Mosche e artisti

Qui abbiamo spesso parlato di arte contemporanea.

Il centro storico di Firenze, con il suo valore simbolico e/o turistico, attira come le mosche un certo tipo umano molto contemporaneo.

L‘artista mosca, tipicamente maschio e con un ego grosso così, si piazza davanti a qualche noto monumento, gridando cacca! cacca!, e aspetta che dall’alto gli piovano addosso soldi pubblici.

A questo gesto si dà qualche titolo altisonante, che però non deve ingannare: lo scopo è proprio di far saper a tutto il mondo che il bambinone ha gridato cacca! cacca! e quindi che è un gran trasgressivo.

 Urs Fischer si mette in posa

Un esempio è Ai Wei Wei (quello che ha addobbato Palazzo Strozzi con i finti barconi dei profughi, senza battere un ciglio quando la polizia è arrivata per mandare via i profughi veri), autore tra l’altro di questa opera, che nell’immagine e nel titolo (Uno studio di prospettiva) riassume tutto il concetto di artista-mosca:

Impegno tecnico pari a zero, contenuto pari a quello della foto di gruppo dove qualcuno dietro fa le corna a quello davanti, titolo che dice “vi sto prendendo in giro”, poi si passa all’incasso.

Ora, uno si chiede se l’artista-mosca sia l’unica cosa che i nostri tempi sappiano produrre in termine di arte?

Ieri passavo in Via Santa Monaca, dove c’è una chiesetta sconsacrata. Il portone era semiaperto, e dentro, nel buio, si intuiva qualcosa di insolito.

Entro, nel silenzio e nell’oscurità, e mi trovo di fronte a qualcosa di straordinario.

Al posto del pavimento, qualcosa che sembra un profondo lago. Lentamente, sopra le acque, girano due grandi rami, quasi alberi, che somigliano a fossili di dinosauri. Una delicatissima luce crea un riflesso misterioso e profondo dei rami stessi, che sembrano e non sembrano due antichi esseri viventi che si guardano.

  Ogni tanto, uno dei rami sfiora appena la superficie dell’acqua, e unriflesso di piccole onde compare sulle pareti, tra i grandi quadri oscuri sulle pareti della chiesa, che si intuiscono appena.

Tutto questo è a prima vista molto contemporaneo: è difficile spiegare “che cos’è”, e l’ambientazione non è esattamente normale per una chiesa, credo settecentesca.

Solo che qui si capisce tutta la differenza tra arte e dire cacca cacca. Non a caso gli esibizionisti mettono le proprie opere in bella vista, qui se non guardi nella porta socchiusa, nemmeno sai che esiste (meglio così, perché è qualcosa che si apprezza solo nel silenzio e nella solitudine, due cose inconcepibili oggi).

Solitaire è una “installazione” dell’artista francese Stéphane Thidet,

Non vi metto un’immagine, vi invito a guardare direttamente foto e video sul sito di Thidet, dove vedrete la stessa installazione in un evento precedente in Francia.

Almeno a una prima superficiale occhiata, sul sito non c’è una foto dell’artista stesso. La biografia è semplicemente una lista delle sue opere.

Il fatto che un artista contemporaneo riesce a fare qualcosa che colpisce profondamente per ciò che è, e non per ciò che trasgredisce, vuol dire che gli artisti-mosca non hanno nemmeno la scusa che “oggi non si può fare più niente di bello“.

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131 risposte a Mosche e artisti

  1. Francesco scrive:

    pienamente d’accordo

    ho iniziato a guardare Solitaire accigliato dicendomi cosa cavolo è? poi ho smesso per continuare a guardare

  2. rossana scrive:

    Mi piace molto questo artista, e mi piacciono molto le sue opere.
    Grazie per la segnalazione.

  3. Moi scrive:

    https://www.youtube.com/watch?v=SFLw8aH-M2w

    … e la musica classica “rivisitata” ? 😉

  4. Moi scrive:

    e siccome non c’è arte senza critica …

    http://www.tgcom24.mediaset.it/cultura/ascesa-e-declino-del-contemporaneo-nel-libro-l-arte-nel-cesso-di-bonami_3070531-201702a.shtml

    Da Duchamp (urinario-fontana) a Cattelan (cesso dorato) …

    Ascesa e declino del contemporaneo nel libro “Lʼarte nel cesso”, di Francesco Bonami

    “Ritrovare la capacità d’inventare e narrare storie”. Il brillante critico internazionale riprende il discorso avviato dieci anni fa

    • paniscus scrive:

      Terza prova scritta di esame di maturità, sezione di storia dell’arte, un paio d’anni fa:

      “La Fontana in realtà è un gabinetto”.

      Sempre meglio di quello che mi scrisse nella prova di fisica che “le linee di forza del campo elettrico sono *circonferenziali*” o di quell’altra che affermò che la presenza di un campo magnetico variabile causa l’ *insurrezione* di una corrente indotta nel circuito.

  5. Moi scrive:

    https://www.youtube.com/watch?v=k5L0OGEJSNE

    Il Mistero di Bellavista – Arte Moderna – Luciano de Crescenzo

    • Antonello scrive:

      C’e’ da dire che De Crescenzo ha fatto piu’ male a Napoli di quanto possa farne tutta l’arte contemporanea.

      • Miguel Martinez scrive:

        Per Antonello

        “C’e’ da dire che De Crescenzo ha fatto piu’ male a Napoli di quanto possa farne tutta l’arte contemporanea.”

        Interessante, hai voglia di elaborare?

      • Peucezio scrive:

        Addirittura…
        Povero De Crescenzo!
        Ma davvero gli attribuisci tutta ‘st’influenza?

        • PinoMamet scrive:

          Credo che adesso De Crescenzo sia ricordato solo da Moi, che è da sempre una specialista di “nicchie”;)

          Ma una ventina o trentina d’anni fa, senza essere certo un personaggio particolarmente influente o maitre a penser, era in televisione ogni tre per due, pubblicava libri che vendevano ecc.

          • Peucezio scrive:

            Sì, negli anni ’80, me ne ricordo molto bene.
            Però è stato un fenomeno abbastanza effimero.
            Oggi tutti ci ricordiamo di Totò ed Eduardo, molto più che di De Crescenzo, che pure e più recente.
            E ci ricordiamo di più di Troisi, che è stato suo contemporaneo.
            Lì c’è proprio una questione di livello qualitativo: a me De Crescenzo piace, ma gli altri tre sono stati giganti, grandissimi artisti, mentre lui era un buon intrattenitore.

            Per questo faccio fatica ad attribuirgli tanta importanza.

      • PinoMamet scrive:

        Secondo me Antonello ha ragione e immodestamente lo dissi io tempo fa 😀
        (chiamo Moi a testimone!)

        ma aspetto la spiegazione di Antonello, per vedere se diciamo la stessa cosa.

        Trovo che De Crescenzo sia responsabile della diffusione dello stereotipo del napoletano fancazzista, parolaio, furbetto e vanaglorioso, che secondo lui sarebbero caratteristiche “mediterranee”
        (un altro aggettivo su cui bisognerebbe soffermarsi…) e “greche”.

        Mi è sempre sembrato, di fatto, un fiancheggiatore delle scemenze leghiste.

        • Mauricius Tarvisii scrive:

          Lo penso anch’io.

        • Peucezio scrive:

          Mah…
          Non ti nego che ho sempre avuto un certo fastidio per quest’idea.
          Come se per essere degni bisognasse aderire non si sa bene a quale controstereotipo efficientista, nordicista…
          E comunque, al di là del merito, non vedo la specificità di De Crescenzo. Perché Totò che idea della napoletanità dava?
          Non dico Eduardo, perché era più raffinato, ma infatti quella è arte colta, anche se poi a Napoli è popolarissima. Ma De Crescenzo, che non pretendeva di fare arte colta, ma intrattenimento ben fatto, che altro poteva fare? Io ho trovato godibilissimo sia il libro “Così parlò Bellavista” che almeno i primi due film.
          Ma anche, per esempio, la prova che fece come attore nell’adattamento televisivo di “Sabato, domenica e lunedì”.

          Semmai c’è un dato opposto che m’intristisce e cioè che Napoli negli ultimi anni si è incupita moltissimo. I film e le serie (non penso solo a Gomorra, ma anche a diversi film validi, di taglio fortemente realistico, degli ultimi vent’anni) ne sono uno specchio forse estremizzato (come d’altro canto erano spesso estremizzati nel senso opposto, oleografico e bozzettistico, i film dei decenni precedenti), ma questo cambiamento girando per Napoli si percepisce.
          E non c’è nulla di bello in tutto ciò: è squallore, violenza, degrado, mentre sembra andare via via dissolvendosi (spero che non accada) ciò che ha sempre fatto amare Napoli, cioè quella piacevolezza espressiva vivace e multiforme che, per quanto la folclorizzi, la stereotipizzi, ecc., era reale e probabilmente rifletteva tratti umani che riscattavano la condizione di miseria che c’è sempre stata nel popolino (a parte che si è molto dissolta anche la piacevolezza dei borghesi napoletani, che era impagabile!).

          • Roberto scrive:

            Sono totalmente d’accordo con peucezio

            Di de crescenzo c’è anche un bellissimo libro fotografico, la Napoli di bellavista.

        • PinoMamet scrive:

          “Come se per essere degni bisognasse aderire non si sa bene a quale controstereotipo efficientista, nordicista…”

          Ma è proprio questo il punto!
          Quando si crea uno stereotipo si crea immediamente il suo opposto.
          De Crescenzo si poneva come un grande sostenitore dello stereotipo del meridionale fancazzista, contrapposto a quello del settentrionale efficientista.
          Va da sè che ci saranno stati, e ve n’erano, molti settentrionali che erano sostenitori dello stereotipo del settentrionale efficiente e lavoratore, contrapposto a quello del meridionale fancazzista.

          Ora, io non ho nulla in contrario al sano fancazzismo, e trovo abbastanza deprecabile il culto del lavoro.

          Non credo che questo possa applicarsi però a intere categorie accomunate geograficamente
          (tradotto “i meridionali non hanno voglia di fare un cazzo”, in opposizione a “i settentrionali sono dei poveri cretini che sanno solo sgobbare”, che poi sono i grandi slogan delle opposte tifoserie, rintracciabili nei cessi di tutt’Italia)
          e mi sta abbastanza sul cazzo chi lo fa.

          A parte questo, credo che sia vero quello che dici sull’incupimento dell’immagine di Napoli.

  6. Peucezio scrive:

    Insomma, alla fine i napoletani per andare bene devono essere degli altoatesini 🙂
    Non è più “leghista” questo?

    • PinoMamet scrive:

      Io non credo che esistano “i napoletani” e “gli altoatesini” con caratteristiche fisse, immutabili, e magari ereditarie…

      • PinoMamet scrive:

        Immagino- perché un po’ conosciamo le rceiproche idee- che mi dirai “ma come, allora non crederai che tutte le persone al mondo siano perfettamente intercambiabili?”

        in effetti credo che ci siano delle culture, anche locali, che un po’ influenzano il comportamento dei singoli, ma sostanzialmente: le culture sono una cosa, il comportamento o carattere dei singoli è un’altra, e dipendente da una serie infinita di fattori, per cui non esiste un altoatesino identico a un altro o un napoletano identico a un altro, mentre un altoatesino X e un napoletano X possono benissimo essere similissimi per carattere, abitudini e inclinazioni.

        In ogni caso, l’idea che i napoletani passino il tempo a raccontarsi storielle e i milanesi concepiscano solamente di correre al lavoro, è una cagata pazzesca, che qualcuno sarà responsabile di avere inculcato nella testa dei napoletani e dei milanesi stessi, che prima mi pare avessero tutt’altre idee.

        • Peucezio scrive:

          Vabbè, dai, per secoli non esisteva uno stereotipo dei napoletani, poi è arrivato De Crescenzo, dagli anni ’70 circa, e lo ha creato dal nulla.
          Ti ricordo semmai che se c’è un luogo e una popolazione al mondo che ha costituito un esempio estremo di stereotipizzazione da parte del resto del mondo (nel bene e nel male, fondatamente o no) è proprio Napoli, che è bozzetto e oleografia da sempre.

          Sul resto, vabbè, mi pare un po’ una petizione di principio, non saprei cosa rispondere…

        • PinoMamet scrive:

          Peucè, suvvia, non venirmi a parlare di petizioni di principio tu… 😉

          in realtà secondo me è quella “decrescenziana” la petizione di principio.

          Comunque non credo che nel Seicento o nel Settecento ci fosse lo stereotipo del napoletano come “intellettuale della Magna Grecia”
          (credo che sia la definizione data da Agnelli a De MIta che non era napoletano, ma per capirci) come secondo vulgata di De Crescenzo.

          Sicuramente non mancano descrizioni più o meno pittoresche dei quartieri popolari, della malavita ecc., ma anche queste, tolto il clima, sono sostanzialmente identiche a quelle degli stessi ambienti di Parigi o di Londra.

          Per cui, sì, credo onestamente che alcuni stereotipi siano stati proprio coniati da lui, come è sezn’altro sua l’idea (copiata poi dalla Lega Nord, che originariamente aveva tutt’altra ispirazione) della divisione “alla cazzo” degli italiani in Celti Etruschi e Greci, che fa strame della Storia autentica per sostituirla con la divulgazione da bar e quindi mi sta particolarmente antipatica.

          • Peucezio scrive:

            Vabbè, su Celti, Etruschi e Greci d’accordo, ma che De Crescenzo si sia inventato lo stereotipo del napoletano come lo conosciamo… Ti devo pure rispondere?
            Quali poi nel concreto? Ci sarebbe qualche caratteristica che prima di De Crescenzo non veniva generalmente attribuita al napoletano e dopo sì…?

          • PinoMamet scrive:

            Credo di avertela già scritta: l’idea dei napoletani come un popolo di “filosofi della Magna Grecia”, alla quale De Crescenzo pareva tenere particolarmente e che non ho mai incontrato prima di lui.

            • Peucezio scrive:

              Ah, vabbè, questo può essere, ma a parte che io l’ho sempre pensato, sapevo della battuta di Agnelli, ma non sapevo nemmeno che l’avesse detto De Crescenzo (che poi un napoletano scriva libri divulgativi sulla filosofia greca non mi sembra una cosa sorprendente; avevo presente semmai che il suo personaggio collega lo spirito napoletano a Epicuro, che mi sembra una sciocchezza).
              Però non mi sembra una cosa grave, anzi, mi sembra uno stereotipo positivo, rispetto a quelli, ahimè tanto diffusi, del napoletano imbroglione, ladruncolo, approssimativo, sporcaccione, ecc. ecc.

              • PinoMamet scrive:

                Ci mancherebbe che diffondesse stereotipi negativi!

                Ma il fatto è che io non amo particolarmente gli stereotipi.

              • Peucezio scrive:

                Mah, stereotipo è una parola che vuol dire tutto e niente.

              • Peucezio scrive:

                Mi spiego meglio.
                C’è lo stereotipo. Legato al fatto che spesso si conoscono le cose, indirettamente, approssimativamente o schematicamente.
                Poi ci sono i dati reali. E chiaramente il confine è labilissimo.
                I genovesi sono avari e i pochi che ho conosciuto non facevano eccezione, ma sapevano ironizzarci essi stessi.
                Poi magari il nostro Di Vita non lo è. Ma, insomma, conta la media. Ne abbiamo già parlato mille volte.

                Non riesco però a vedere nessun danno in De Crescenzo che diffonde l’idea dei napoletani come filosofi magnogreci,
                1) un po’ perché sono cose che cogli tu, che sei un grecista (con origini napoletane, se non ricordo male), io e pochi altri, mentre la gente associa la Napoli di De Crescenzo alle battute, ai fattarielli, molto più che alla scuola eelatica,
                2) perché non è solo una cosa posotiva, ma una cosa positiva seria, che dà dignità: non è positiva come dire che i napoletani sono bravi a cantare le canzoni col mandolino o che fanno teatro ogni momento per strada, tutte cose belle (e una volta sostanzialmente vere), ma che fanno folclore.

                Non riesco a capire trovi così grave che qualcuno abbia collegato lo spirito popolare napoletano al retaggio magnogreco (peraltro non è stato certo il primo): puoi pensare che non ci sia questa consequenzialità, ma non alimenta nessuno stereotipo popolare, al massimo è una semplificazione storica (secondo me sostanzialmente fondata, magari tu non sarai d’accordo).

              • PinoMamet scrive:

                Peucè:

                le semplificazioni storiche non sono mai positive.

                Il brutto di De Crescenzo non era che dicesse che i napoletani, per il semplice fatto di essere nati a Napoli (per carità, città bellissima e che ammiro), fossero antichi greci fatti e finiti, anzi, ateniesi del tempo di Socrate
                (che comunque è una cazzata per una serie tale di motivi che oso credere non ci sia bisogno di scrivere);

                ma il fatto che sostenesse questa sua idea da bar della divisione degli italiani lungo presunte linee etniche, che avrebbero condizionato per sempre usi e costumi, nello stesso momento in cui alcuni partiti politici dicevano lo stesso.

                Fondamentalmente lo vedo come la versione italiana di Eddie Murphy e dei suoi film (alcuni anche molto divertenti) dove i neri sono tutti ricchi e potenti (ma sempre calcando al massimo le caratteristiche dello stereotipo: affabulatori, istrionici, fissati con l’abbigliamento esagerato e di cattivo gusto ecc. ecc.) e dove magari le caratteristiche peculiari dei neri americani vengono attribuite agli africani, che sono tutto un altro paio di maniche…

                Poi le cazzate, anche simpatiche, restano sempre cazzate, oh.

              • PinoMamet scrive:

                Vorrei ricordare che secondo gli storici e i filologi tedeschi e inglesi dell’Ottocento, i padri nobili della disciplina si può dire, lo stereotipo degli antichi ateniesi è che fossero identici ai tedeschi e agli inglesi di classe elevata dell’Ottocento…

              • PinoMamet scrive:

                A scanso di equivoci: cazzata altrettanto grande, e altrettanto poco fondata, di quella di De Crescenzo.

              • Peucezio scrive:

                Pino,
                “ma il fatto che sostenesse questa sua idea da bar della divisione degli italiani lungo presunte linee etniche, che avrebbero condizionato per sempre usi e costumi, nello stesso momento in cui alcuni partiti politici dicevano lo stesso.”

                Vabbè, ‘sta cosa la sai solo tu e qualche altra persona molto attenta, ma che grazie a De Crescenzo in Italia i lombardi hanno cominciato a credersi celti, i toscani etruschi e i napoletani greci (nelle tre affermazioni c’è una parte di verità e una parte di cazzata, molto più forte nella prima; la tripartizione ovviamente è puro delirio: gli abruzzesi cosa sarebbero? I veneti?), scusami, ma mi pare fantascienza: gli uni e gli altri, o, meglio, una piccola parte di cultori vagamente identitari, ‘ste cose le pensava da molto prima, forse già dal Rinascimento, sicuramente dall”800.

                Mi sembra tu stia costruendo un mito di De Crescenzo, attribuendogli un’influenza spropositata, quasi fosse l’autore di tutti i miti identitari italiani contemporanei. Ho una certa consuetudine con contesti identitari (non parlo solo di gente politicizzata, ma anche di persone del tutto comuni) e non ho praticamente mai sentito fare il suo nome.

              • PinoMamet scrive:

                Allora, per ordine:

                a dire il vero non mi è mai capitato di leggere passi pre-novecenteschi che attribuissero particolare valore alle popolazioni dell’Italia pre-romana.
                Il mito fondante dell’aspirazione all’Italia unitaria era quello della romanità;
                in realtà anche gli accenni alla gloriosa Magna Grecia mi sembrano vaghissimi nella letteratura precedente
                (semmai i richiami greci provenivano dall’Arcadia- società e “gioco” letterario)

                ai lombardi che fossero celti qualcuno doveva pur dirglielo, visto che non lo avevano mai sentito prima e non lo sospettavano
                (la Lega Nord all’epoca si chiamava Lega Lombarda e si rifaceva come tutti sanno al Medioevo e alla lotta dei Comuni dell’Italia settentrionale contro l’Impero…)

                De CRescenzo non è stato certo l’unico (c’era anche Miglio) e non voglio attribuirgli tutta quest’importanza, ma certo è stato uno dei principali sdoganatori e sputtanatori, che è la stessa cosa, di questi temi…

              • Peucezio scrive:

                Pino,
                “a dire il vero non mi è mai capitato di leggere passi pre-novecenteschi che attribuissero particolare valore alle popolazioni dell’Italia pre-romana.”

                Interessante; non ho sottomano la controprova, quindi può essere tu abbia ragione.
                O, meglio, per la verità il concetto di sostrato in linguistica, tanto caro a Merlo, era già di Ascoli (in realtà il “Saggio sui dialetti gallo-italici” di Biondelli è ancora precedente: metà Ottocento).
                Però non poso assicurarti che fossero concetti correnti in ambienti eruditi fuori dall’ambito specialistico della linguistica storica (anche se un po’ mi sorprenderebbe che non avessero nessun rapporto con le idee correnti negli ambienti colti).

              • Peucezio scrive:

                No, non mi torna.
                Perché si sono dati certi nomi alle regioni dopo l’Unità d’Italia? Pensa alla Campania: non si usava più quel nome da millenni…
                Che nell’Ottocento i toscani colti non si ritenessero discendenti degli Etruschi mi sembrerebbe davvero strano…
                Dovrei andare a vedere qualche libro ottocentesco di storia locale di qualche zona che conosco un po’…

              • Peucezio scrive:

                Qualcosa mi suonoava nella poesia del primo Ottocento…

                Dalla Treccani online:
                “ìnsubre agg. [dal lat. Insŭber -bris]. – 1. Dell’Insùbria, denominazione talvolta usata per indicare la regione abitata dall’antica popolazione celtica degli Insubri, corrispondente pressappoco all’attuale Lombardia. 2. letter. Lombardo: E avrai, divina, i voti Fra gl’inni miei delle i. nepoti (Foscolo); già la guerra corre l’i. terra (Carducci).”

                Secondo me è stato il romanticismo a far entrare in voga queste cose. Anche se non credo che almeno dall’età umanistica ne fossero del tutto digiuni (ma bisognerebbe aprrofondire).

                Sarebbe interessante sentire Mirkhond e Habsburgicus, i nostri pozzi di scienza del blog.

              • PinoMamet scrive:

                Aspetta, io non dico che ne fossero digiuni, né che la lingusitica non avesse iniziato a tenere in considerazione il sostrato (quando non saprei, comunque ammettiamolo);

                dico che non erano di dominio comune e in realtà anzi piuttosto da specialista, e che gliene fregava pochissimo a tutti.

                Per cui un poeta per cultura o, soprattutto, per metrica, poteva andarsi a ripescare gli Insubri, ma la cosa non andava aldilà della curiosità antiquaria.

                A casa di una vecchietta, tempo fa, trovai un libro ottocentesco sulla Storia di Parma, di cui non ricoro l’autore, che elencava per esempio (e non ho idea di dove li avesse ricavati) i nomi dei lucumoni etruschi della città.
                Bene, interessantissimo, ma restava una curiosità da erudito, che avranno letto in cinque, con zero effetti sulla coscienza comune e identitaria.

              • PinoMamet scrive:

                I nomi delle regioni poi vengono dall’Italia augustea, o poco dopo;

                so che adesso la vulgata dice il contrario, che sotto Augusto avevano solo numeri, sta di fatto che i nomi sono attestati comunque già in epoca imperiale
                (non mi dilungo, già lo feci a proposito del nome Aemilia e non ho voglia di andare a scartabellare di nuovo…)

              • Peucezio scrive:

                Pino,
                certamente, ma questo vale più o meno per tutto, prima dell’accesso di massa alla cultura alta, con la scolarizzazione generalizzata.

                Non penso ci sia voluto De Crescenzo per insegnare ai lombardi di essere celti (che sono molto ma molto meno di quanto non pensino), ma semplicemente si è diffusa popolarmente una conoscenza erudita.
                Aggiungici la moda del celtismo un po’ in tutta Europa negli anni ’90 (ma, penso, già da prima), con la musica irlandese e via discorrendo…
                Mio zio mi parlava di borghesi castigliani che dicevano apoditticamente “Yo soy un celta!”. Di fronte a un’affermazione del genere o gli rispondi “tu si nu strunze!” oppure che gli dici? 🙂
                E lì De Crescenzo c’entra poco. Ma quando ci viveva mia madre, all’epoca di Franco, non sentivi simili scempiaggini.
                Poi in Italia può pure aver dato un contributo a ‘ste cazzate, non dico di no.

              • Peucezio scrive:

                Aggiungo a “Ma quando ci viveva mia madre, all’epoca di Franco, non sentivi simili scempiaggini.”:

                sentivi altre scempiaggini! 🙂

              • PinoMamet scrive:

                “Di fronte a un’affermazione del genere o gli rispondi “tu si nu strunze!” oppure che gli dici? ?”

                Voto per l’opzione 1 😉

          • PinoMamet scrive:

            Peraltro penso che lo stereotipo del cockney sia quasi perfettamente sovrapponibile a quello del napoletano “verace”, così come le storie degli “apaches” parigini sono di pochissimo diverse da quelle della vecchia camorra o della ligera milanese…

            • Moi scrive:

              Sì, ma nel Mondo AngloSassone i “Chavs” & Affini … mica accedono alla Classe Dirigente !

            • PinoMamet scrive:

              Chavs non è la stessa cosa di cockney, come tamarro non è la stessa cosa di napoletano.

              Uno è un termine di classe sociale, l’altro geografico/”etnico”.

      • Miguel Martinez scrive:

        “Io non credo che esistano “i napoletani” e “gli altoatesini” con caratteristiche fisse, immutabili, e magari ereditarie…”

        Earth, water, fire and air
        Met together in a garden fair,
        Put in a basket bound with skin.
        If you answer this riddle,
        If you answer this riddle,
        You’ll never begin.

  7. Moi scrive:

    Cmq il meno scolarizzato del gruppo, Salvatore, si rivela alla fin fine il Tomistico-Aristitelico 😉 …

  8. Moi scrive:

    C’era un vecchio articolo molto interessante di Blondet sull’ accento perfettamente British di Sadiq Khan VS i Professori e Laureati méid in Italiotland 🙂 che qualunque titolo di studio, qualunque pubblicazione ottengano … sempre come Checco Zalone parleranno, e con orgoglio !

    • PinoMamet scrive:

      Non ho letto l’articolo ma detto così mi sembra poco indicativo: in Gran Bretagna l’accento non è solo un fatto “etnico” o geografico, ma anche sociale: il sindaco di Londra “non sta bene” che parli con accento pakistano così come credo non starebbe troppo bene che parlasse con accento da scaricatore di porto…

      in Italia, dove l’unità è stata un fatto recente, ognuno è orgoglioso della sua città e mi pare che alcuni
      (i lombardi, ma solo della sottospecie leghista- alcuni veneti- forse alcuni napoletani- i romani) si facciano un punto d’onore di calcare il proprio accento.

      • Peucezio scrive:

        Io mi chiedo perché i popoli anglosassoni sopportino ancora di essere governati da élite che si vergognano di loro e fanno ogni sforzo per distinguersene.
        In Italia di un politico scandalizza (ma neanche sempre) l’ignoranza, cioè se non sa usare i congiuntivi. Che poi significa anche ricchezza lessicale, quindi complessità di pensiero, comprensione delle cose.
        Ma per gli anglosassoni è un fatto di accento, come dire, di stile. E’ come il colore di una cravatta.
        In Italia in fondo c’è una certa cultura diffusa.
        Invece da quelle parti (penso pèiù agli Stati Uniti, ma anche lì, in misura minore, c’è questo mal vezzo dell’accento) le università sono sentite come corpi estranei. Solo che per contare qualcosa bisogna essere laureati (cosa che da noi non accade o accade da pochissimo), cioè un piccolo gruppo di gente completamente diversa da tutti gli altri comanda su tutti gli altri.
        In Italia non esiste una simile distanza antropologica fra governanti e govenrati: Razzi o Di Pietro sono solo un esempi estremi.

        • PinoMamet scrive:

          Mmm secondo me confondi gli inglesi con gli americani.

          Per gli americani può essere che l’accento sia più o meno come il colore della cravatta, ma da loro l’accento non ha tanto a che fare con la classe sociale ma con la provenienza geografica, come da noi.

          Per gli inglesi invece, sostanzialmente, un buon accento ha lo stesso significato dei congiuntivi da noi, cioé vuol dire che hai fatto una buona scuola e una buona università (in nessuno dei due paesi- USA e UK- direi poi che le università sono dei corpi estranei…)

          Hai proprio una pessima immagine di chi parla inglese! 😉

          • Peucezio scrive:

            Pino,
            ” ma da loro l’accento non ha tanto a che fare con la classe sociale ma con la provenienza geografica, come da noi.”

            Ma le due cose vanno insieme. Cioè se si capisce da dove vieni, vuol dire che hai un accento non standard, poco qualificante socialmente. Almeno così mi spiegava in questi giorni un signore americano che conosco.
            Anche da noi è così (se hai un’inflessione regionale fortissima, parli “peggio”), solo che, appunto, da noi è abbastanza tollerato.

            Sull’università come corpo estraneo, mi riferisco alla cultura in genere: un italiano di classe bassa spesso qualcosina legge, certe coordinate minime ce le ha, gli può capitare di interagire con gente istruita, moltissimi poi hanno hobby e interessi culturali che portano avanti magari con poco metodo e sistematicità, senza un retroterra adeguato, ma che li rendono comunque più colti.
            Non conosco il mondo anglosassone direttamente, ma l’impressione che si riceve dalla cinematografia e dalle cose che si leggono in giro è che lì il mondo dei pochi istruiti e quello della massa dei semialfabetizzati non abbiano quasi contatti e che i secondi guardino i libri e la cultura come io e te guardiamo le formule matematiche della fisica nucleare, cioè cose arcane e incomprensibili, del tutto fuori dalla nostra portata e che non c’interessano.

            Sarebbe interessante comunque sentire Miguel, il nostro anglosassone!

            • Moi scrive:

              Nel Mondo AngloSassone, l’ Elitarismo Culturale è marcatissimo ! … Infatti le Sx nostrane tanto più si rendono antipatiche quanto più sbavano appresso al suddetto Mondo Anglosassone !

              In fondo, l’ URSS ha pur sempre avuto per Presidente un Contadino Ucraino (*) che richiamava l’ ordine togliendosi una scarpa e battendola sul tavolo !

              _________________

              *
              Difatti è con Nikita Kursciov (o come si voglia traslitterarlo) che nasce l’ espressione “Uomo del Popolo” … con l’ attuale sedicente (!) Sx che ripete senza posa “Populista” (“Umbrella Term”, come si dice adesso, che prende sotto di sé “Maschilista”, “Sessista”, “Razzista”,”Specista”, “Omofobo”, “Xenofobo”, “Transofobo”, “Islamofobo” … qualunque roba voglia e vogliano dire !) come degli Esorcisti dicono “Indemoniato” !

              Poi sta pure emergendo “Sovranista” come Spin Off 😉 di “Populista” !

      • Z. scrive:

        Tra i lombardi che ho conosciuto, quelli che calcavano meno il loro accento erano forse i pochissimi milanesi-milanesi.

        A me salta fuori il bolognese che è in me quando parlo con bolognesi-bolognesi (i pochi che restano), mentre mi esce più attenuato quando parlo con interlocutori che vengono da fuori (che a volte mi chiedono: ma tu non sei di origine bolognese, vero?).

  9. PinoMamet scrive:

    Colgo l’occasione dell’interessante (per me, almeno) discussione con Peucezio per ribadire la mia idea: secondo me gli italiani vivono troppo nel passato.

    Ma il passato non esiste! è una nostra proiezione mentale come un’altra.

    • Peucezio scrive:

      Quindi in che vivono?

      • PinoMamet scrive:

        Bello il tentativo di sofismo, ma abbiamo già dato. 😉

        • Peucezio scrive:

          Vivrebbero in un passato non reale ma mitizzato, quindi…
          Che però, se è un’invenzione recente, significa che vivono nel presente. Sia pure in una mitologia presente. Ma si sa che le idee hanno molto di mitologico.
          Però per quel poco che ho bazzicato l’estero, gli italiani mi sembrano con i piedi molto più piantati nel mondo reale rispetto ai popoli stranieri che ho conosciuto. Non foss’altro perché non siamo ipocriti, anzi, semmai siamo fin troppo demolitori.

        • PinoMamet scrive:

          “Vivrebbero in un passato non reale ma mitizzato, quindi…”

          non mi stupisce che tu non colga il punto caro Peucezio, perchè, senza polemica, tu sei una persona che vive particolarmente nel passato 😉

          Tu sei un grandissimo, precisissimo ed assai colto esperto dei dialetti della Puglia.
          Hai una tua visione- io credo mitizzata in termini negativi per il mio giudizio, positivo per il tuo; tu probabilmente crederai realistica- della Puglia di una volta.

          Ma il punto è che tu creda che esistono delle caratteristiche immutabilmente “pugliesi” o, che ne so, di Barletta, di Trani ecc., sempre quelle, che arriverebbero forse addirittura dal Neolitico con pochissimi cambiamenti.

          Io faccio un giro a Milano, e vedo un sacco di persone che vivono nello stesso modo e che hanno la stessa cultura.
          Qualcuno di loro può darsi benissimo che abbia dei nonni di Barletta, qualcuno invece del GuangDong o di Bergamo.

          • Z. scrive:

            Tutto sembra più bello, quando per guardarlo dobbiamo volgerci indietro. Ed è da quella torre irraggiungibile che è il passato che la Nostalgia si affaccia e ci tende la mano.

          • Peucezio scrive:

            Pino,
            quindi il concetto è che ci sarebbe non un passato ma tanti passati?
            Sì, è abbastanza vero.
            Io credo ci siano cose che mutano e cose che non mutano. O, meglio, tante cose, con diversi gradi di stabilità e mutevolezza.
            Non credo né che tutto muti, né che tutto rimanga uguale.

            Poi è anche vero che a un certo punto delle cose divengono “classiche” (quando ci si riferisce alla cultura illustre) o “tradizionali” (quando ci si riferisce a varie cose, fra cui la cultura popolare). Il che non va visto come un’ipostasi assoluta e sovratemporale, ma è banalmente legato al fatto che certe forme raggiungono un notevole grado di elaborazione e perfezione oppure che rappresentano l’ultima espressione di una realtà culturale, prima di venire travolte da rivoluzioni sociali e antropologiche che rappresentano delle nette cesure (è il caso della civiltà contadina fino agli anni ’50-’60 grosso modo, che non era stata certo immutabile fino ad allora, ma aveva elementi di continuità che sono stati stravolti per la prima volta nella storia).
            Queste etichette, che non sono da intendere in senso rigido, sul piano pratico sono spesso molto utili e consentono di capire immediatamente di che si sta parlando. Poi si dà sempre qualche elemento ibrido o non ben collocabile, un po’ come in tutte le cose umane.

          • Peucezio scrive:

            Io però ho una riserva metodologica verso quello che mi sembra intuire essere il tuo approccio (magari ho frainteso).
            Sembra quasi che alla fine non si possa dir nulla, perché è tutto un magma indistinto: i popoli sono tutti uguali, perché fatti di individui diversi fra loro, ma senza caratteristiche di gruppo, le epoche sono tutte diverse, quindi tutte uguali (cioè non raggruppabili e classificabili), insomma, esistono solo singole specificità, sopra le quali c’è l’indistinto.

            Qui non ti seguo proprio. Io tendo ad assolutizzare e quando lo faccio lo dichiaro.
            Però ammetterai che ci sono tanti livelli di analisi intermedi e in questi ci sono anche i popoli, le epoche, le culture, a loro volta raggruppabili in civiltà, grandi cicli storici, ecc., con in mezzo cesure forti e tutto il resto?
            Poi è ovvio che, come ogni tassonomia non naturale, ma storica, non è mai rigorosa: come ho detto prima, ci sono elementi che entrano a fatica, altri che ci entrano in molta parte, ma in alcune cose recalcitrano, tutto quello che vuoi…
            Ma uno prima comincia a delineare i concetti in sintesi, poi può entrare nello specifico fino ai dettagli, le eccezioni, la complessità composita di ogni entità, giù giù fino all’individuo.
            Ma in fondo la storia, come ogni altro discorso sulle società umane, è questo: se non si operassero delle sintesi, non si potrebbe veramente scrivere nulla.

          • PinoMamet scrive:

            “quindi il concetto è che ci sarebbe non un passato ma tanti passati?”

            Non proprio. Anche ma non proprio.

            Secondo me il passato è: participio passato del verbo passare.

            il passato è passato–> quindi non c’è più —> quindi non c’è.

            Qualunque immagine che possiamo avere di esso sarà sempre falsa.

            Ma soprattutto: stiamo a parlare di una cosa che non c’è, letteralmente, non esiste.

            Curioso, e anche un po’ spaventoso, che gli italiani, rispetto ad altri popoli che conosco, diano così tanta importanza al passato, lo considerino così fondante:
            è come stare su delle fondamenta di aria…

            e visto che nessuno vuole ammettere che la sua sia aria, ci si accapigliano.

            Questo per le epoche: non sono tutte uguali, per me, ma sono tutte impossibili da ricostruire esattamente, e facili invece da trasformare nella nostra immagine, sogno o desiderio di esse.

            Quanto ai popoli e ai gruppi umani, devo ancora capire bene quale sia il meccanismo.

            Però mi danno l’impressione di avere una consistenza da nubi: sembrano “qualcosa” da fuori, ma dentro, è solo vapore, inafferabile.

            Puoi ben dire “i genovesi in genere mi sembrano avere queste caratteristiche” (che magari non sono quelle che pensano loro…) poi incontri dieci genovesi completamente diversi.

            In genere a me succede così: da fuori incontri dieci persone che rispecchiano lo stereotipo, poi quando li conosci meglio, ci vivi per un po’ o li frequenti, ne incontri mille che non lo rispecchiano affatto.
            Perché sia così non saprei, ma la mia esperienza è questa.

            • Peucezio scrive:

              Pino,
              “Questo per le epoche: non sono tutte uguali, per me, ma sono tutte impossibili da ricostruire esattamente, e facili invece da trasformare nella nostra immagine, sogno o desiderio di esse.”

              Il resto suona un po’ filosofia, ma in quest’ultima affermazione c’è molto di vero.

              Però possiamo intendere il passato in vari modi: la memoria anche individuale (io ricordo benissimo l’atmosfera degli anni ’80, per dire), che però è costitutivamente molto limitata, per ragioni biologiche, ma anche le testimonianze presenti del passato, cioè la permanenza.
              Che può essere l’anziano con la sua mentalità e i suoi modelli (vive oggi, parla, agisce, ma applica modelli che erano vitali decenni fa), come le vestigia materiali, che sono lì e strutturano il nostro paesaggio.
              In questo senso il passato è presente.

              Allora potresti descrivere il mio atteggiamento come una preferenza selettiva all’interno del presente: non ho la macchina del tempo, quindi, come tutti, vivo nel momento presente, ma mi piace di più una chiesetta barocca o medievale di un palazzo degli anni ’60, che sono, le une e l’altro, presenti. E sono più in consonanza con la mentalità di mia madre e i miei zii (i nonni purtroppo non ci sono più da anni) che con quella di un giovane medio (con molte eccezioni però: conosco gente molto più giovane di me di un reazionarismo estremo, spesso un reazionarismo critico, intelligente).
              E’ passato? Sì e no. Non importa. La sostanza ci è chiara.

            • Peucezio scrive:

              Va da sé che se il futuro fosse l’imporsi dei valori tradizionali, non sarei passatista ma “futurista”: in Iran nel 1979 si potrebbe dire che c’è stata una sorta di inversione del vettore temporale (ovviamente non è così: il vettore temporale non si può invertire, a dimostrazione che alla fine contano i valori intrinseci, dovunque, anzi, “quandunque”, whenever direbbero gli anglosassoni, si collochino). In quel caso mi piace più il dopo del prima 🙂

              • Z. scrive:

                Lo vedi che lo sai cos’è un vettore, razza di tanghero meneghino e falso-pugliese?

                😆

              • PinoMamet scrive:

                Peggio: da vero milanese usa anche l’inglese, che finge di non conoscere 😉

              • Miguel Martinez scrive:

                Per Peucezio

                “in Iran nel 1979 si potrebbe dire che c’è stata una sorta di inversione del vettore temporale ”

                Ma quando mai, prima del 1979, l’Iran è stato governato dal cosiddetto “clero” sciita? L’Iran non era nemmeno sciita fino al Cinquecento.

              • Peucezio scrive:

                😀

                Voi ci scherzate, ma questa cosa del verbo combinato con un avverbio dev’essere un calco degli anglosassoni sui milanesi 🙂
                Avevo presente come tratto comune soprattutto il modello, cioè il meccanismo, ma poi ho scoperto che ci sono proprio calchi specifici: sono rimasto molto meravigliato scoprendo che in inglese si dice “write down”, che è il scriv giò milanese, d’altronde basta pensare per es. a “sit down”, che all’imperativo in milanese suona settes giò.

              • Peucezio scrive:

                Miguel,
                “Ma quando mai, prima del 1979, l’Iran è stato governato dal cosiddetto “clero” sciita? L’Iran non era nemmeno sciita fino al Cinquecento.”

                Ma infatti il vettore è un modo provocatorio per dire che non esiste un’unidirezionalità della storia. Noi abbiamo presente teocrazie che spariscono, società che si secolarizzano, poi in Iran succede l’esatto opposto: si dà una teocrazia inedita nella storia di quella nazione.

            • Miguel Martinez scrive:

              Per Pino Mamet

              “Perché sia così non saprei, ma la mia esperienza è questa.”

              Condivido buona parte del post.

              Infatti, il passato è un ente immaginario quanto il futuro.

              Esiste il presente: se è condiviso, è una “identità”, se non lo è, non “identità”.

  10. Moi scrive:

    @ ANTONELLO

    Uomini d’ Amore VS Uomini di Libertà

    Popoli d’ Amore VS Popoli di Libertà

    https://www.youtube.com/watch?v=qOyIPDgzJLE

    • Antonello scrive:

      Rispondo qua per semplicita’. Comunque di fatto avete gia’ detto tutto voi!

      De Crescenzo non ha creato a nulla che non fosse gia’ “sulla carta”, e’ vero, ma ha rappresentato (a mio parere, non c’e’ bisogno di dirlo) quella combinazione compiuta fra napoletanita’ (nel senso usato da Raffaele La Capria, quindi autosemplificatoria) e cultura televisiva nazionale, combinazione propria di quello che Miguel chiamo’ piu’ o meno (se non sbaglio) “ceto intellettuale subalterno di sinistra” – in pratica, la classe media direttamente o indirettamente professorale intrisa di cultura classica da liceo. Non nata con De Crescenzo, ripeto, ma che negli anni ’80 arriva alla sua piena strutturazione in Italia.

      Da campano di nascita, e nato in quel periodo, sono stato accerchiato da questo tentativo ossessivo di ribadire una specificita’ napoletana prima davanti al resto del paese e dopo davanti al mondo intero. Chiaramente, tale specificita’ abusiva e’ universalistica, vale a dire che si tratta concettualmente di “Napoli vs resto dell’umanita’”, a tutto vantaggio della prima. In altre parole, la Napoli di De Crescenzo e’ e deve essere un bastione di purezza “fallace-ergo-umana” rispetto all’estero (e a Milano, ossessione al negativo ormai tipica solo dei meridionali e soprattutto dei campani).

      Quindi:

      – Napoli contro il nord del mondo, la prima povera e autentica, il secondo ricco e asessuato

      – Napoli come bastione della civilta’ classica magno-greca e del sud del mediterraneo, in pratica per non accorparsi al resto del sud del mondo, di cui De Crescenzo dimostra comunque di non sapere nulla

      Se De Crescenzo non e’ il diretto colpevole, posso dire tranquillamente che e’ stato il cantore principale di una Napoli che dagli anni ’80 non contava gia’ nulla e che cercava di autogalvanizzarsi con retoriche insulazioniste d’accatto, e peggio ancora di una Napoli televisiva e autoassolutoria che cerca in tutti modi di tenere l’Italia ancorata a questi dualismi cesellati grossolanamente, di fatto rendendo la citta’ ed il campano l’unica zona d’Italia in cui esiste ancora un interesse prioritario generale solo per la politica nazionale e una sostanziale ignoranza di quello che accade fuori dal quadro nazionale.

      Per allargare un po’, il “professor Bellavista” e’ un rappresentate perfetto del Vomero e del “vomerismo”, vale a dire di quella cultura media che canta Napoli rimanendo pero’ segregata culturalmente e spesso fisicamente nei quartieri “bene” – ed infatti ci “scassa la ‘uallera” con i greci e gli dei antichi che si accoppiano , non accettando nei fatti quella Napoli sporca e caotica che si vorrebbe poi coraggiosamente contrappore al “grigio mediolano” (mi sembra che quest’ultima insopportabile espressione sia proprio di De Crescenzo…).

      Mi spiace, ma sia Napoli che i greci antichi non sono piu’ sufficienti per avere una patente culturale automatica. De Crescenzo ha avuto un effetto nefasto su molti miei amici, imponendo (come detto piu’ sopra) una forma semplificata di essere meridionale, che poi una metropoli come Napoli non si meriterebbe affatto. Ma tant’e’, ancora mi tocca ritornare indietro agli anni ’80 ogni volta che vi ci metto piede, e credo di poter dire che Berlusconi abbia vinto definitivamente il suo Kulturkampf solo fra i partenopei.

      Che poi Napoli sia altro, come ossessivamente mi contestano alcuni miei amici anche settentrionali – che si incazzano tuttavia se qualcuno descrive precisamente le scene da inferno di alcune sue zone (altro che Romania!) – mi verrebbe da dire: “Grazie mille!”. Ovviamente che e’ “anche altro”, solo che vale praticamente per ogni luogo e non e’ una specificita’ di uno solo. Gia’ il fatto che parlare dei pro e contro di Napoli sia ormai diventato uno sport nazionale con lunga tradizione denuncia a mio parere la banalizzazione della citta’ dai tempi, appunto, di quelli come De Crescenzo (che, per la cronaca, sono un esercito…).

      Il video linkato da Moi e’ molto significativo in questo senso:

      – De Crescenzo ovviamente plagia Gaber con la solita questione “questo e’ di destra, questo e’ di sinistra” ricondizionandola a “questo e’ del sud, questo e’ del nord”. La contrapposizione ironica e’ di molto precedente anche a Gaber, oltretutto, se ne trovano riferimenti fin dagli anni ’60. De Crescenzo avrebbe potuto aggiungere “La mortadella e’ propria della cultura del’amore, il prosciutto invece della cultura della liberta’ “. Le banalita’ si possono autogenerare a catena e senza difficolta’;

      – tutti i personaggi che ascoltano attenti il professore ed intervengono durante la “lezione” sembrano dei ritardati. Dovrebbero incarnare una freschezza vitale ed una ingenuita’ goffa ed innocente, ed invece all’esterno danno solo l’idea che crescere a Napoli renda rimbecilliti. E’ quello che succede del resto quando TUTTI i personaggi di un film servono strumentalmente a ribadire la tesi del protagonista (che e’ ovviamente anche sceneggiatore\regista ecc.);

      – a proposito di strumenti, alla fine De Crescenzo ci da’ ovviamente prova del suo essere comunque integrato nel tessuto cultural-televisivo del periodo: la figlia che passa e scambia due parole con il padre e’ la “generica” figlia del cinema\tv del tempo, non ha alcun tratto distintivo partenopeo, parla (doppiata) l’italiano standard nato proprio grazie alla televisione, sembra in definitiva uscita dallo stesso tubo catodico da cui e’ nata la “Milano da Bere” tanto falsamente disprezzata.

      Chiudo (e mi scuso per la lungaggine) citando la scena finale del film, in cui ovviamente il professore napoletano e l’imprenditore milanese riescono finalmente a superare le barriere culturali e a diventare amici. Sono in macchina, si scambiano ulteriori frescacce (del genere “tutti siamo i napoletani di qualcun altro”…) ed infine D.C. se ne esce con questa frase incredibile:

      “Napoli per me non è la città di Napoli ma solo una componente dell’animo umano che so di poter trovare in tutte le persone, siano esse napoletane o no. A volte penso addirittura che Napoli possa essere ancora l’ultima speranza che resta alla razza umana.”

      Ecco, e’ qui e nei discorsi simili che ho sentito troppe volte nei miei luoghi meridiani, che vedo il danno fatto dal “decrescenzismo”. Anni e anni di questa retorica ha dato l’idea a moltissimi miei compaesani che la loro citta’ sia in definitiva l’unico mondo vero in quanto (comodamente) “semplice e complesso”, “bello e cafone”, “nobile e straccione”.

      Le gambe corte della metafora si possono osservare non appena citazione di cui sopra viene riferita a persone che non hanno obblighi rispetto alla soffocante tetta della cultura nazionale (in pratica, fuori dall’Italia). Per quanto Napoli sia da molti amata nel resto del mondo (anche giustamente), questa frase, quando riportata, nel migliore dei casi fa alzare piu’ di un sopracciglio d’incredulita’.

      Dato che il “localismo assoluto” e’ un teorema che funziona economicamente ed e’ di facile applicabilita’, faccio un esempio\test su un’altra citta’ (dove sono stato spesso) che si vuole sintesi della condizione umana ed in cui la sua universalita’ e’ ribadita come un mantra in ogni dove e quando dai locali e da coloro che si sono autoeletti tali: Sarajevo.

      “Sarajevo per me non è la città di Sarajevo ma solo una componente dell’animo umano che so di poter trovare in tutte le persone, siano esse sarajevesi o no. A volte penso addirittura che Sarajevo possa essere ancora l’ultima speranza che resta alla razza umana.”

      Questa frase potrebbe essere tranquillamente tratta da uno degli innumerevoli libri di memorialistica di seconda mano che sono stati pubblicati in Bosnia o sulla Bosnia negli ultimi vent’anni.

      E cosi’ via, secondo il principio de “La volpe e l’uva”.

      • Z. scrive:

        Alcuni studenti fuorisede, dalle mie parti, sarebbero d’accordo, solo sostituendo Bologna a Napoli.

        Poi ahiloro invecchiano…

      • Mauricius Tarvisii scrive:

        Ponzano Veneto per me non è la città di Ponzano Veneto, ma solo una componente dell’animo umano che so di poter trovare in tutte le persone, siano esse ponzanesi o no. A volte penso addirittura che Ponzano Veneto possa essere ancora l’ultima speranza che resta alla razza umana.

        Sì, suona.

      • Peucezio scrive:

        Antonello,
        ma non è che in fondo si tratta solo di un certo degrado culturale e creativo degli anni ’80, per cui venivano fuori questi fenomeni piuttosto mediocri (e De Crescenzo non mi sembra nemmeno dei peggiori)?
        Poi non escludo che a Napoli se lo ricordino di più che nel resto d’Italia, dove è passato di moda da un bel pezzo, ma quell’atteggiamento compiaciutamente provinciale e autocelebrativo di cui parli c’è prima e dopo.
        E comunque oggi mi pare che chi tiene banco sia Saviano, cioè l’anti-De Crescenzo, che specularmente fa altrettanti danni, col suo stereotipo moralistico e manicheo, le sue ipersemplificazioni, quando non vere e proprie mistificazioni, che lo trasformano in un grande fenomeno commerciale, ben lontano da una vera analisi scientifica e sociologica sul fenomeno della camorra.

        Ma, soprattutto, vorrei capire la pars construens.
        Su quali aspetti della napoletanità, finora più o meno trascurati e colpevolmente messi al margine, bisognerebbe puntare?
        Quali sarebbero valori o aspetti positivi di Napoli, alieni dalla retorica dell’autocelebrazione compiaciuta e vagamente bozzettistica, che andrebbero recuperati e a cui si potrebbe fare riferimento in modo costruttivo?

        • Z. scrive:

          Sul degrado culturale e creativo degli anni Ottanta sono d’accordo 🙂

        • Antonello scrive:

          Guarda, Peucezio, la domanda sulla pars construens e’ cosi’ coerente che a Napoli ci si stanno spaccando la testa da decenni – di nuovo, la dice lunga sul punto della frustrazione.

          Sia come tradizione attestata che come “corriamo ai ripari” costante, sento da anni ripetere da parte di molti napoletani “delusi” proposte di “ritorno all’illuminismo” che convivono spesso proprio con il decrescenzismo. Spesso da parte di quegli intellettuali dei quartieri bene e semi-bene, che altrettanto spesso invece partono con il solito wagnerismo e parlano tranquillamente di buttare napalm sulla citta’, per farla finita una buona volta (benvenuti al nord…).

          Magari subito prima o subito dopo una puntata Di “Un Posto al Sole”.

          Invero, proposte convinte e serie di ritornare all’epoca dei lumi (oltretutto sentita come parte del corredo genetico locale) ci sono state, e sono state molte soprattutto la II guerra mondiale – con effetti a mio parere perturbanti.

          Per sintetizzare, a parte La Capria, mi ricordo dell’ultima pagina di “Sud e Magia” di Ernesto de Martino (1959!) che, dopo aver presentato un elenco\analisi ormai da accademia (e fra le righe affascinata) dei riti e dell’antropologia del paganesimo e cattolicesimo “anarchico” meridionale, chiude di colpo con:

          [dopo una citazione della scena omerica del lutto di Achille dinnanzi al cadavere di Patroclo]
          “Anche per le genti meridionali si tratta di abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia, e di dischiudersi a un destino eroico piu’ alto e moderno di quello che pur fu loro nel passato: un destino che non sia una fantastica citta’ del sole da fondare tra le montagne di Calabria, ma una civile citta’ terrena unicamente affidata all’ethos dell’opera umana, e cospirante con le altre citta’ terrene di cui e’ disseminata questa vecchia Europa e il mondo intero che dell’Europa e’ figlio. Nella misura in cui questo avverra’ sara’ ricacciato nei suoi confini il regno delle tenebre e delle ombre – la corrente Oceano dell’episodio omerico, – e impallidira’ anche il fittizio lume della magia, col quale uomini incerti in una societa’ insicura surrogano, per ragioni pratiche di esistenza, l’autentica luce della ragione.”

          Immagino che molti, in tempi neo-spengleriani come questi, si sentano di mettere subito mano alla pistola, ma e’ per me incredibile come questo linguaggio extra-procedurale dopo un libro cosi’ rigoroso (linguaggio gia’ assolutamente “altro” per la fine dei ’50 e certamente imparentato fondativamente alla filosofia borghese dell’700 e quella positivista generica dell’800 piu’ che a Marx, per toglierci subito di torno il riferimento all’adesione di De Martino al PCI) sia ancora rinvenibile nella “ricetta” della soluzione al problema del napoletano, come se per Napoli si dovesse sempre ritornare parlare radicalmente di una falla primigenia, ignara degli sviluppi degli ultimi 150 anni.

          Un’altra soluzione invece, come sopra, e’ sposare l’hic et nunc in maniera gioiosa e rassegnata (il passaggio dal primo al secondo aggettivo potrebbe descrivere l’evoluzione della relazione di Anna Maria Ortese con la citta’, che oltretutto scrive molto della relazione fra Germania e Napoli borbonica).

          Per quanto mi riguarda, la “soluzione” (se vi dovra’ essere, a questo punto) sara’ la solita: gentrificazione e progressiva ristrutturazione dell’uso urbano.

          Pochi anni di AirBnB aggressivo nei quartieri spagnoli hanno gia’ fatto piu’ del primo Bassolino e tutte le politiche anti-degrado negli ultimi 30.
          Il centro della citta’, nel frattempo, sta cominciando ad assumere il volto di quello di una qualsiasi citta’ globale massacrata dai city breaker.

          Per quanto ci vorra’ verosimilmente piu’ tempo che altrove (vedi ormai la situazione farsesca di Venezia), credo\temo che la soluzione sia il bulldozer che gia’ conosciamo e che tagliera’ il nodo gordiano della napoletanita’\napoletaneria (a proposito di classici 🙂 )

        • Peucezio scrive:

          Antonello,
          interessante.

          ““Anche per le genti meridionali […]”.

          Non ricordavo questo passo di De Martino, ma fa specie pensare come un discorso possa invecchiare di ere geologiche in pochi decenni: oggi sembra venire veramente da un altro mondo, molto più di passi molto più vecchi, chessò, di autori greci o latini.

          “Pochi anni di AirBnB aggressivo nei quartieri spagnoli hanno gia’ fatto piu’ del primo Bassolino e tutte le politiche anti-degrado negli ultimi 30.
          Il centro della citta’, nel frattempo, sta cominciando ad assumere il volto di quello di una qualsiasi citta’ globale massacrata dai city breaker.”

          Che tristezza. Un po’ l’ho notato in effetti.
          Anche se ho visto che appena ti sposti dalle parti più centrali e meno turistiche dei decumani, c’è ancora un forte ambiente popolare.
          Una cosa che mi ha colpito (negativamente) è la pervasività delle scritte sui muri (i cosiddetti “graffiti”, come è di moda chiamarli oggi), che non ricordavo in questa misura.

        • Peucezio scrive:

          Ma tu sei di Napoli?

      • Peucezio scrive:

        Mi ricordo una volta uno scambio di battute, a Madrid, con un’amica italo-spagnola (ma cresciuta in Spagna, che parlava italiano con l’accento spagnolo).
        Io, ovviamente un po’ semplificando, e non senza una sfumatura d’ironia, identificai la Spagna con il chorizo, un insaccato locale un po’ piccante, molto grasso e pesante, che loro amano molto, ma un po’ grossolano e sgradevole per gli standard non spangoli (che potrebbe fare da simbolo di quel paese meglio dei tori e del flamenco).
        Lei trovò piuttosto impropria la mia identificazione (e d’accordo: era un discorso volutamente grossolano) e disse che la Spagna era molte altre cose molto più rappresentative.
        Ma rimase sul generico.
        Ne avrei sentita voltenieri una.
        Che non può essere una cosa che si trova in tutto il resto del mondo.

        Altrimenti si fa come quel tizio che diceva: “Eh, voi non lo sapete, ma a Bari la mattina gli uomini vanno al bar a bere il caffè e, dando un’occhiata al quotidiani sportivo, fanno commenti sul calcio col barista e gli altri avventori”: non c’era esattamente questo racconto, ma era tutto su questo tono e il bello è che il tizio (uno scrittore locale) riteneva queste cose, che avvengono ovunque, la quintessenza della baresità più peculiare, tanto che ha scritto un libro intitolandolo “Bari segreta”; un mio zio ironizzava dicendo che doveva chiamarla Bari-Palese, e aggiungeva “e Bari-Santo Spirito”, facendo riferimento alle due frazioni costiere occidentali della città (la prima è quella dell’aeroporto).

  11. Moi scrive:

    Un’ altra provocazione di Blondet diceva che i “Sixties” in USA (che agiscono ancor oggi incessantemente facendo diventare leggi dello Stato le teorie più “weird” di allora … sul “gender” in primis !) volevano trasformare il Bianco Borghese nel Negro (un termine ivi un po’ usato a spregio, in effetti …) SottoProletario … sempre per il Controllo Sociale, sempre alludendo che da qualche parte lo vorrebbe (!) il Talmud !

    • Moi scrive:

      Ovviamente in termini culturali, mediante egemonia culturale nei campus e cinema/musica/tv/droghe/videogiochi ecc … per indottrinare i giovani senza che se ne accorgano, perché le élites avevano capito che la scuola era un’ istituzione oramai (cioè, già nei 1960’s) imprescindibile dall’ idea di vecchiume reazionario e ove è impossibile rendere interessante ai giovani alcunché.

      • Moi scrive:

        Perché oramai voglio dar per oltremodo evidente (ma lo metto ugualmente se gente nuova ci sta leggendo) che in USA puoi mettere in discussione tutto e il contrario di tutto (who else but Liberal Scum 😉 ?) MA quando si arriva al Sistema Economico:

        cinni/e/* tutti/e/*;) in riga … che adesso la ricreazione è finita !

  12. Moi scrive:

    Che Napoli fosse un Teatro a Cielo Aperto e _ come si dice orrendamente ora “in funzione sette-barra(o addirittura “slèssh”)-sette-e-acca-ventiquattro” lo diceva anche Eduardo De Filippo … ma, come già avete detto, ai suoi tempi lo era senz’altro di più con meno”cupore protestantoide” interiorizzato.

  13. Moi scrive:

    Nuie simm d’o Sud

    cantata da Pietra Montecorvino, pseudonimo di Barbara D’Alessandro

    https://www.youtube.com/watch?v=h0APEK2PwjI

    L’opera più “De Crescenziana” 😉 di Renzo Arbore … NON di un Leghista 😉 !

  14. Moi scrive:

    @Antonello

    ———-

    Giusta la tua osservazione di “Fusione Liceo Classico – TV Commerciale” per la Classe Dirigente e Culturale (ma oggi la prole della stessa, si è visto alle Leopolde, chiama “Cultura” l’ AngloSupercazzola 🙂 Aziendalese o da Gender / Social Studies …) !

    In effetti, il Nostro (o il Vostro ?! 😉 ) ha usato spesso “per farsi capire meglio” certi espedienti narrativi: tipo accostare le trame intricate dei Miti a quelle delle Serie TV Americane del momento (tipo chiedersi, sornionamente, se fosse più astuta la Dea [!] Athena o la Diva [!] Pamela di Dallas … e poi “vai con l’etimo” !) del Momento; e altri innumerevoli del tipo Aristotele Maturo Maestro & Alessandro Magno Giovine Allievo che deludentemente NON ci sono particolari aneddoti circa l’ incontro tra “Due VIP dell’ Antichità” [sic !] di tal calibro !

  15. PinoMamet scrive:

    Comunque sarebbe un tema interessante capire come funziona la ricostruzione del non-detto.
    Una cosa che mi succede a volte su questo blog è che scrivo degli interventi sinteticamente, per mancanza di tempo di solito, e l’interlocutore mi “riempie” gli spazi vuoti con una serie di deduzioni che non c’entrano niente e di solito sono anzi lontanissime dal mio pensiero.
    Può essere che sia io ad esprimermi male, ma- oso dire- c’è anche il fatto che tendiamo a proiettare tutta una serie di nostri preconcetti sul nostro interlocutore, e ad attribuirglieli di base.

    Quindi se – continuo con l’esempio di Napoli- un napoletano mi dice “oggi a Napoli c’è una splendida giornata”, potrei pensare “ahh allora vuoi dire che al Nord fa sempre freddo?” mentre probabilmente voleva semplicemente dire: oggi a Napoli c’è una splendida giornata.

    (Caveat: per favore non ricominciamo a parlare di clima nelle regioni italiane…)

    Credo sia più o meno la stessa cosa con gli antichi ateniesi di De Crescenzo… o di Wilamowitz.

    Cioé, De Crescenzo legge un dialogo platonico in cui Socrate conversa amabilmente con qualcuno, e utilizzando il metodo della maieutica lo porta a compiere una serie di deduzioni razionali;
    e ne ricava che gli ateniesi erano tutti come Socrate, o all’incirca, e che il comportamento di Socrate, di più, il suo carattere e le sue abitudini, fossero quelle della borghesia napoletana del Novecento, perchè la borghesia napoletana del Novecento ama conversare amabilmente (semplifico), fare sfoggio di cultura e impara il greco antico a scuola, e poi Napoli è stata fondata dai Greci tanti secoli fa.
    Perciò gli antichi ateniesi dovevano essere anche rilassati, un po’ pigri, amanti delle chiacchiere fini a se stesse, un po’ disordinati, ecc.

    Wilamowitz (ma tutta la sua epoca) legge lo stesso passo, e ne ricava che i Greci antichi fossero come i tedeschi colti del suo tempo, perché i tedeschi colti del suo tempo sono persone razionali, che amano le deduzioni razionali, l’arte e la bellezza, inoltre studiano il greco antico a scuola e poi “tutti sanno” che i Greci erano un popolo indoeuropeo, anzi, indogermanico come si diceva allora in Germania, e quindi strettamente imparentato con i tedeschi, anzi, con i prussiani.
    Perciò amavano l’ordine, detestavano la superstizione, non potevano avere avuto influenze da altri popoli meno “germanici” come gli Egizi e i Babilonesi, e così via.

    Ma nel passo di Platone non c’è nulla di tutto questo!
    C’è solo Socrate, che è un ateniese e anche piuttosto particolare, rivisitato dal particolare pensiero e ricordo di un suo seguace, che dice delle cose (o Platone gliele fa dire) in risposta a un altro personaggio.
    Punto!
    Il resto è spazio bianco, che potrebbe essere riempito- in piccola parte- dall’epigrafia, dall’archeologia, dall’antropologia comparata, ma perlopiù è destinato a rimanere bianco, vuoto.

    • Peucezio scrive:

      Vabbè, potrei dirti che i tedeschi e i napoletani sono eredi per vie diverse della grecità, infatti vanno d’accordo (Napoli è stata la fucina dell’idealismo italiano, cioè della ricezione nostrana dell’hegelismo; mi pare fosse Gadamer, ma potrei sbagliarmi, che amava moltissimo Napoli e ci si sentiva a casa; qualche volta ti parlerò di un vecchio magistrato napoletano latinista-grecista-sancritista-germanista-slavista e quant’altro che frequentavo a suo tempo – poi è mancato purtroppo – che amava molto i tedeschi e diceva che io e lui eravamo greci ed estendeva tale attribuzione anche allo zio Adolfo, ma vabbè: amava anche un po’ la provocazione, ma questa cosa della grecità e dell’affinità con la cultura e la filologia tedesca si capiva che le sentiva profondamente, le considerava una condizione esistenziale, che in effetti incarnava, perché aveva un suo equilibrio invidiabile, a tratti persino un po’ cinico – considerava la sfera pubblica e la cultura le uniche cose rilevanti e non dava nessun peso alla famiglia, tanto che moglie e figli lo detestavano, giustamente, dal loro punto di vista; vi risparmio la ricca aneddotica legata a questo suo atteggiamento, che però era sostanziale, al di là di certe pose. Ecco, lì sento la mia distanza di mediterraneo pre-(o post-)indoeuropeo familista e col culto della madre e dell’intimità del focolare, ecc., non a caso lui era un anticristiano radicale).

      Ma, al di là di questo, un’altra cosa che ho percepito avendo a che fare con degli stranieri (ma non posso dirlo per i russi, che comunque sono eredi di Bisanzio) è che l’abitudine di noi italiani di parlare spesso e a lungo di cose lontane da qualsiasi valore pratico, per il puro gusto di disquisire (e si nota in tutti i ceti, non solo in quelli istruiti) non è una cosa scontata nel mondo.
      E nel sud la noto molto più che a Milano (non parlo del resto del nord, perché non lo conosco abbastanza): a Milano, soprattutto in certi contesti, è molto comune un tipo di poche parole, con scarse abilità comunicative in generale, non solo sul piano del confronto astratto, ma anche della gestione di rapporti importanti nel lavoro o nella vita sociale, a volte in persone che per lavoro hanno a che fare continuamente col pubblico (ho assistito a scene che in una città del centro-sud sarebbero impensabili, gaffe che denotano un modo maldestro e inopportuno di rivolgersi al prossimo, degno di un bambino di otto anni, con le conseguenze pratiche che ciò comporta, tipo il cliente che va via offeso per una mera incomprensione comunicativa).

      • Z. scrive:

        Giuridicamente sono i greci ad essere eredi dei tedeschi.

        Ma Graecia capta eccetera, e così la dottrina tedesca abbonda di giuristi greci 🙂

      • PinoMamet scrive:

        “Vabbè, potrei dirti che i tedeschi e i napoletani sono eredi per vie diverse della grecità”

        tutta l’Europa è erede per vie diverse della grecità 😉

        ma soprattutto: a me va benissimo la tua teoria, basta che ne convinci De Crescenzo e stiamo a posto 😉

  16. Moi scrive:

    “Ultima Speranza della Razza Umana” mi sa che Luciano De Crescenzo l’ ha copiato da qualche Sigla Italiana di Robottone Giappo … ovviamente senza dirlo. 😉

    https://www.youtube.com/watch?v=XzaxMXvC_Ks

    https://www.youtube.com/watch?v=EiSc4Wobqg4

  17. MOI scrive:

    @ PEUCEZIO

    Anche “Il Gigante Solitario” [cit.] Gian Battista Vico è considerato PreCursore Partenopeo dello Storicismo Tedesco (che arriverà almeno fino a Karl Marx) MA … se non era Elitarismo Culturale quello ! 😉

  18. mirkhond scrive:

    “Secondo me è stato il romanticismo a far entrare in voga queste cose. Anche se non credo che almeno dall’età umanistica ne fossero del tutto digiuni (ma bisognerebbe aprrofondire).”

    Effettivamente, con l’umanesimo e il rinascimento, vengono riscoperti dalle elites intellettuali d’Italia, anche le varie denominazioni delle popolazioni preromane e delle regiones augustee.
    Vediamo già nel XVII secolo, nello Stato Pontificio, la ripresa del nome Umbria al posto di Ducato di Spoleto.
    Però è nell’800, con l’unità d’Italia che questi nomi antichi vengono riutilizzati, per esempio proprio la Campania, i cui confini però sono più ampi della Campania pre e romana (che comprendeva più o meno le attuali province di Napoli, Caserta e le parti del territorio tra il Garigliano e Sora, poi trasferite al Lazio da Mussolini nel 1927).
    La Campania istituita nel 1860-1861, invece comprende i territori dell’Irpinia e della provincia di Salerno, chiamate rispettivamente Principato Ultra e Principato Citra (termine che indicava gli antichi principati longobardi di Benevento e di Salerno) che mai furono Campania (la parte interna e meridionale del Salernitano in epoca pre e romana erano parti della Lucania).
    Lo stesso nome Lazio, viene ripreso nel 1870, dopo la presa dello Stato Pontificio, mentre prima le aree del Lazio moderno erano chiamate Patrimonio (Viterbo), Campagna (Frosinone e la Ciociaria) e Marittima (il litorale tra Ostia e Terracina, oggi parte della provincia di Latina).
    Il nome Emilia fu riscoperto nel 1860, per ricreare la regione augustea con questo nome, unificando i ducati lombardi di Parma e Modena, con la Romagna ex papalina (
    Reggio Emilia si chiamava Reggio di Lombardia).
    In epoca fascista la Basilicata fu rinominata Lucania dal 1932 al 1948, nonostante comprendesse anche Matera, che fu città pugliese fino al 1663.
    E così per diversi comuni che si videro attribuire nomi nuovi o delle antiche denominazioni romane, ad esempio Traetto ridivenne Minturno nel 1879, ma già in epoca borbonica Casalnuovo si era vista rinominare Manduria nel 1789, nome della città messapica.
    Idem in Calabria con Monteleone di Calabria, rinominato Vibo Valentia nel 1927, o Castelvetere rinominato Caulonia nel 1863, ma già Castelmonardo distrutta dal terremoto del 1783, venne ricostruita col nome di Filadelfia, per la forte influenza illuministica che allora regnava alla corte borbonica.
    In Sicilia Terranova, fu rinominata Gela nel 1927, Castrogiovanni Enna, sempre nel 1927, e Girgenti con un nuovo nome, Agrigento, ricalcato sulla greca Akragas.

  19. Moi scrive:

    Scusa Pino, ma …visto che ti piace tanto decostruire il sentire identitario altrui … tu personalmente che pensi di aver a che fare direttamente con un certo 😉 Quasi Centenario (almeno un quartino 🙂 “Ghibbor” ?!) iper-atletico che, migliaia d’anni fa e a migliaia di kilometri da Fidenza, restò azzoppato dopo aver lottato contro un “El” / “Malach” mentre l’ El Yahweh arbitrava il match ?

    😉 🙂

  20. Moi scrive:

    Io mi considero “Sradicato Consapevole” … ove l’ aggettivo è l’unica identità “forte”, se così si può dire.

  21. mirkhond scrive:

    “Infatti, il passato è un ente immaginario”

    Quindi studiamo solo un immaginario?

  22. Peucezio scrive:

    Pino,
    rispondo qui per praticità:

    “In genere a me succede così: da fuori incontri dieci persone che rispecchiano lo stereotipo, poi quando li conosci meglio, ci vivi per un po’ o li frequenti, ne incontri mille che non lo rispecchiano affatto.
    Perché sia così non saprei, ma la mia esperienza è questa.”

    Secondo me rischiamo di confondere due piani.
    Un gruppo non è la somma dei suoi membri, è proprio un’altra cosa.
    Io quando sono a Bari mi accorgo nettamente di essere in un contesto diverso che quando sono a Milano. Perché cambia il modo di comunicare, le abitudini, i modelli (ovviamente fino a un certo punto; decenni fa lo stacco era senz’altro più netto).
    Però poi a Bari come a Milano c’è una distribuzione di tipi umani più o meno simile (dall’arrogante al timido all’onesto al figlio di buona donna ecc.).

    Ciò non toglie che ci siano individui che incarnano piuttosto bene un tipo locale e ce li ho ben presenti.
    Io mi sono meravigliato moltissimo quando ho comincato a frequentare il paese di mia nonna e ho scoperto caratteristiche, nel bene e nel male, che non solo trovavo in lei, ma trovo persino in me (mia nonna è andata via da là negli anni ’20, ancora adolescente, io sono nato mezzo secolo dopo): sarà genetica, trasmissione culturale (con mia nonna ci sono cresciuto)…
    E non parlo di fatti comunicativi, espressivi, esteriori, ma di tratti radicati del carattere (certe forme di pignoleria, di spirito sistematico); non ho preso da lì l’atteggiamento un po’ diffidente e il pessimismo di fondo, che però lì si trovano presso moltissimi individui (non tutti naturalmente).

  23. Peucezio scrive:

    Pino,
    sarei curioso di capire una cosa, senza nessuno spirito polemico, per sincera curiosità.
    Che cosa ci trovi nel presente?
    Non nel presente nel senso in cui intendevi tu, quello in cui viviamo sempre, ma in ciò che si fa nel presente, in ciò che viene creato, inventato, reaizzato nel presente, dall’architettura al cibo alla cinematografia (almeno in Italia; altrove io per primo riconosco che si fanno ancora cose valide) al tipo di umanità che il presente sviluppa, al sistema scolastico (visto che ci lavori, ma lo direi anche a un altro) e al tipo di preparazione che produce, ecc. ecc.

    (Intendiamoci, io saprei rispondere: non è che butto via tutto, anche se le uniche cose decenti che si fanno mi sembra si facciano all’estero, non solo per il cinema).

    • PinoMamet scrive:

      Lo so che è un po’ contrario al tuo modo di esporre le cose, di esprimerti, di analizzare le questioni;
      però ecco, non esiste solo Atene, esiste anche la Laconia, e non esitono solo i sillogismi, ma anche gli indovinelli zen 😉

      in breve quindi (poi quando avrò più tempo posso anche dilungarmi… ma certe cose diluendole si perdono) alla tua domanda “cosa ci trovi nel presente” penso che si possa dare solo una risposta:

      non è che ci trovo io, mi trova lui 😉

      • Francesco scrive:

        vabbè, da cristiano fanatico e bigotto, oso dire che se Dio ci ha messo in un certo tempo e luogo, alla fine lo ha fatto per noi e non contro di noi.

        fosse solo per darci la missione di resistere allo spirito del tempo e di essere di esempio per altri

        ciao!

      • Peucezio scrive:

        Per carità, va benissimo una risposta così, è che non so quanto sia pertinente in questo caso.
        Mi spiego: se il punto non è “cosa ne pensi dell’epoca in cui vivi”, ma “partendo dal fatto che vivi in quest’epoca e sei circondato da cose (e in parte persone) risalenti a tante epoche diverse, cosa preferisci e perché”, allora tutto ti è un po’ toccato, anche il fatto di vivere in un paese dove il passato è pervasivo e te lo trovi a ogni passo che compi.

        • PinoMamet scrive:

          Mmm

          mi era sembrato che tu dessi per scontato che io ami particolarmente l’epoca attuale
          (che non è “il presente”, comunque, come fai notare anche tu).

          A me non è che l’epoca attuale piaccia particolarmente. Cioè, non ci ho mai pensato seriamente.

          Un po’ ho sempre pensato che chi sogna di vivere in epoche passate goda di un’invidiabile salute, e sospetto che non abbia mai avuto bisogno del dentista.

          Un po’, in effetti, non esiste un’epoca passata (per quello che ne possiamo sapere) interamente di mio gusto.

          Non baratterei l’anestesia e l’uguaglianza di fronte alla legge con il fatto di avere dei bravi (o mediocri) vedutisti al posto di un imitatore di Jackson Pollock, ecco.

          Infine, se proprio devo mettermici a pensare, anche se lo trovo un po’ ozioso (e questa credo sia la risposta che cercavi):

          a me Jackson Pollock piace. Mi piace che la pittura, la musica, la letteratura, l’architettura, siano andate avanti, non siano rimaste stagnanti, ferme, a costo di decostruire e se necessario di imbrattare. Posso anche disprezzare gli attuali manierismi artistici finto-maledettistici, o peggio, finto-pierinolapestisti di cui parla il post;
          però trovo che tutto sommato esprimano me, il mio tempo, il mio modo di vedere le cose, più dell’imitazione del passato.

          Dai, faccio un esempio scemo (ma neanche tanto per chi è addentro la questione, anche- uso un parolone- antropologicamente):
          amo moltissimo il kung fu tradizionale, che studiai da ragazzo, con le sue forme e la sua grammatica, la sua struttura classica…. però mi piace il jet-kune-do di Bruce Lee 😀
          che è: razionale, moderno, essenziale, improvvisato… jazz!

          • Peucezio scrive:

            Ora mi è più chiaro.

            Per reciprocità, ti dico:
            della contemporaneità salvo molte cose almeno rispetto agli anni ’70-’80: tutti sono più gentili, commessi, impiegati pubblici e altra gente che s’interfaccia con l’utente non ti trattano più a pesci in faccia come se fossi l’ultima delle merde e contemporaneamente un gran rompicoglioni, la medicina si è umanizzata (cosa che negli anni ’70 NON era: il paziente era una sorta di datore di lavoro del medico, quindi un padrone, un borghese, un nemico, un criminale, per cui veniva trattato come tale), inoltre la generazione dei giovani attuali, diciamo dai 20 ai 30 anni è più fine, meno aggressiva, forse un po’ timida, ma, insomma, molto più civile della mia generazione e di quelle di poco precedenti (io e la maggior parte delle persone che conosco non fanno testo, ma i miei coetanei, quando ero ragazzo, erano delle specie di trogloditi e ancora oggi quelli di ceto basse di quella generazione sono una specie di subumanità, almeno a Milano).

            Se alla fine dovessi fare una sintesi di ciò che trovo molto repulsivo della contemporaneità, anche rispetto a quegli anni, che pure erano per molti versi peggiori (ma a maggior ragione rispetto a prima ancora) è che oggi tutto manca di caratterizzazione: sembra tutto finto, di plastica.

            • Z. scrive:

              Sai che sono abbastanza d’accordo, nel complesso?

              Cioè, l’idea che i medici fossero più odiosi non perché boriosi e arroganti ma perché tutti bolscevichi gulaghisti mi sembra piuttosto bizzarra…

              Ma la fotografia complessiva è condivisibile.

              Z.

              PS: che poi, la differenza che mi colpisce di più, rispetto a trenta-quarant’anni fa, sai qual è? che allora si fumava ovunque. Dappertutto. Anche nelle sale d’aspetto dei medici, forse persino dei pediatri. Oggi coi divieti mi sembra si esageri dal verso opposto, a volte, ma tra le due…

              • Peucezio scrive:

                Z.,
                “Cioè, l’idea che i medici fossero più odiosi non perché boriosi e arroganti ma perché tutti bolscevichi gulaghisti mi sembra piuttosto bizzarra…”

                Ammetto che era un po’ immaginifica, ma secondo me un po’ di questo sentimento c’era anche.

                Sul fumo: beh, ti dirò, non amo le fisime igieniste contemporanee, ma credo che il fumo, più lo si vieta e meglio sia in ogni caso.
                Le cose assurde (e fatte credo in cattiva fede) sono i divieti per la sigaretta elettronica, che non fa nessun danno né al suo utilizzatore, né tantomeno agli altri.

            • PinoMamet scrive:

              ” tutti sono più gentili, commessi, impiegati pubblici e altra gente che s’interfaccia con l’utente non ti trattano più a pesci in faccia come se fossi l’ultima delle merde e contemporaneamente un gran rompicoglioni [… ], inoltre la generazione dei giovani attuali, diciamo dai 20 ai 30 anni è più fine, meno aggressiva, forse un po’ timida…”

              Visto che noto le stesse cose anch’io, trovo che sia lecito chiedersi:

              non è che forse siamo cresciuti noi ? 😉

              PS
              Naturalmente credo che ci sia anche del vero in quanto dici.

          • PinoMamet scrive:

            Pensa che io dei medici di quegli anni ho sempre pensato il contrario, cioè che trattassero tutti male per disprezzo di classe, cioè dando per scontato che il paziente, non essendo medico, fosse un poveraccio è un deficiente.

            Forse i medici trattavano semplicemente tutti male 😀

            Comunque le figlie di medici, tipicamente mantovane e classiste, erano un must della Facoltà di Lettere del mio non-capoluogo.
            Mi sono sempre chiesto perché
            (forse le figlie di avvocati provavano comunque Giurisprudenza?)

            • Peucezio scrive:

              Pino,
              sui medici penso tu abbia ragione.
              Però le infermiere? A volte erano peggio dei medici.
              Io ricordo che a quell’epoca gli statali erano tutti odiosi per regola, dalle maestre d’asilo in su (o in giù).

  24. Peucezio scrive:

    Che poi in fondo a me della dimensione temporale non è che importi granché, non ho un fortissimo senso della temporalità.
    A me interessa la dimensione spaziale, cioè i popoli.
    L’unico motivo per cui risulto un passatista è legato al fatto che oggi i popoli perdono (o, meglio, annacquano molto) la loro caratterizzazione.
    Se fossimo in un’epoca in cui col passare del tempo i popoli si dinstinguessero di più, sarei per il progresso.

    • PinoMamet scrive:

      Mmm
      Mi sembra improbabile

      • Peucezio scrive:

        Eppure quando mi è sembrato che si stesse andando in quella direzione, mi sono trovato ad essere un entusiasta del tempo presente e un fiducioso caldeggiatore del medioevo prossimo venturo.

        • PinoMamet scrive:

          Due domande:

          -quando è successo questo?

          e

          -quali caratteristiche avrebbe questo medioevo?

          • Peucezio scrive:

            – Nei primi anni Novanta.

            – La disgregazione, cioè la disarticolazione delle strutture della modernità.

            A posteriori può sembrare ingenuo, ma era crollato il muro, in Italia era crollata la Prima Repubblica e quindi alcuni sintomi c’erano. Solo che quella che poteva sembrare una bomba si è rivelata un petardo.

          • PinoMamet scrive:

            Ehm, tradotto in italiano, cosa vuol dire la disarticolazione della modernità, concretamente? 😉

            • Peucezio scrive:

              Stato molto più debole, che non riesce a controllare un cavolo, economia sempre più frazionata (meno multinazionali e tante piccole aziende famigliari nel Veneto…), una sorta di tribalizzazione della società insomma.
              Ripeto, suona ingenuo, a posteriori.

            • PinoMamet scrive:

              Mah, detto così no nriesco a vederci né un lato positivo né uno negativo.
              Dipende da chi prende il posto dello Stato e come.

              Io, come penso saprai e forse sanno tutti qua dentro, odio il Medioevo 😀 in ogni caso.

              • Peucezio scrive:

                Infatti a me sarebbe piaciuto, a te probabilmente no. 🙂

                L’attrazione è verso tutto ciò che viene dal basso, che è magmatico.
                Adesso ho anche istanze d’ordine, allora molto meno.

  25. Moi scrive:

    Una goccia (ma l’ Oceano, non è forse fatto di gocce ? [cit.]) d’acqua a sostegno di Peucezio :

    come cazzo han fatto , a Napoli, a passare da “Gennà” a “Genny” (!?) per “Gennaro” ?!
    … No, sul serio !

    … E il celebre Capofossatifoseria NON è un caso isolato !

    • Peucezio scrive:

      Anglicismo idiota.
      Ne ho sentite tante. Come Benedetto > Benny, Giuseppina > Giusi (questo è molto diffuso un po’ in tutta Italia)…

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