estende fino al ventesimo secolo e all’inno utopico hippie di John Lennon “Imagine“, con il suo “niente avidità o fame”, “niente per cui uccidere o morire”, “niente paesi”, “niente possedimenti” e “anche niente religione”.

Come una società che ha sradicato così tante cose negative possa essere raggiunta dagli esseri umani, non viene mai spiegato perché se lo fosse vedremmo la domanda che si nasconde sotto tutto questo: cosa si deve fare con quegli esseri umani che non rientrano nel piano utopico?

Sradicare i non utopisti

Le conseguenze reali della cancellazione dei negativi diventano evidenti in un’utopia che è quasi interamente definita da ciò che non è: L’isola di Aldous Huxley (1962). In questo paradiso tropicale perduto in cui il buddismo è fuso con il tantra, gli abitanti “non combattono guerre”, non c’è “nessuna chiesa stabilita”, non ci sono “politici o burocrati onnipotenti”, nessun “capitano d’industria o finanzieri onnipotenti” o “nessun tipo di dittatore”. Come si può ottenere tutto questo? Huxley è un po’ più coraggioso di quegli scrittori utopici che aggirano le conseguenze reali della cancellazione delle negatività: egli sostiene di sbarazzarsi delle persone cattive “migliorando la razza“.

Lo spettro del controllo della popolazione infesta anche Limanora: The Island of Progress (1903) di Godfrey Sweven. L’isola di Limanora è un’utopia scientifica, in cui i progressi tecnologici hanno creato computer avanzati, comunicazione e viaggi per una razza che sperimenta una grande longevità. Sweven spiega: “L’elemento progressivo nell’umanità è stato trascinato indietro dal peso morto del criminale, del malato, del povero abituale e dell’incompetente naturale”. La sua utopia fu creata attraverso l’applicazione del “segreto dell’idillio”: la sterilizzazione.

Come Sweven, H. G. Wells nelle sue Anticipazioni (1901) prende molto sul serio l’eliminazione di tutti gli elementi negativi dalla sua utopia immaginata, e non ha paura del costo umano. “Le persone che non possono vivere felicemente e liberamente nel mondo senza rovinare la vita degli altri”, scrive, “sono meglio fuori di esso”.

L’utopia di Wells richiede la sterilizzazione obbligatoria dei non idonei. Più tardi, nel suo A Modern Utopia (1905), Wells si chiede,

“cosa farà l’Utopia con i suoi invalidi congeniti, i suoi idioti e pazzi, i suoi ubriaconi e uomini dalla mente viziosa, le sue anime crudeli e furtive, la sua gente stupida, troppo stupida per essere utile alla comunità, la sua gente grassa, non educabile e senza immaginazione? E che cosa farà con l’uomo che è “povero” a tutto tondo, l’uomo di bassa categoria piuttosto privo di spirito e piuttosto incompetente che sulla terra siede nella tana del maglione, calpesta le strade sotto la bandiera dei disoccupati.”

La soluzione di Wells è che

“la specie deve essere impegnata ad eliminarli; non c’è scampo, e viceversa le persone di qualità eccezionale devono essere ascendenti”.

Wells porta la formula di sbarazzarsi dei negativi che si trova in Morris, More, Bacon, Rousseau e Gilman Perkins alla sua conclusione nell’omicidio sistematico di coloro che non si adattano alla narrazione utopica. H. G. Wells, non dobbiamo dimenticare, era uno degli “utili idioti” di Joseph Stalin. Ebbe un amichevole incontro faccia a faccia con il dittatore genocida a Mosca nel 1934 – non è chiaro se Wells fosse al corrente che il regime di Stalin aveva ucciso 6-7 milioni di persone nei due anni precedenti, durante la carestia ucraina indotta artificialmente.

La ragione per cui così tanti di questi scrittori usavano gli stessi tropi e avevano le stesse convinzioni è che le loro idee scaturivano dalla stessa fonte: la tradizione illuminista, con il suo sogno di una scienza totale del genere umano e di una società perfettamente pianificata. Condorcet scrive nel suo Outlines of an Historical View of the Progress of the Human Mind (1795), “questa perfezione della specie umana potrebbe essere capace di un progresso indefinito”, “verrà il tempo in cui il sole splenderà solo sugli uomini liberi” e questo sarà raggiunto attraverso “l’annientamento dei pregiudizi”. Durante il Regno del Terrore della Rivoluzione francese, l’annientamento dei pregiudizi comportava anche l’annientamento delle vite di coloro che si pensava avessero dei pregiudizi. Il sole di Condorcet non brillava sui 18.000 morti.

Il sogno illuminista di una specie umana perfettibile trovò la sua logica conclusione nel pensiero dell’influente Sir Francis Galton (1822-1911): polimatico, meteorologo, antropologo, inventore e mezzo cugino di Charles Darwin, un autodefinitosi progressista e proto-genetista. Le idee dell’Illuminismo e di Galton si trovano nella maggior parte delle fiction utopiche dal 1800 fino alla seconda metà del XX secolo.

Le teorie di Galton sulla stabilizzazione della popolazione e sul miglioramento genetico della specie umana si sono evolute nell’eugenetica. L’eugenetica fece apparire come una possibilità di vita reale i bambini belli, superintelligenti, senza malattie e forti che gli scrittori utopisti avevano immaginato per secoli. Questo filone di pensiero portò direttamente all’introduzione di una legge sulla sterilizzazione eugenetica nel 1933, sotto Adolf Hitler, e all’eliminazione degli “indesiderabili genetici” nella Soluzione Finale nazista.

Questo non è né un incidente della storia né una coincidenza. Hitler era anche il creatore di una finzione utopica. Il suo Terzo Reich, con la sua immaginaria città di Germania, era la tragica conclusione di quei due filoni del pensiero utopico: l’iperbole positivistica e la negazione del negativo. Della sua utopia, scrive,

“la Crimea ci darà i suoi agrumi, il cotone e la gomma … Il Mar Nero ci porterà un mare la cui ricchezza i nostri pescatori non esauriranno mai. Diventeremo lo stato più autosufficiente … del mondo. Avremo legname in abbondanza, ferro in quantità illimitata, le più grandi miniere di manganese del mondo, petrolio, ci nuoteremo dentro”.

Ora sappiamo che il suo euforico sradicamento dei negativi era un vero e proprio genocidio. Di conseguenza, dopo la seconda guerra mondiale, la tradizione utopica cadde in disgrazia.

I suoi problemi, tuttavia, sono stati presenti fin dall’inizio del genere. Il primo testo utopico, la Repubblica di Platone (360 a.C.), che descrive uno stato perfettamente pianificato, progettato per creare pace, armonia e giustizia per tutti, ma in cui gli artisti sono banditi a morire nel deserto, mogli e figli sono proprietà comune, il legame genitori-figli è vietato e l’eugenetica è applicata attraverso la riproduzione selettiva sotto una dittatura militare governata da un re filosofo:

“la sposa e lo sposo devono impegnarsi a produrre per lo stato figli della massima bontà e bellezza possibile”.

L’utopia di Platone è anche tenuta insieme dalla “nobile menzogna” – una politica di mentire sistematicamente ai cittadini, “per tenerli contenti nei loro ruoli”. Tutti i ruoli sono dettati e imposti dall’alto. Questa prima utopia è uno stato totalitario costruito sull’eugenetica, ed è il pozzo profondo da cui tutte le utopie future attingono le loro idee.

Anche un’utopia antistatalista come quella del Digger, Gerrard Winstanley, The Law of Freedom in a Platform (1651), nasconde generalmente un piano tirannico. Nella sua utopia, in cui il denaro è abolito, chiunque compri o venda qualcosa o amministri la legge per denaro o ricompensa deve essere giustiziato.

Le finzioni distopiche sono più utili socialmente

Mentre la narrativa utopica è bloccata nella sua forma rigida, la narrativa distopica si è espansa in centinaia di direzioni narrative dalle sue radici nella visione tragica del mondo che abbiamo ereditato dalle teorie della tragedia drammatica di Aristotele. Queste forme narrative si basano sull’hamartia e sul pathos: gli eventi tragici si svolgono come risultato dei difetti fatali di personaggi credibili per i quali sentiamo e temiamo. I mondi narrativi che si basano su difetti fin troppo umani sono di solito sia credibili che enormemente avvincenti, non importa quanto futuristici o fantastici possano essere.

Le fiction distopiche sono centinaia di migliaia: ci sono più di trecento classici e centinaia di migliaia di fan hanno creato le loro distopie online. Un solo sito web contiene 37,8 mila fan fictions di The Hunger Games. I film basati su finzioni distopiche sono un vasto fenomeno socio-economico e culturale (vedi The Hunger Games, Blade Runner, Aliens, Logan’s Run, The Matrix, 1984, Divergent, The Giver). Il marchio Marvel è il singolo franchise culturale più grande del mondo ed è essenzialmente distopico.

Mentre la narrativa utopica ha ispirato esperimenti falliti e spesso orribili di ingegneria sociale, l’impatto sulla vita reale della narrativa distopica si è dimostrato, ironicamente, estremamente utile dal punto di vista sociale. Nel dibattito democratico quotidiano, usiamo metafore e frasi della narrativa distopica come strumenti di navigazione e per porre dei limiti contro l’oppressione. Parliamo dell’invasione della sorveglianza governativa facendo riferimento al Grande Fratello e a 1984.

Mettiamo in guardia dalla militarizzazione dell’intelligenza artificiale facendo riferimento a Terminator. Discutiamo se Matrix predice un futuro post-umano e parliamo di prendere la pillola rossa. Teniamo a bada gli esperimenti di splicing genetico umano mettendo in guardia su ciò che è successo in Aliens, The Fly e Blade Runner.

Usiamo distopie ambientali come The Road, Day of the Triffids, Mad Max e The Day After Tomorrow per avvertire la gente dei cambiamenti climatici, e usiamo The Handmaid’s Tale per mettere in guardia contro i pericoli delle politiche di genere polarizzate e dello statalismo.

La narrativa utopica fallisce perché è fondamentalmente in contrasto con la psicologia umana e la condizione umana. È una fantasia di costruzione sociale di una società di tabula rasa, con abitanti infinitamente malleabili dai quali tutte le tracce della natura umana e della storia sono state rimosse dall’ingegneria sociale o dalla rieducazione. Come H. G. Wells si rese conto in età avanzata, “tutte le utopie sono statiche” – cioè, sono autoritarie, poiché tutti gli abitanti sono costretti a vivere sotto il regime inflessibile e immutabile del piano regolatore del creatore.

La nostra incapacità di creare una narrativa utopica credibile mostra perché, nel corso della storia, comunità sperimentali e stati basati su ideali utopici sono crollati o sono diventati regimi totalitari – e continueranno a farlo in futuro. L’incapacità di affrontare i reali fallimenti, desideri e conflitti umani all’interno dell’immaginazione utopica è un sintomo della sua intrinseca disumanità.

È tempo di fare un inventario onesto dei risultati dell’ideale utopico.

Potremmo rinunciare all’idea, che riemerge ogni due generazioni circa, che le uniche cose che ci impediscono di creare una nuova utopia sulla terra sono la mancanza di immaginazione e di volontà politica. Non sono semplicemente le persone cattive o non istruite che ostacolano la realizzazione di questo paradiso secolare sulla terra: il difetto sta nell’ideale utopico stesso.

Come ci mostra Ursula Le Guin in The Ones Who Walk Away from Omelas (1973) – e, come vediamo in Logan’s Run (1967) di W. F. Nolan e in Divergent (2011) di Veronica Roth – il percorso sicuro verso l’inferno sulla terra è tentare di forzare un unico piano di utopia su tutti all’interno di una società diversa. Molte fiction distopiche sono basate su questo modello di una falsa utopia, un’utopia finita male, come Brave New World di Aldous Huxley e The Giver di Lois Lowry.

Ci sono anche alcuni autori che hanno iniziato a scrivere utopie, solo per rendersi conto che avevano accidentalmente creato degli inferni sulla Terra. Uno di questi è Gabriel de Foigny (1642-92), il cui protagonista in A New Discovery in Terra Australis (1693) inizia con un’utopia tribale unisex e si conclude con il protagonista condannato a morte insieme ai nemici degli utopisti – donne e bambini di un’altra tribù che vengono sgozzati a migliaia, e vengono lasciati in enormi cumuli in decomposizione per essere divorati da uccelli e bestie. Il suo crimine era la debolezza umana della pietà per i non-utopici.

Per tutto il suo inferno e la sua sofferenza, la narrativa distopica è il genere più umano: fornisce un avvertimento contro l’arroganza utopica che mira a creare società perfette e pianificate, sacrificando ciò che ci rende umani.

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118 risposte a Il problema delle utopie

  1. Francesco scrive:

    Molto bello ma un pelino superficiale. Perchè non si rende conto che Platone è antecedente agli illuministi ma è il padre delle Utopie, almeno qui in Occidente.

    Nè che il Brave New World è sia una distopia che una utopia, a seconda di come lo si guardi. Aliens e Blade Runner non c’entrano nulla con lo splicing, The fly solo di striscio.

    e The Handmaid’s Tale è solo una cagata pazzesca.

    Mi mancano le reducciones gesuitiche, la più importante utopia catto-coloniale a me nota.

    Ma molto bello davvero, grazie Miguel!

  2. Andrea Di Vita scrive:

    @ Martinez

    Bella rassegna, ma che c’entra l’Illuminismo? Né Platone né Tommaso Moro erano illuministi.

    Oggi poi gli unici a credere nell’idea di un paradiso terrestre realizzabile sono i Testimoni di Geova, che dicono di basarsi sulla Bibbia (e in effetti sia il Paradiso Terrestre sua le “terra di latte e miele” sono concetti biblici).

    E come le utopie anche le distopie (“1984” di Orwell primo fra tutti) sono società statiche.

    Corretta invece l’idea che il prezzo dell’utopia è la rimozione’: in “Omelas” fella Le Guin è la tortura inflitta a vita a un bambino innocente, in “Venere più X” di Sturgeon la trasformazione chirurgica dei neonati di ambo i sessi in ermafroditi.

    Ciao!

    Andrea Di Vita

    • Peucezio scrive:

      Andrea,
      eppure il mondo d’oggi è più o meno la realizzazione concreta dell’utopia in cui tu credi.
      L’hai più o meno sempre dichiarato che a un mondo basato su dinamiche spontanee si doveva sostituire un mondo pianificato, razionale e standardizzato, in cui nulla di non omologato avesse spazio.
      Il che è del tutto legittimo, sia chiaro.
      Ma non vedo perché ora lo neghi.

      Le utopie totalitarie cui tu pensi non sono vere utopie, sono utopie mal riuscite, rozze.
      La vera utopia non è quella di Platone, è quella di Popper.

      • Andrea Di Vita scrive:

        @ peucezio

        L’utopia non è la composizione più o meno razionale di un conflitto, è la sua rimozione.

        Nella Repubblica Italiana nata dalla Resistenza Ciampi intesse’ la concertazione fra Sindacati e Confindustria.

        Mussolini rimosse il conflitto ingabbiandolo nella Camera delle Corporazioni.

        In “Venere più X”, un’utopia, nevrosi e discriminazioni si eliminano castrando tutti alla nascita.

        L’utopia somiglia molto più a Mussolini che a Ciampi.

        Ancora:

        L’utopica Shangri-La e’ una comunità isolata dal mondo che ha risolto ogni problema.

        Oggi in tanti si illudono che i problemi si risolvano isolandosi, negando globalizzazione, UE, ecc. e rifugiandosi in un passato che, come Shangri-La, non passa mai, una Tradizione Eterna.

        L’esempio vivente di questa utopia realizzata è la necrocrazia nordcoreana, dove il Presidente Eterno regna dalla tomba e l’isolamento dal mondo è assoluto come a Shangri-La.

        Il razionalista agnostico, che non crede alla Tradizione Eterna, proprio perché fiducioso nel rasoio di Ockham sa che una simile illusione è superflua, ché i problemi sono globali e non possono essere risolti isolandosi.

        Popper, col nostro razionalista, teorizza una società aperta e globalizzata, non chiusa e isolata.

        Popper è l’esatto opposto dell’utopia.

        Ciao!

        Andrea Di Vita

        • Francesco scrive:

          scusa ma la cortina fumogena dell’anti salvinismo è troppo debole per reggere al primo alito di vento

          la chiusura è solo un espediente letterario, non una caratteristica delle utopie

          e la società aperta di Popper, intesa col fanatismo suo e tuo, è molto vicina a una Utopia andata a male, come nota Peucezio

          in cui la rimozione dei diversi è spacciata per intolleranza verso gli intolleranti ma trattasi di foglia di fico

          in questo ha ragione il Manifesto: il conflitto sociale non va risolto, va combattuto. non in vista di una risibile GRP ma come un eterno scontro di interessi, che ogni volta produce una tregua e mai una vera pace

          che è impossibile e la cui ricerca è indesiderabile

          solo che, dialetticamente, la parti in conflitto hanno assolutamente bisogno le une delle altre

          quindi la guerra deve essere limitata, vincere troppo è perdere

          ciao

        • Peucezio scrive:

          Andrea,
          ora mi è più chiara la tua visione e ha una sua intima coerenza. E sul piano dell’antiutopismo mi vede d’accordo.

          Ma allora dovresti essere un liberale puro, pragmatico, all’angglosassone, tutt’al più con concessioni in senso sociale.
          Invece tu hai simpatia anche per il giacobinismo e la Rivoluzione Francese e, mi par di capire, anche per il marixsmo, che sono invece utopismi puri (e infatti hanno fatto milioni di morti, proprio per voler ridurre il mondo a uno schema univoco).

          Un altro appunto: tu vedi l’Occidente come la società aperta e additi i dispotismi orientali come quello nordcoreano. C’è del vero.
          Ma è anche vero che l’Occidente è ideologico e moralistico, mentre l’Oriente è realista e pragmatico: i cinesi pensano all’interesse concreto, se ne fottono di ideologismi, diritti umani, questioni di principio, astratte… Insomma, anche il puritanesimo, che è un elemento fondante dell’Occidente moderno, produce utopismi e società chiuse e opprimenti. L’Occidente per fortuna non è stato solo quello (te lo riconosco).

          • Francesco scrive:

            beh ma conosci società più puritane di quella cinese?

            stai svilendo l’Occidente in quello di grande e buono ha saputo fare: ha pensato in grande, non sempre bene, spesso agendo in modo diverso, ma ha pensato

            e la libertà non è affatto una cattiva idea, anche se un pratico cinese se ne fotte tranquillamente

            poi si scopre che lì corruzione e nepotismo sono peggio che nel resto del mondo

            ciao

            • Peucezio scrive:

              Ma la libertà mi sta bene.

              Ma il dispotismo orientale non è puritano.
              Il puritanesimo è una legge morale interiorizzata, è la repressione come cifra esistenziale individuale (e quindi sociale).

              Invece i sistemi orientali se ne fottono di quello che pensi e non pretendono di convincerti che ti stanno imponendo il giusto. Loro se ne fottono di essere dalla parte del giusto: ti impongono le cose con la forza.

              Il mio ideale è una società libera, o, meglio, vincolata tutt’al più su scala microcomunitaria e famigliare, non è il dispotismo asiatico accentrato e burocratico.
              Ma meglio il dispotismo del puritanesimo. Non foss’altro che per un fatto: il dispotismo è pragmatico, ragiona in modo funzionale e anche cinico, mentre al puritanesimo interessa il bene, non la realtà. E in questo c’è un vizio gravissimo, direi mortale.

          • Andrea Di Vita scrive:

            @ Peucezio

            Il liberalismo è morto con la crisi del 1929.

            Da allora domina la finanza, che nega il liberalismo perché istituisce la precarietà come regola universale (e nessun precario è davvero libero, come avrebbe detto Pertini). Il liberismo senza regole della finanza smantella innanzitutto l’ordine liberale dello Stato ottocentesco europeo, come già aveva capito Lenin.

            Ecco perché non sono liberale.

            Credo che solo la politica possa almeno attutire gli effetti della finanza. Ma deve essere una politica sovranazionale come lo è la finanza, almeno a livello continentale, se no serve solo a distrarre le masse con capri espiatori come gli immigrati, ecc.

            Un giacobinismo 2.0, se vuoi. Che garantisca uguaglianza di diritti e di doveri dove il dominio incontrastato della finanza crea sempre più disuguaglianza.

            Ciao!

            Andrea Di Vita

            • Francesco scrive:

              la morte del liberalismo è come quella del capitalismo

              ergo dovresti rivedere questa leggermente rozza analisi storica

              è di livello pentastellato

              • Andrea Di Vita scrive:

                @ Francesco

                “rozza”

                Ma non eri tu a schifare la finanza definendola il mio migliore argomento contro il libero mercato? 🙂

                Ciao!

                Andrea Di Vita

            • Peucezio scrive:

              Andrea,
              sono pienamente d’accordo sulla finanza, ma davvero sono stupito di come ti sfugga che lo stato nazionale è l’unico argine alla finanza e infatti i nazionalisti sono gli unici che si oppongono allo strapotere delle oligarchie finanziarie mondiali a scapito degli interessi nazionali.
              Questo è quello che accade oggettivamente, nella realtà.

              Poi non nego che in linea teorica un governo mondiale possa contenere lo strapotere finanziario. in toeria ogni scenario è possibile.
              Ma nei fatti l’erosione della sovranità dei popoli (cui il sovranismo è una mera reazione sottodimensionata e debole rispetto al problema) è proprio funzionale allo strapotere finanziario, per il quale le elezioni e la sovranità popolare sono un limite, un fastidio un elementi di contenimento.

              In generale credo poco a questa logica per cui per combattere il nemico ci si deve adeguare a lui.
              Per combattere il nemico bisogna restare ciò che si è, essere fedeli a sé stessi.
              Se diventi come il nemico, lui ha già vinto.

              • Miguel Martinez scrive:

                Per Peucezio

                “Ma nei fatti l’erosione della sovranità dei popoli (cui il sovranismo è una mera reazione sottodimensionata e debole rispetto al problema) è proprio funzionale allo strapotere finanziario, per il quale le elezioni e la sovranità popolare sono un limite, un fastidio un elementi di contenimento.”

                Non lo so, credo che sia tutto molto complesso.

                Le frontiere sono luoghi di protezione e di pericolo – semplificando, se non ci fosse una frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti, ogni forma di droga entrerebbe liberamente negli Stati Uniti; ma il fatto che c’è una frontiera da manipolare ha creato la fortuna dei narco-cartelli.

                L’Unione Europea obbliga gli Stati a tutelare la natura meglio di quanto molti Stati, lasciati da soli, vorrebbero fare (es. in Polonia); ma il fatto che impone regole uniche impedisce al governo polacco di fermare la svendita dei terreni agricoli polacchi alla mostruosa industria delle biomasse.

                Certamente, un governo mondiale non potrebbe essere lontanamente democratico: già al Comune di Firenze, è difficile prendere un consigliere comunale e chiedergli conto del suo operato, ma almeno è ancora possibile.

                Lo Stato Nazione è a una distanza già lontana (e quindi non credo che gli stati nazionali siano “a sovranità popolare”).

                Ma allora chi governerà lo Stato Mondiale, dato che non sarà il “demos”?

              • Francesco scrive:

                >>> Se diventi come il nemico, lui ha già vinto.

                ma se il nemico ha inventato le armi da fuoco, o diventi come lui almeno quanto basta per farti le tue armi da fuoco (e questo comporta un sacco di comseguenze) oppure hai perso, come gli Zulu

              • Miguel Martinez scrive:

                Per Francesco

                “ma se il nemico ha inventato le armi da fuoco, o diventi come lui almeno quanto basta per farti le tue armi da fuoco (e questo comporta un sacco di comseguenze) oppure hai perso, come gli Zulu”

                Visto che moriremo tutti, e il nostro nemico vittorioso in particolare creperà in modo atroce, non vedo tutto questo enorme bisogno di “vincere anche io”.

              • Andrea Di Vita scrive:

                @ peucezio

                Martinez ha appena pubblicato un terrificante post sugli ftalati in USA.

                Da noi li limita la UE (e non solo i ftalati…)

                I nemici della UE sono i sovranisti.

                Quindi, sei proprio sicuro che il sovranismo ci convenga?

                Ciao!

                Andrea Di Vita

              • Miguel Martinez scrive:

                Per ADV

                “Quindi, sei proprio sicuro che il sovranismo ci convenga?”

                Infatti, ho già scritto più volte perché “Europa contro Stato Nazione” mi sembra un falso problema.

                Già lo Stato Nazione (eccetto San Marino) è troppo grande per essere democratico.

                Poi:

                1) Europa protegge il bosco di Bialowieza contro il saccheggio dei taglialegna “nazionali”. Viva l’Europa!

                2) Europa obbliga la Polonia a subire l’acquisto di enormi aree agricole da parte di imprese tedesche per farci i criminali biocarburanti. Abbasso l’Europa!

                In circostanze simili, tifare per una squadra o l’altra mi sembra insensata.

              • Andrea Di Vita scrive:

                @ peucezio

                “restare quello che si è”.

                È la logica suicida di El Alamein e di Giarabub.

                Alla larga.

                Ciao!

                Andrea Di Vita

              • Andrea Di Vita scrive:

                @ Martinez

                “San Marino”

                UE e Stato nazionale sono altrettanto lontane dall’individuo.

                Ma almeno la UE ha le spalle abbastanza larghe da poter frenare le multinazionali dei ftalati.

                Ciao!

                Andrea Di Vita

  3. Moi scrive:

    Per lo Splicing Genetico c’ è un film apposta … che mette in discussione anche il concetto di “genitori” e “tabù sessuali”

    https://en.wikipedia.org/wiki/Splice_(film)

    • Andrea Di Vita scrive:

      @ Moi

      In italiano “2022 i sopravvissuti”. Titolo orrendo che nasconde l’ottima interpretazione di Charlton Heston nei panni del poliziotto ambiguo e di Ernest Borgnine in quelli dell’amico suicida (indimenticabile la scena dell’eutanasia al suono della Sesta di di Beethoven).

      Un mio amico dopo aver visto il film, che lo colpi’ profondamente e gli suscito’ una autentica tempesta spirituale, diventò Testimone di Geova.

      Ciao!

      Andrea Di Vita

  4. Moi scrive:

    Sul consumo di carne … OKJA / 옥자 (2017)di Bong Joon Ho, pseudofavola moderna grottesca ambientata fra USA e Corea del Sud.

    https://en.wikipedia.org/wiki/Okja

  5. Mauricius Tarvisii scrive:

    Domanda seria: leggendolo non vi sembra già di primo acchito che ci sia qualcosa che non vada?

    A me sì. A me sembra che ci sia una terribile confusione tra piani, cioè:
    – il piano letterario: le ambientazioni utopiche creano problemi ai narratori. Verissimo, perché il motore delle vicende di fantasia normalmente è un conflitto o una difficoltà, in quanto sono le cose che creano empatia nei confronti dei personaggi. A volte si tratta persino di scorciatoie per supplire ad una scarsa capacità dell’autore di creare coinvolgimento con situazioni meno forti: ci si mette dentro una malattia terminale, uno stupro, la morte di un familiare (meglio se coniuge o figlio, genitore se perso in tenera età) e questo semplifica la narrazione dal punto di vista emotivo. Fai morire uno dei personaggi in una fase iniziale della narrazione e così coinvolgi maggiormente il pubblico con una maggiore realtà del pericolo. Quindi sì, raccontare di qualcuno che vi entra in casa e vi massacra la famiglia è narrativamente più semplice che narrare una tranquilla vita familiare.
    – il piano delle valutazioni di merito su alcune ambientazioni utopiche. Si prendono prevalentemente, però, casi di false utopie, cioè distopie che per chi ci vive sembrano utopie. La scelta di Huxley – autore non così eccelso – secondo me la dice lunga. Non si prendono scelte narrative più interessanti, invece, come l’utopia ambigua (utopie che hanno rovesci della medaglia e quindi sono semplicemente modelli sociali diversi, solo sotto alcuni punti di vista migliori – forse) e la decostruzione dell’utopia (dove si prende un’amnbientazione utopia e, sfruttando gli elementi già presentati, li si legge in una chiave diversa, mostrandone le contraddizioni e i lati negativi). Insomma, consiglio al nostro più fantascienza.
    – il piano della realtà. Premesso che le utopie sono noiose e che alcuni autori hanno scritto distopie, allora ne possiamo dedurre qualcosa di applicabile nelle nostre scelte politiche. Ma anche no, ecco, le tre cose non c’entrano un cazzo l’una con l’altra.

    Partirei con una sequenza di insulti rivolti all’autore di quel guazzabuglio se non fosse più interessante – e più offensivo – notare alcune cose.
    La prima è che si tratta di una persona che non possiede la disciplina mentale necessaria per ragionare: non sa pensare, semplicemente. Per ragionare correttamente bisogna riuscire a formulare ragionamenti validi, applicando regole logiche valide. Se non si riesce a disciplinare il filo dei propri pensieri, se si imposta una riflessione sulla base di analogie e di salti fondati su criteri estetici e non razionali (“la distopia è noiosa in letteratura, quindi dobbiamo smettere di sognare futuri utopici”), allora il prodotto sarà puro inquinamento intellettuale.
    Ho già espresso altre volte la mia opinione del tutto negativa su Nietzsche. Si trattava di un imbecille mentalmente poco disciplinato che ha sdoganato nella cultura alta questo modo irrazionale ed estetico di procedere: prima quando si sragionava si cercava di dissimularlo, dopo affastellare pensieri frutto di concatenamenti di confuse intuizioni è diventato un legittimo modo di procedere. Ecco, leggendo spazzatura come quella di questo tizio qua sopra credo che possiamo ammirare i frutti più deteriori del cialtronismo niciano.

    In ultimo, questo tizio mi sembra un cretino, ma credo che si fosse già capito.

    • Andrea Di Vita scrive:

      @ MT

      Leggendoti, concordavo con tutto finché non te la sei presa col mio Friedrich preferito 🙂

      Ciao!

      Andrea Di Vita

      • Mauricius Tarvisii scrive:

        Nìce è il Male Assoluto 😀

        • Andrea Di Vita scrive:

          Attento che a furia di guardare nell’abisso l’abisso guarderà in te… 🙂

          • Mauricius Tarvisii scrive:

            L’abisso non guarda.

            😀

            • Francesco scrive:

              mi sa che guarda eccome, ahimè!

              sono molto stupito per il tuo giudizio di Nicce, che trovo assai più interessante dei suoi limiti: mica tutti sono San Tommaso

              e trovo del tutto errato il tuo giudizio: il fatto che le utopie siano sempre statiche e noiose ci dice moltissimo sui limiti delle capacità di ingegneria sociale umane

              ciao!

              • Mauricius Tarvisii scrive:

                La vita felice è noiosa da raccontare per definizione. La nostra capacità di partecipare alla felicità altrui è molto limitata, mentre siamo molto più bravi ad empatizzare con paura, disperazione e rabbia, per esempio.

                Nice non è un filosofo, semplicemente, è un sapiente. In genere il sapere sapienziale è più apprezzato di quello filosofico.

              • Francesco scrive:

                la nostra capacità di partecipare alla felicità altrui è limitata, quando si tratta di racconti

                per vivere, credo sia molto meglio avere amici felici invece

                su Nice sapiente devo riflettere

                ciao

    • Peucezio scrive:

      Mauricius,
      “Se non si riesce a disciplinare il filo dei propri pensieri, se si imposta una riflessione sulla base di analogie e di salti fondati su criteri estetici e non razionali (“la distopia è noiosa in letteratura, quindi dobbiamo smettere di sognare futuri utopici”), allora il prodotto sarà puro inquinamento intellettuale.”

      Questi però, con tutto il rispetto, mi sembrano proprio scrupoli da millennials abituati a leggere pseudo-articoli scientifici referati in inglese e non più capaci di un pensiero che non sia meccanico e, come tale, sostanzialmente tautologico. Il pensiero è interpretazione.
      E mi meraviglia, perché tu, malgrado tutto, non sei certamente la prima cosa e voglio provare a non attribuirti neanche la seconda.

      In ogni caso la cultura se n’è sempre fottuta di questi scrupoli. Il pensiero argomentativo e sillogistico è una delle mille forme di cultura. Il pensiero stesso è una parte della cultura. Esiste, per dire, della critica letteraria artistica che non ha nulla di logico, è fatta di mere suggestioni, evocazioni, eppure è saggistica anche lei.
      E infatti arrivi al delirio non dico di ridimensionare, cosa legittima (ognuno ha le sue preferenze), ma di svalutare una figura di riferimento, nel bene e nel male, del suo tempo e di tutto ciò che c’è stato dopo solo perché non corrisponde ai tuoi parametri, lasciatelo dire, filistei e pedanti.

      Senza offesa: tu saresti un ottimo studioso, scrupoloso e preciso. Di quelli che, se fossero filologi, farebbero edizioni critiche affidabilissime. E non è una cosa che svaluto (i miei apporti scientifici, pur in un altro ambito, sono esattamente così). Ma la cultura è un’altra cosa.
      Ed è un peccato, perché questo orientamento non è affatto figlio di limiti intrinseci, non certo nel tuo caso, ma di un pregiudizio ideologico (molto legato, temo, alla tua generazione, ma per fortuna non generalizzato nemmeno in essa).
      Oltre che di una specie di rancore ideologico di cui ancora mi sfugge la radice, ma questa è un’altra questione e comunque non è affar mio.

      • Andrea Di Vita scrive:

        @ peucezio

        “argomentativo”

        Concordo al 50% cin te e al 50% con Mauritius.

        Hai ragione tu quando ricordi che pensare per analogie è un cardine del pensiero di ogni tempo, anche moderno. Tra l’altro, storicamente in fisica il Modello Standard delle particelle elementari è nato proprio solo su una analogia con le teorie precedenti, e tuttora la meccanica quantistica la si insegna così agli studenti. Dunque di per sé i “salti logici” dell’autore sono plausibili, almeno per illustrare e far comprendere meglio le sue tesi al lettore.

        Però c’è un limite. Tutto non è in tutto. L’Odissea è il primo racconto di avventure dell’Europa, ma questo non mi autorizza a metterla in scena con Ulisse bardato da Indiana Jones con cappellaccio e frustino (a meno di volerne fare una satira goliardica).

        Qui ha ragione Mauritius. L’articolo difetta di rigore metodologico. Paragoni arditi, voli pindarici? OK, ma non possiamo dire che l’utopia di Tommaso Moro è di matrice illuminista dimenticando che Moro è morto duecento anno prima di Voltaire. L’immaginazione ci guida a scoprire tesori, poi il freddo raziocinio saprà dirci se abbiamo davvero scoperto dell’oro o se abbiamo trovato solo pirite senza valore.

        Negli studi umanistici un maestro insuperato di divulgazione al contempo stimolante, fantasiosa e rigorosissima era Umberto Eco: penso ad esempio alla sua strepitosa Enciclopedia del Brutto, dove le varie categorie di Bruttezza sono paragonate fra loro partendo dai Greci e arrivando al Kitsch in una vertiginosa cascata di continui confronti scritti per di più in modo piacevolissimo.

        Lo stesso Eco fece una cosa simile su un argomento simile a quelli delle Utopie nel suo “Alla ricerca della lingua perfetta”,_dove si disserta del mito della” lingual ideals” attraverso i secoli.

        Chissà come sarebbe stato trattato da Eco il tema delle utopie…

        Ciao!

        Andrea Di Vita

        • Francesco scrive:

          Leggendoti, concordavo con tutto finché non te la sei presa col mio Friedrich preferito

          ecco, io posso dire lo stesso finchè non hai citato in positivo l’imperatore dei tromboni!

          peraltro, se invece di “illuminismo” avesse usato la parola “razionalismo” l’articolo avrebbe avuto pienamente ragione

          coglie molto bene come l’uomo delle utopie è un uomo ridotto a cui sono stati tolte tutte quelle parti, vitali, che non rientrano negli schemi mentali dei razionalisti

          peggio solo le utopie femminili dove gli tolgono la vogli di scopare perchè è una cosa brutta, credo

          ciao

          • Andrea Di Vita scrive:

            @ Francesco

            Stai definendo forse Eco l’imperatore dei tromboni?

            Ti prego dimmi che ho capito male.

            Dimmelo.

            Ciao!

            Andrea Di Vita

            • Francesco scrive:

              assolutamente

              ci sono le mille e passa pagine dei libri successivi al Nome della Rosa a confermarlo in pieno

              🙂

        • Peucezio scrive:

          Andrea,
          ti dirò, in realtà il mio obiettivo polemico non era tanto la critica all’articolo, ma quella a Nietzsche, che mi pare infantile e gratuita.
          L’articolo è un po’ schematico e a tratti manicheo.
          La mia impressione è che Mauricius abbia costruito un castello di argomenti solo per dire che l’autore gli sta antipatico in quanto antiutopista.

          Ma resta questo limite metodologico che è molto grave.
          E lo ritengo un sottoprodotto del naturalismo contemporaneo. Non si è più attrezzati per capire la complessità e allora si guarda alle scienze naturali come uniche depositarie di un criterio veritativo, perché i fenomeni umani sono troppo complessi e quindi non più compresi. È sempre l’onda lunga del deficit cognitivo postsessantottesco, che impedisce di concepire l’alterità e il sapere strutturato, dissolvendo la conoscenza in una manciata di formule, che tanto possono essere gestite da un algoritmo informatico.

          Non dico che Mauricius faccia questo: è incommensurabilmente superiore alla media della capacità critica della sua generazione. Ma è sintomatico che anche uno colto come lui abbia sempre queste cautele metodologiche del tutto fuori luogo nell’ambito delle scienze umane e intrinsecamente scorrette, perché la logica è una parte della filosofia e ci sono forme di pensiero non argomentative e sillogistiche. Ogni sistema di pensiero è un modello interpretativo del mondo, storicizzabile, in quanto prodotto dell’epoca e del contesto in cui si è sviluppato. Pertanto non ci sono non solo contenuti, ma nemmeno regole assolute: il rigore metodologico è un’illusione: anche il metodo è uno strumento empirico e continuamente rinegoziabile di approccio alla realtà. La validità di un pensiero si giudica dall’originalità e dalla pertinenza con l’epoca e il contesto cui si applica e di cui fa proprie le istanze e le tendenze.
          Poi è giusto, anzi, fondamentale distinguere sempre le cose serie dalla fuffa. Ma se la fuffa è Nietzsche o Hegel, è il distintore che forse non va preso troppo sul serio. 🙂

          • Mauricius Tarvisii scrive:

            Ci sono due modi di procedere: parlare a caso e ragionare. Tu preferisci il primo e consideri il secondo come deficitario, sessantottesco, brutto, cattivo e puzzolente: sei in ottima compagnia nel mondo contemporaneo.

            • Peucezio scrive:

              Sì, io sarei nemico del ragionamento…

              Il ragionamento è una cosa seria, non è uno sfogo emotivo o una battuta più o meno gratuita.

        • Peucezio scrive:

          Tra l’altro è molto interessante il pregiudizio gnoseologico che c’è dietro atteggiamenti di questo tipo.
          Un logicismo radicale, senza contenuti interpretativi che attingono ad altro che alle mere regole di consequenzialità argomentativa, è per forza di cose tautologico: la conclusione è già nelle premesse.
          E la tautologia è il riflesso metodologico del narcisismo contemporaneo: è un’altra delle forme di rimozione dell’alterità, della densità del mondo rispetto al dilagare autoreferente del soggetto.

          • Andrea Di Vita scrive:

            @ peucezio

            Il rigore metodologico è un altro modo di definire il rispetto delle regole del gioco cui chi propone una tesi vuole far giocare il lettore. Se questo rispetto mancasse sarebbe un po’ come se Zarathustra scendendo dalla montagna si mettesse a scavare nella miniera dei Sette Nani di Biancaneve e si mettesse a spiegare loro la formula risolutiva delle equazioni di secondo grado: una incoerenza futile perché arbitraria. Evitare tale incoerenza è il minimo per chiunque faccia un discorso pubblico, non importa se sui quark, sull’eutanasia o sulla letteratura paraguayana dell’Ottocento. Non ci vedo un particolare pregiudizio epistemologico, solo una forma di rispetto verso se stessi e gli altri.

            Ciao!

            Andrea Di Vita

          • Peucezio scrive:

            Ma il problema non è il rigore metodologico.
            Il punto è che ogni disciplina ha il suo statuto.
            Appiattire tutto su una sorta di dimostrabilità empirico-osservativa o su un logicismo significa violare tale statuto e imbarbarire la conoscenza.

            Una cosa è studiare le piante o i microbi.
            Un’altra cosa è dimostrare un teorema di geometria.
            Un’altra cosa ancora è indagare le società umane e le loro dinamiche.
            Un’altra ancora diversa sono i giudizi estetici, l’arte, la letteratura, ecc.
            Un’altra ancora è la filosofia, che può poprsi il problema del metodo delle singole discipline, ma non ha un metodo suo universale, perché dovrebbe essere posto da una disciplina ulteriore, ma la filosofia è per suo stesso statuto quella che può fornire legittimità teorica e conoscitiva alle altre e se dovesse soggiacere a un simile vincolo, anche la disciplina che dovrebbe fornirle il metodo dovrebbe averne un’altra al di sopra che a sua volta avrebbe bisogno di chi le fornisse il metodo e così in un avvitamento all’infinito.
            Per uscire dalla trappola di questi giochetti logici si deve prendere atto della relatività di ogni atto conoscitivo. E tale relatività è contestuale, è storicamente condizionata.
            In questo senso ogni discorso deve partire dalla nostra presa d’atto di essere parte della realtà e che il vincolo spaziale, temporale, cioè in ultima analisi culturale, legato cioè all’apparente contingenza del sapere intersoggettivo della società in cui ciascuno vive e opera, non è in realtà contingenza, perché non vi è nulla che possa trascenderlo davvero, visto che ogni nostra conoscenza di contesti altri è mediata da tale retroterra.
            Ogni discorso che non prenda atto di ciò rischia di essere una vacua e velleitaria petizione di principio e ha come conseguenza pratica un impoverimento argomentativo e concettuale (che è quello che accade oggi) e, in ultima analisi, la sostituzione a un sapere condiviso e storicamente condizionato non di un sapere universale, ma di un sapere individuale, del tutto soggettivo e arbitrario.
            È evidente che se la conoscenza è solo quella tecnica (e negli ultimi anni in sostanza accade questo), cioè che rimane al di là della tecnica è il soggettivismo infantile dei negri delle università americane che dicono che la luna e lo spazio sono elaborazioni dell’astronomia dei bianchi e quindi mistificazioni al servizio di un sistema di di potere razzista.

      • Mauricius Tarvisii scrive:

        Millennials tipo Aristotele, Anselmo d’Aosta e Guglielmo d’Ockham, sì.

        • Francesco scrive:

          beh, se ti perdi Socrate, Platone e Agostino però ti perdi molto!

          • Peucezio scrive:

            Ma no! Tutta fuffa… 😀

          • Mauricius Tarvisii scrive:

            Di Socrate sappiamo pochissimo, ma non dovrebbe essere molto diverso dai suoi contemporanei.
            Di Platone sappiamo che appartiene ad un’epoca in cui la filosofia è ancora acerba e si mescola con il metodo sapienziale.
            Agostino usa un metodo puramente filosofico, invece, quindi mi sembra richiamato a cazzo di cane.

            • Francesco scrive:

              vabbè, senti, io sono abituato a fare il cretino con i pezzi grossi

              ma qui tu mi svaluti a zero prima un gigante come Hegel, poi provi a intaccare il Sommo Platone

              scusa se mi rifiuto di darti retta, tanto più che certi richiami al “metodo filosofico” puzzano di pseudofilosofia moderna, di logica formale, di immani fesserie

              ma, senza che io faccia illazioni per cui non sono qualificato, uno che non capisce la grandezza di Socrate e Platone è meglio cambi settori di interesse

              • Mauricius Tarvisii scrive:

                La filosofia, come ogni disciplina, ha avuto una propria evoluzione. Il rigore di Talete ed Eraclito era solo di poco superiore a quello del sapere sapienziale. Parmenide è un’evoluzione ulteriore, la sofistica un’evoluzione ancora ulteriore e Platone è quasi filosofia matura. Ma ciò non toglie che in Platone troviamo ancora elementi sapienziali, come il ricorso al mito.
                Questo svaluta qualcosa di loro? Assolutamente no, visto che sono state pietre miliari, pietre miliari di un’evoluzione.

                Se non si comprende che il pensiero evolve, che gli strumenti intellettuali che abbiamo noi oggi non sono scontati e che siamo forti delle conquiste del passato, allora la filosofia si trasforma in quella schifezza che ho studiato al liceo: un museo delle cere di mezzibusti che sparavano ciascuna la propria cazzata da imparare a memoria e poi dimenticare quando si legge la cazzata riportata nel capitolo successivo del manuale.

              • Peucezio scrive:

                Francesco,
                “scusa se mi rifiuto di darti retta, tanto più che certi richiami al “metodo filosofico” puzzano di pseudofilosofia moderna, di logica formale, di immani fesserie”

                La filosofia analitica 🙂
                Per essere moderni bisogna essere americani.

                Mauricius,
                non so in che liceo hai studiato.
                In quello in cui ho studiato io, almeno negli anni ’80 (non so oggi) c’era un approccio critico, serio, aggiornato.
                Il che non significa che la filosofia proceda per accumuli e quindo ogni filosofia successiva sia migliore di quelle precedenti (altrimenti Nietzsche dovrebbe essere sideralmente superiore aa Aristotele 🙂 ), perché non è un sapere tecnico. Ammesso che abbia senso in sé l’idea di una filosofia “migliore” o “peggiore”.

                Si può dire però, senza cadere in un vacuo progressismo, che il fatto che ognuna abbia nozione di quelle precedenti e sia in grado, se vuole, di porvisi criticamente, la pone in una posizione in cui ha oggettivamente più strumenti concettuali.

              • Mauricius Tarvisii scrive:

                Devo non essermi spiegato bene, allora.
                Ogni disciplina ha una fase in cui si forma. Chi opera in questa fase ha un evidente “svantaggio” su chi verrà dopo: è lui che sta creando gli strumenti. Una volta che la disciplina si è consolidata, allora il vantaggio di chi viene dopo diventa più limitato.
                Poi arriva anche chi rigetta lo strumentario e cestina la disciplina in toto, tornando a quello che c’era prima, cioè il metodo sapienziale. E questo è il il vostro amato Federico.

              • Peucezio scrive:

                Prima o poi mi spiegherai (se ne hai voglia) che diavolo intendi con metodo sapienziale.

              • Mauricius Tarvisii scrive:

                La sapienza è quello che c’era prima della filosofia e non rientrava nella religione, una forma di sapere fondato sul consenso che una determinata affermazione riscuote tra chi la ascolta.

              • habsburgicus scrive:

                initium Sapientiae, timor Domini

              • Peucezio scrive:

                Mauricius,
                “una forma di sapere fondato sul consenso che una determinata affermazione riscuote tra chi la ascolta.”

                Suona molto generico.
                Su che si fonderebbe tale consenso, visto che non attinge né alla verifica empirica, né alla logica argomentativa, né a forme di pensiero magico consolidatesi nel tempo?

              • daouda scrive:

                parli di filosofia ma dove sarebbe la sua evoluzione perdonami…

              • Mauricius Tarvisii scrive:

                “Su che si fonderebbe tale consenso, visto che non attinge né alla verifica empirica, né alla logica argomentativa, né a forme di pensiero magico consolidatesi nel tempo?”

                E’ la communis opinio, può fondarsi su tante cose, anche nel senso per cui tutti quelli che la condividono possono basarsi su motivazioni diverse: osservazioni empiriche, convenienza personale, coerenza con altre conoscenze, analogia con altri fenomeni, motivi estetici, bias vari…

              • Mauricius Tarvisii scrive:

                Ah, dimenticavo l’aspetto più importante: l’autorevolezza della fonte. Se il sapiente dice qualcosa, gli altri tendono a prenderla molto sul serio a prescindere.

              • Francesco scrive:

                x MT

                Socrate diventa una sapiente riconosciuto per quello che dice, non viceversa

                la tua tesi è molto poco convincente

                poi toccarmi Platone è come toccarmi Baresi, vade retro!

  6. Mauricius Tarvisii scrive:

    Tra l’altro in questo saggio di critica letteraria scadente sfugge un piccolissimo particolare: la società di Omelas non è una società utopica.
    E’ una società retta dai sanissimi principi tradizionali: capro espiatorio, rimozione della consapevolezza delle storture sociali (anzi, della stortura sociale) e accettazione del principio per cui non è possibile rimuovere del tutto la sofferenza, ma l’importante è tenerla sotto controllo, limitandola nell’entità o nel numero di persone che tocca (insomma, si smette di immaginare una realtà migliore e si accetta il male che c’è come necessario). La società di Omelas è anche la NOSTRA società.

    • Peucezio scrive:

      Non ho capito il nesso fra società retta da principi tradizionali, che accetta la sofferenza e la tiene sotto controllo, con la NOSTRA società (cito il tuo maiuscolo), che si basa invece sulla mistificazione infantile dell’eliminazione della frustrazione.

      • Andrea Di Vita scrive:

        @ peucezio

        “legame”

        Il legame è il capro espiatorio.

        Oggi si accetta di fatto che poveracci muoiano in mare perché “prima gli italiani”.

        Una volta si accettava di mandare donne alla tortura e al rogo perché bisognava incolpare qualcuno dell’impotenza di qualche ragguardevole membro della comunità.

        Oppure si scannavano gli idolatri e se ne vendevano mogli e figli come schiavi per placare la presunta collera divina che aveva causato una siccità.

        Il pensiero magico, la Tradizione, la puzza del buio passato sono sempre con noi, anche se preferiamo non accorgecene.

        Ciao!

        Andrea Di Vita

        • Francesco scrive:

          >>> Una volta si accettava di mandare donne alla tortura e al rogo perché bisognava incolpare qualcuno dell’impotenza di qualche ragguardevole membro della comunità.

          lo sai che trattasi di fake news costruite dai predecessori di Marco Travaglio?

          forse se avessi citato gli Ebrei (o i Cristiani, pensando a terre un pelo più a Oriente) la tesi sarebbe degna di discussione

          • Andrea Di Vita scrive:

            @ Francesco

            “fake”

            Ho appena visto la registrazione cui un documentario di Rai storia su un processo modenese del cinquecento a una strega accusata di aver procurato l’impotenza a un ricco mercante della città.

            Ciao!

            Andrea Di Vita

            • Moi scrive:

              … Mo Vacaputanga ! 😉

              [cit. … oggi impensabile]

              • Andrea Di Vita scrive:

                @ moi

                Vacaputanga era il ritornello di uno sketch Rai di qualche anno fa dove si sfotteva il politically correct, con un africano inizialmente impassibile che si infuriava alla fine di brutto.

                L’autore era lo stesso Walter Valdi che ha composto Coccodi’ Coccoda’, che cantavo la sera a mia figlia da piccola facendola scompisciare, e del Tic di Gaber.

                Un benefattore dell’umanità.

                Ciao!

                Andrea Di Vita

              • Peucezio scrive:

                Più che uno sketch era proprio una canzone (non so se poi vi abbiano fatto uno sketch televisivo).

                Comunque concordo: Walter Valdi è stato un genio.

                Tra l’altro pochi lo sanno, ma ha composto alcune delle più famose canzoni per lo zecchino d’oro, tipo “Il caffè della Peppina”; che riprende una filastrocca tradizionale lombarda, aggiungendoci quella vena surreale tipicamente lombarda appunto.

            • Francesco scrive:

              UNA strega

              poverella ma … un caso

              stiamo parlando di ben altro

              come dare degli stalinisti agli USA per il processo a quei due fisici atomici spie dei russi

              • Andrea Di Vita scrive:

                @ Francesco

                Veramebte era una delle accuse più comuni (stando al documentario).

                A proposito dei Rosenberg: sembra che la spia fosse solo lui, e che i servizi USA sapessero da una talpa a Mosca che lei non ne sapeva nulla: l’avrebbero lasciata condannare col marito per non bruciare la talpa.

                Spie o no, hanno contribuito all’equilibrio del terrore e ad evitare così un’altro conflitto in Europa. Riposino in pace.

                Ciao!

                Andrea Di Vita

              • Francesco scrive:

                beh, visto come è finita non direi che hanno dato alcun contributo positivo!

                non sapevo la tesi dell’innocenza di lei, nel qual caso mi spiace

                tesi stramba, se c’erano prove che bisogno avevano gli americani di farli fuori entrambi? in quei casi si finge di aver scoperto da soli quello che la talpa ti ha detto, no?

        • Peucezio scrive:

          Andrea,
          beh,
          capro espiatorio per capro espiatorio si potrebbe dire lo stesso di Berlusconi, Salvini, Renzi… c’è sempre il cattivone di turno colpevole di tutto, reprobo, vero inquinatore, personificazione del male da estirpare dalla società, perché puttaniere, perché razzista, perché troppo ironico ed istrione, perché troppo abile politicamente…

          Ma la ritualizzazione del sacrificio è l’opposto del conformismo gregario e aggressivo di oggi, che esprime invece un istinto non canalizzato, che non assume forme violente fisicamente solo perché la nostra società ha ristretto gli spazi per la violenza fisica, ma ci sono tante altre forme di violenza: c’è l’ostracismo morale, intellettuale, politico, giuridico, sociale, che in una società non più basata sullo scontro fisico come la nostra sortisce in sostanza lo stesso effetto e ha la stessa portata.
          La ritualità serve proprio a canalizzare e contenere gli istinti, quindi una società ritualizzata è l’opposto di una società basata su forme di conformismo spontaneo non sublimato, ma declinato nella forma del mero odio personale, senza nessuna composizione consolidata dalla tradizione.

          • Andrea Di Vita scrive:

            @ peucezio

            “opposto”

            Perché l’opposto?

            I pogrom mica li ha inventati la modernità. E nemmeno i massacri delle Crociate dove gli stessi cristiani che si trovavano nelle città conquistate venivano massacrati come gli infedeli. Oggi c’è il SJW, ieri l’ “uccideteli tutti, Dio riconoscera’ i suoi”. Sempre intolleranza è.

            La differenza è che ora, vivendo in una civiltà che ha appena cominciato ad essere laica, ce ne accorgiamo.

            Ciao!

            Andrea Di Vita

            • Peucezio scrive:

              Beh, ma tu stai parlando già di società complesse, non di comunità organiche, primitive, coese.
              Parliamo di guerrieri, di gente che faceva enormi spostamenti, di grandi aggregazioni statuali, non solo di piccole comunità, che pure c’erano.
              Il Medioevo è plurivoco in questo senso. C’era grande ritualizzazione e composizione della conflittualità, ma anche esplosioni di ferocia: non dimentichiamo che non c’erano solo i contadini o i sacerdoti, ma anche appunto i guerrieri.

              • Andrea Di Vita scrive:

                @ peucezio

                Sono le comunità organiche, primitive e coese dei pochi coloni europei nelle sterminate pianure nordamericane che hanno inventato il linciaggio dei neri. Le ritualizzazioni che stemperano e moderano quella violenza sono il frutto di quello Stato a baffo di manubrio contro cui quelle comunità presero le armi nella Guerra di Secessione. Quando Hegel disse che lo Stato è la realtà dell’Io morale forse aveva in mente proprio qualcosa del genere.

                Ciao!

                Andrea Di Vita

              • Peucezio scrive:

                Andrea,
                ma quelle erano l’antitesi assoluta delle comunità organiche primitive. Quelli erano gente che sfidava la natura, il mondo, l’ordine sociale, erano gli ex lege, i sovversivi, gli scappati dall’Europa perché si sentivano oppressi dal suo ordine, erano i nemici espliciti della comunità tradizionale ordinata, erano i rivoluzionari, gli eretici, i ribelli, gli avventurieri, i temerari.

              • Peucezio scrive:

                Secondo me a te e, per motivi diversi, a Mauricius, sfugge come la dicotomia fondamentale sia quella fra natura e cultura.
                Gli uomini hanno tutti gli stessi istinti perché il sostrato biologico è lo stesso.
                La differenza fra le società consiste nella spinta a controllare e canalizzare gli istinti animali, in modo da sublimarli culturalmente, o nell’assecondarli nella loro brutalità.
                Non esiste l’uomo buono e quello malvagio. A livello individuale sì ovviamente, ma non a livello di società. Esiste l’uomo barbaro e l’uomo civile.

              • daouda scrive:

                Se la dicotomia che tu dici Peucé esistesse, essendo la razionalità la natura dell’uomo, hai creato un’impasse logico su cui è inutile discutere.

                Infatti susseguentemente presupponi che tutti gli uomini abbiano gli stessi istinti, cosa che è falsa od anche vera come dire ch gli uomini creano tutti cultura ma ognuno differentemente.

                Inoltre non sei biblico, dici individualmente per pesare la moralità che a rigore NON E’ CONCENTRATA sui bassi istinti anzi, è molto più difficile controllare la psiche e l’intelletto e l’ego.

                Cioè sbagli tutto. La massa c’è, ed anche i popoli…proprio tu nghi esistano popoli, e popoli cattivi?

              • Peucezio scrive:

                Daouda,
                riformula in modo più chiaro se puoi: non ci ho capito molto…

              • daouda scrive:

                la razionalità è natura dell’uomo.
                Come fai a dire che c’è una dicotomia natura vs cultura?

              • Peucezio scrive:

                Vabbè, ma allora si può dire che è nella natura dell’uomo creare la civiltà.
                Ma c’è una cesura ontologica.
                Altrimenti un albero selvatico e un palazzo sarebbero la stessa cosa.

              • daouda scrive:

                quale sarebbe sta supposta cesura ontologica?

                E’ talmente ovvio che è nell’umano creare la civilità ch anch ai primordi in tribù non si può assolutamente dichiararle in-a-“civili”.

              • Francesco scrive:

                >>> Sono le comunità organiche, primitive e coese dei pochi coloni europei nelle sterminate pianure nordamericane che hanno inventato il linciaggio dei neri

                non mi pare affatto sia così però, per motivi storici e geografici.

                il linciaggio dei neri negli stati del Sud non è roba post-guerra di secessione?

                Miguel tu cosa ne dici?

              • Miguel Martinez scrive:

                Per Francesco

                “Miguel tu cosa ne dici?”

                Non posso dire con certezza, magari Habs ne sa di più…

                Credo che i linciaggi siano sorti quando i contadini bianchi molto poveri si sono trovati in concorrenza con i neri liberati dalla schiavitù.

                Non erano nelle “sterminate pianure”, erano nelle periferie delle zone accaparrate dai grandi latifondisti del cotone.

      • Mauricius Tarvisii scrive:

        Ho usato la dicotomia società tradizionale – società utopica, dove per società tradizionale ho inteso quella non utopica (“normale”). Non ho fatto distinzioni tra le società non utopiche.

        • Peucezio scrive:

          Mauricius,
          “Non ho fatto distinzioni tra le società non utopiche.”

          Anzi, le hai proprio identificate. Se ti sembrano uguali…

          • Mauricius Tarvisii scrive:

            Le società esistenti hanno delle caratteristiche comuni, forse derivanti proprio dall’essere esistenti. O forse no, chi lo sa.

            • Peucezio scrive:

              Beh, sì, l’esistenza è una caratteristica comune.
              In effetti le cose che non esistono non ce l’hanno.

              • Mauricius Tarvisii scrive:

                Ci sono meccanismi sociali che sono chiaramente trasversali, roba come i meccanismi del linciaggio, della mobilitazione o della ricerca dell’unanimità.

              • Peucezio scrive:

                Mi sembra una petizione di principio.
                Un po’ come l’universalismo di Pino.

              • Mauricius Tarvisii scrive:

                No, è induzione. Sono fenomeni che sono abbastanza studiati in antropologia.

              • Peucezio scrive:

                Qui sospetto un po’ di forzatura interpretativa.

                Comunque non mi sbilancio, perché non ho letto gli autori cui fai riferimento (magari fammi qualche nome, così prima o poi magari me lo leggo).

                Però se parliamo delle caratteristiche comuni a tutte le società, cioè di universali antropologici, allora vale per tutto, non è uno strumento classificatorio.

                Nobn vale per un’utopia presa in senso letterale, cioè un luogo inesistente per definizione: quello possiamo immaginarlo come vogliamo, tanto non esiste.

                Ma c’è da dire che le utopie realizzate (ossimoricamente), cioè la società attuale essenzialmente, violano degli universali antropologici: non si danno società senza religione e senso del sacro, non si danno società con matrimoni senza polarizzazione sessuale radicata nel sesso biologico, ecc.

                In quel senso, se proprio dobbiamo operare distinzioni, sono proprio fra la società d’oggi e quelle tradizionali.

                Poi ci sarebbe da capire la valenza delle cose: se etichettiamo con linciaggio tante cose diverse, per forza che diventa un universale.

                Insomma, sarebbe da approfondire.

    • Francesco scrive:

      però la nostra società, che pure ha i suoi capri espiatori (almeno tu ce li metti) non è per nulla matura e felice

      anche se condivide con Omelas l’ipocrisia

      • Andrea Di Vita scrive:

        @ Francesco

        La nostra società può evolvere.

        Omelas no: può solo essere abbandonata.

        Ciao!

        Andrea Di Vita

        • Mauricius Tarvisii scrive:

          “Omelas no: può solo essere abbandonata.”

          Io non ci vedo tutta questa differenza. Si tratta di due società che sono riconosciute dalla quasi unanimità dei consociati come le migliori possibili alle condizioni date: nessuno propone un’alternativa plausibile. Anzi, lo stesso immaginare un’alternativa sembra fuori portata, sia per noi, sia per quelli di Omelas.
          La differenza principale è che ad Omelas ci sono utopisti che credono che un’alternativa ci sia e quindi se ne vanno. Noi non abbiamo neanche quelli e, anzi, abbiamo un tizio che scrive che gli utopisti che se ne vanno da Omelas sono un simbolo della rinuncia all’utopia!

  7. Moi scrive:

    La realtà è sempre più complessa degli schemi in cui tentiamo di confinarla … non basta affermarlo, bisogna anche notarlo. 😉

    • Francesco scrive:

      letto, è breve

      beh, a parte chiedere l’internamento in manicomio dell’autrice non ho nulla da dire

      • Mauricius Tarvisii scrive:

        È una versione estremizzata del problema dello scambio ferroviario, se ci pensi.

        • paniscus scrive:

          “È una versione estremizzata del problema dello scambio ferroviario, se ci pensi.”
          —-

          credo che si chiami “Dilemma del carrello”

        • Francesco scrive:

          beh no Maurizio

          nel dilemma dello scambio sei obbligato a sacrificare qualcuno per salvare qualcun altro

          mica c’è da una parte una persona e dall’altra, che so, la Gioconda o l’oro di Fort Knox

          qui c’è una vita rovinata contro del benessere (e senza alcun legame plausibile): che per drogarsi e scopare non capisco che bisogno ci sia di torturare un bambino, lo si fa normalmente anche altrove

      • Andrea Di Vita scrive:

        @ Francesco

        Giù il cappello quando si nomina l’immortale di “The left hand of darkness” e soprattutto di “Dispossessed”.

        Che dall’Empireo dove discute beatamente con Orwell, Malthus, Greene, Rilke ed Etienne de la Boétie ci mandi le sue benedizioni.

        Ciao!

        Andrea Di Vita

        • Mauricius Tarvisii scrive:

          Lei era semplicemente una spanna sopra.

        • Francesco scrive:

          ora, il mio problema è che non c’è nulla che giustifichi il legame tra tortura del bambino e benessere (descritto male, come una cosa pallosa e la LG lo sa) della città.

          è dato per scontato, come se fosse una cosa evidente.

          cosa non capisco?

          PS la cercherò nella mia biblioteca elettronica, se è così brava. non lo so mica

    • Peucezio scrive:

      Mauricius,
      “Per chi non ha letto il racconto della Le Guin:
      http://sconfini.net/wp-content/uploads/2019/01/Quelli-che-si-allontanano-da-Omelas-di-Ursula-K.-Le-Guin.pdf

      Letto.
      Mi sembra la tipica utopia.
      Un’utopia con un costo, che ricomprende tutti tranne uno.

      Tra l’altro l’autore del pezzo che ci propone Miguel distingue utopia e distopia sul piano dei generi letterari, ma proprio perché l’idea è che la descrizione di distopie esplicite metterebbe in guardia dalle utopie, che sarebbero distopie meno evidenti.
      E credo che abbia ragione: non esiste sostanziale differenza fra utopia e distopia: la prima è sempre in qualche modo riconducibile alla seconda.
      A me comunque interessa poco un’utopia letteraria, mi interessano quelle elaborate da teorici, filosofi, ideologi e che spesso si sono, ad onta dell’etimologia, realizzate.
      Poi, a livello di creazione letteraria puoi dire di tutto. Basta che dici che una società è felice e lo è, perché la stai creando tu liberamente. E quindi puoi anche creare l’utopia che funziona. Ma funziona perché lo dici, per un mero atto di enunciazione.

  8. Miguel Martinez scrive:

    Il professore Gozzini, chiacchierando a caso in una piccola radio privata, fuori dal lavoro, ha detto due battute sopra le righe, da toscano.

    Per un incredibile caso, lo ha sentito un ragazzotto quarantenne di destra che su Facebook fa parte del gruppo “aiutiamo le ninfomani” (facile capire come),

    L’assistente delle ninfomani ha immediatamente accusato il Gozzini di essere un mostro…

    Il Gozzini, invece di mandare al Giusto Paese i suoi persecutori, si è fatto piccolo piccolo, diciamo pure verme….

    ed eccovi:

    Source : https://firenze.repubblica.it/cronaca/2021/03/26/news/offese_a_giorgia_meloni_docente_sospeso_per_tre_mesi_dall_universita_di_siena-293935893/
    Firenze

    Offese a Giorgia Meloni, docente sospeso per tre mesi dall’università di Siena
    26 Marzo 2021 1 minuti di lettura

    “Il Consiglio di amministrazione dell’Università di Siena ha accolto nella riunione di questa mattina il parere espresso dal Collegio di disciplina sulla sanzione proposta dal rettore per il professor Giovanni Gozzini, 65 anni, e ha deliberato la sospensione del docente dall’ufficio e dallo stipendio per tre mesi”. Così annuncia l’Ateneo in merito al caso delle affermazioni sessiste sulla leader di Fdi Giorgia Meloni, pronunciate da Gozzini, docente a Siena, in una trasmissione su Controradio del 19 febbraio scorso. Gozzini, storico, autore di numerosi saggi sulla storia del Pci, era già stato sospeso in via cautelativa dall’Università e il rettore aveva proposto 3 mesi di sospensione. Significa tre mesi senza stipendio e senza che il docente possa tenere alcuna lezione.

    Il rettore dell’ateneo toscano, Francesco Frati, aveva subito preso le distanze dalle parole del docente di storia contemporanea e aveva espresso la propria vicinanza e solidarietà a Giorgia Meloni.

    “Gli attacchi volgari e sessisti rivolti all’onorevole Meloni – aveva detto il rettore di Siena – pongono a noi tutti una seria riflessione su quanto questi comportamenti, rivolti spesso alle donne, siano gravi, inaccettabili e da stigmatizzare senza riserve. Abbiamo la necessità di difendere l’onore dell’Ateneo e far sì che l’Università di Siena, a sua volta vittima delle dichiarazioni del professore, sia difesa nella sua dignità”.

    • Peucezio scrive:

      Ma io non riesco a capire come è possibile che in un paese civile i rapporti fra un dipendente, oltretutto dello stato, e l’istituzione per cui dipende, siano regolati non da un contratto nazionale, ma dai capricci disciplinari del rettore.
      Ovviamente spero che questo fesso ricorra al TAR.

      Altra questione è l’ingiuria e la diffamazione. La Meloni poteva quererarlo e ha scelto di no. Ciò dovrebbe chiudere la questione.

  9. Miguel Martinez scrive:

    Per Peucezio

    “A me comunque interessa poco un’utopia letteraria, mi interessano quelle elaborate da teorici, filosofi, ideologi e che spesso si sono, ad onta dell’etimologia, realizzate.”

    Sono d’accordo sui limiti delle utopie letterarie.

    Di meno sull’importanza di “teorici, filosofii, ideologi”.

    Pensa a Salvini: un tipico piccolo mestatore politico, che non combinerà nulla di eccezionale.

    Ma i suoi avversari hanno bisogno di vederlo come un geniale e pericolosissimo mostro, in grado di “portare indietro le lancette della storia”.

    E Salvini e i suoi avversari sono perfettamente d’accordo nell’attribuirgli questo ruolo straordinario.

    Attenzione a non fare lo stesso, con tanti che vengono santificati come “grandi ideologi” ed erano invece (come Galileo Galilei) ingegneri interessati a coltivare i guadagni dei produttori.

    • Peucezio scrive:

      Credo che servano un po’ tutti.
      L’illuminismo c’è stato perché ce n’erano i presupposti sociali ed economici, ma a sua volta direi che hai influito profondamente.

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