“Vi è del metodo nella mia follia”

Oggi per la prima volta, riesco a visitare il Seminario Diocesano di Firenze, che è un grandissimo palazzo su’ lungarni, sconosciuto a tutta la città, compreso a chi come me ci abita di fronte.

A cogliere l’occasione, siamo in meno di venti, quasi nessuno dei quali aveva mai messo piedi prima in questo edificio, già sede di suore prima e di frati poi.

Siamo tra due santi, Frediano e Maria Maddalena de’ Pazzi.

San Frediano è il Santo delle Acque, come ho già avuto occasione di raccontare. La Marzia che sa tante cose, ci dice che questo folle irlandese si era messo in mente un giorno di attraversare l’Arno in piena per andare a visitare San Miniato, e ci era riuscito, a piedi.

Marco, che ha vissuto tutta la vita qui, ci racconta dei suoi ricordi da ragazzo, quando l’acqua dell’Alluvione del Sessantasei saliva e saliva, e invase Via de’ Serragli come Via dell’Orto, dove la Fioretta Mazzei e il nostro amico che ha aperto l’Osteria del Paradiso gestirono gli aiuti.

In quella notte, Don Gonella, appassionato di enigmistica che per un periodo di tempo lunghissimo ha fatto da anima cattolica a un quartiere rosso, mise sulle scalinata della chiesa di San Frediano – ultima isola asciutta del rione – le candele accese,  e piano piano l’acqua sporca le spegneva ad una ad una, fino all’ultimo gradino – dove si fermò a due centimetri sotto il gradino più alto, dove le candele continuarono a far luce nella notte.

E poi, alle nove e un quarto di notte, le acque iniziarono a scendere.

Ai tempi che furono, c’era acqua in Arno, che i lungarni ancora non esistevano; c’era acqua sottoterra che riempiva i pozzi (per vedere se l’acqua l’era bona, la si assaggiava, e se non si moriva, andava bene, ma Brunelleschi preferiva dar vino che acqua agli operai che costruirono la sua cupola).

E poi c’era l’acqua che scendeva giù da Boboli e dal Galluzzo a fiumi, acqua per far corde di canapa e lavorare lana di Marocco, i panni di garbo, cioè del gharb, l’Oriente del mondo islamico, per mezza Europa.

L’acqua d’Arno portava le chiatte e le navi su da Livorno e da tutto il Mediterraneo: San Frediano era innanzitutto un porto di mare. E come in tutti i porti di mare, c’erano  innumerevoli prostitute.

Le quali, sapendo di essere destinate a morir giovani (ma te le immagini, ‘ste figliole di quindici anni…), si tassavano tra di loro – come tutte le arti dei loro tempi – per affidare i loro incerti figli alle suore che se ne curavano in Borgo Stella.

Dove c’è oggi un lungo muro, e dietro, un pino mediterraneo di incommensurabile altezza, uno spazio in cui gli aironi sostano tra la Fontana di Oceano di Boboli e l’Arno.

Non sorprende che la chiesa del quartiere venisse dedicata a Maria Maddalena, per ricordare l’intimo, quasi affettuoso legame cattolico tra peccato e salvezza: un po’ come il quadro, nel seminario, che raffigura il diavolo, con artigli ai piedi, che tenta Gesù indossando il saio dei frati cistercensi.

In questo mondo, Caterina, una ragazza di sedici anni si fa monaca di clausura, e prende il nome di Maddalena.

E’ della famiglia de’ Pazzi, i discendenti di Pazzino de’ Pazzi, chiamato così perché scalò le mura di Gerusalemme a mani nude, e per premio gli diedero le tre schegge di silice provenienti dal Santo Sepolcro con cui ogni anno si dà fuoco al Brindellone davanti al Duomo.

Poi i Pazzi hanno avuto la pessima idea di mettersi contro i Medici; e sarebbero scomparsi con vergogna dalla storia, se non ci fosse stata la Maddalena.

La cosa interessante è che Maddalena non ha mai fatto nulla di interessante.

Ha vissuto i suoi quarantun anno di vita, chiusa in un piccolo spazio, a pregare, fare la comunione tutti i giorni, fantasticare e scrivere, in un’epoca in cui erano pochini a saper leggere.

Per qualunque psicologo moderno, Maddalena sarebbe stata una disturbata da compatire.

Invece, in un’epoca di maschilismo per noi inconcepibile, questa piccola donna sofferente, intimista, strana, malaticcia, che a stento distingueva sogno, visione e vissuto, suscitò  rispetto e ammirazione universale, tanto che nel brevissimo tempo (per la Chiesa) di sessant’anni, è diventata santa.

E oggi, i trenta ultimi seminaristi di Firenze vanno al caffè de’ pazzi.

Nel refettorio del seminario, c’è un affresco del Poccetti (quasi contemporaneo della santa) che ci presenta un mundus imaginalis che non riusciamo nemmeno a concepire oggi, tutto concentrato su un piccolo episodio della vita della nostra meravigliosa nevrotica: il giorno in cui lei, mentre lavorava nella cucina del convento, vide un coltello ed ebbe la tentazione di uccidersi, per cui poi corse a pregare e le passò la tentazione. Il coltello lo conservano ancora, con tanto di targa, in Via de’ Massoni.

Il Poccetti ne fece un affresco che cerca innanzitutto il parallelo supremo, Gesù tentato nel deserto, a sinistra,

tra le fiere, compresi certi mitissimi conigli:

ma al centro mette la nostra ragazzina dalle labbra strette, a tavola (che poi è un sasso, il fondamento stesso dell’universo), mentre osserva un coltello, il pane e il bicchiere in cui si verseranno sangue/vino. A ricordarci che ogni pasto è in realtà, insieme tentazione, eucarestia, vita, morte, ricreazione dell’universo.

Il Rettore poi ci porta nella biblioteca, dove c’è una delle più grandi collezioni di testi musicali del mondo, mai catalogata, e molto altro:

ma soprattutto c’è la Dimostrazione dell’andata del Santo Sepolcro, di Marco di Bartolomeo de’ Rustici.

Che era un’opera del Quattrocento di cui parlavano in tanti, che un predecessore del Rettore ebbe la fortuna di trovare un giorno, uscendo dopo pranzo, sulla bancarella di un rigattiere, verso il Ponte Vecchio.

La Cassa di Risparmio, padrona di Firenze nella maniera crudele e talvolta geniale con cui lo erano i Medici, ne ha fatto una ristampa, al modico prezzo di 2.200 euro a copia, che sfogliamo. Il Rettore ci dice che due australiani ci hanno messo due anni per trascrivere il testo, e riconosco il nome di Nerida Newbigin, che ha anche riscoperto la storia delle rappresentazioni sacre del Carmine (bambini/angeli che volavano a venti metri sopra la testa di tutti).

La città di Gerico, la città di Gerusalemme, la città di Fiesole da cui son scesi i Fiori, la città di Florentia… la mano del Rustici disegna il mondo dalla Creazione, poi racconta la storia di Firenze, poi di un viaggio in Terra Santa dove la vegetazione sembra stranamente quella del Mugello.

Il Rettore, preso da una strana allegria, ci apre un volume rilegato in cuoio, è un messale del 1350, tutto in pergamena.

Non respirate troppo forte, potreste danneggiare il libro…

E ci fa vedere il lapis lazuli, che gli esperti hanno scoperto proveniva da una miniera nel Khorasan, e le gocce d’oro fatte calare con perfetta eleganza, e le nere lettere che al mio occhio moderno sembrano stampate.

Saliamo sull’altana che vedo ogni giorno da casa, e un vento violento ci colpisce, mentre guardiamo, sotto un cielo limpidissimo, una città come non l’abbiamo mai vista prima.

Il Rettore ci richiama con un colpo forte di campana, e scendiamo giù al pozzo di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, che un tempo era secco secco, ma in questi mesi di pioggia si è riempito d’acqua, e il lavello dove le suore lavavano i panni.

Tra di noi  c’è una donna americana di quasi ottant’anni, cresciuta a Brooklyn, che da ragazza è venuta tra i volontari del ’66 (“when I was young and gorgeous”) a restaurare quadri e statue (con un cognome italiano e senza saper dire nemmeno “ciao”), che poi ci porterà nel suo studio – a due passi da casa mia, e non me ne ero mai accorto – e ci spiega con rabbia, amore ed entusiasmo come si lavora la terracotta.

Ci indica il volto di Gesù del Masaccio e la sua tridimensionalità e dice che senza di lui, oggi lei non sarebbe nemmeno viva.

Poi ci dice che ha scoperto una tecnica per scomporre le figure in scatole, di cui nessuno ha mai parlato prima, e l’ha raccontata al fabbro che le sta di fronte.

E il fabbro si è fatto una gran risata, e le ha spiegato, “si ruba coll’occhi!”

Perché le arti non si scrivono mai, si trasmettono agli amici e si nascondono a’ nemici.

La feroce e dolce americana ci guarda dritti negli occhi e ci ricorda:

“There is method in my madness!”

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13 risposte a “Vi è del metodo nella mia follia”

  1. Ugo Bardi scrive:

    Bellissima storia, Miguel. Ti segnalo un altro santo che non ha fatto grandi miracoli, San Charbel, venerato in Libano. https://it.wikipedia.org/wiki/Charbel_Makhluf. Tutto quello che ha fatto è stato di vivere da eremita e tenere sempre gli occhi bassi.

  2. mirkhond scrive:

    “ma Brunelleschi preferiva dar vino che acqua agli operai che costruirono la sua cupola”

    E come facevano a reggersi in piedi e a non cadere giù mentre lavoravano?

    • Miguel Martinez scrive:

      Per Mirkhond

      “E come facevano a reggersi in piedi e a non cadere giù mentre lavoravano?”

      Se ne parlava tempo fa, davanti alla chiesa de’ Buonomini.

      Effettivamente, un liquido uscito dall’uve, è più affidabile di un liquido uscito dall’Arno.

    • PinoMamet scrive:

      Non è così strano: mi pare che anche i legionari romani tenessero nelle borracce una bevanda a base di vino, e se non erro anche nella vecchia Gran Bretagna bevande alcoliche leggere come la “small beer” erano forse più comuni dell’acqua per i lavoratori.
      Credo che il ragionamento alla base non fosse diverso da quello di Brunelleschi…
      😉

      • Peucezio scrive:

        Se non sbaglio in Baviera gli operai della BMW a metà mattina si fanno fuori già una cassa di birra durante la pausa (non a testa ovviamente).

      • PinoMamet scrive:

        Beh qualunque operaio, muratore, lavoratore agricolo ecc, che abbia visto all’opera “va” a birra o vino (magari annacquato) non certo ad acqua…

        posso testimoniare che chi lavorava in agricoltura da queste parti (contoterzisti ecc.), ma anche muratori e compagnia, si sarebbero anzi offesi a morte se qualcuno avesse pensato di rifocillarli con acqua fresca…

        • roberto scrive:

          mah, noi abbiamo appena finito dei lavori di ristrutturazione abbastanza importanti (cantiere di quasi un anno) e i muratori/operai che si sono susseguiti non hanno mai bevuto un goccio di birra durante i lavori, nonostante avessi lasciato un frigo stracolmo espressamente dedicato. si facevano volentieri una birretta a fine giornata, questo si, e nel frattampo litri e litri di caffé, ma durante il lavoro proprio mai

          • roberto scrive:

            e credo che la domanda di mirkhond sia la spiegazione di questo strano fenomeno che mi ha incuriosito (per la cronaca, operai al 90% portoghesi, gli altri serbi o balcanici in generale)

        • Mauricius Tarvisii scrive:

          ma anche muratori e compagnia, si sarebbero anzi offesi a morte se qualcuno avesse pensato di rifocillarli con acqua fresca…

          Una volta ho sentito un operaio edile friulano un po’ attempato rimpiangere l’epoca in cui le convenzioni con le trattorie per il pasto prevedevano la somministrazione di vino come bevanda. Ora, a quanto pare, prevedono solo acqua (“perché già i cantieri sono pericolosi, poi se ci metti anche il vino…” era la giustificazione del cambiamento).

      • mirkhond scrive:

        La bevanda in questione era la Posca, una miscela di acqua e aceto.
        Pare che questa bevanda, attraverso una spugna imbevuta e issata su una lancia, venisse offerta dai legionari al Cristo agonizzante:

        https://it.wikipedia.org/wiki/Posca

  3. Roberto scrive:

    Bello!

    Una “collezione non catalogata” mi colpisce come “un’isola mai esplorata”.

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