Tra le cose importanti della mia vita, c’è il fatto di essere vissuto per alcuni anni in estrema povertà, in un quartiere storico e povero di una città siciliana.
Là dove i rapporti umani sono tutti, crescono esseri umani straordinari.
Questa esperienza che mi ha dato, per forza, qualcosa come uno sguardo antropologico, che mi porto dietro da allora.
L’antropologo è un osservatore, che sa perfettamente che non potrà immergersi spontaneamente in ciò che osserva.
Però almeno ha appreso a tacere e ascoltare, e a non giudicare.
Tutto ciò mi ritorna in mente ascoltando questa strina, cantata da Massimo Ferrante.
La strina sarebbe un canto natalizio, ma che può spaziare su una gran varietà di temi.
Lu nume m’hanno misu de judeo
picchì rispiettu ‘un puortu a nissunu,
mancu ara carni e a’ ru sangu meu.
Nimici tiegnu assai ppè ‘ssu paise,
amici nun ne ciercu e nun ne vuogliu
e chini tocca a mmia ci fa le spise.
Ca sugnu sempri all’erta ppe cantari,
ogni parola è cchiù i ‘na curtellata
ca nu spreggiu a sangu sa lassari.
Ca io a ‘na sula cosa trovu spiziu:
c’ha di vinì ‘nu forti terremotu
opuramenti ‘u jiornu du jiudiziu.
Di povari nun tiegnu compassioni,
d’i ricchi ni scippera li custuni
e ccu li santi ‘un tiegnu divozioni.
Nimicu di guvierni viecchi e nuovi,
su statu sbirru di la pulizia
e duve tu m’attacchi ‘un mi ce truovi.
Vulera vida i prieviti vrusciari
dintra li vampi di lu paradisu
e ppe’ lu pentimentu jiastimari.
Vulera vidi ‘i jiudici ‘ngalera,
‘i tribunali diventà cantina
e ‘i corici vinnuti ‘nta la fera.
Vulera c’ammutassiru i putienti
e ‘a strata annittassiru ccu ‘a lingua
davanti u’ cchiù strazzuni di pizzienti.
Il nome mi hanno dato di giudeo
perché rispetto non porto a nessuno,
nemmeno alla carne e al sangue mio.
Ho molti nemici in questo paese,
amici non ne cerco e non ne voglio
e chi mi tocca ne fa le spese.
Sono sempre all’erta per cantare,
ogni parola è più di una coltellata
che uno sfregio a sangue sa lasciare.
Io ad una sola cosa trovo sfizio:
che deve venire un forte terremoto
oppure il giorno del giudizio.
Dei poveri non ho compassione,
ai ricchi strapperei le costole,
e per i santi non ho devozione.
Nemico dei governi vecchi e nuovi,
sono stato sbirro della polizia
e dove tu mi leghi non mi trovi.
Vorrei vedere i preti bruciare
nelle fiamme del paradiso
e per il pentimento bestemmiare.
Vorrei vedere i giudici in galera,
i tribunali diventare cantina
e i codici venduti nelle fiere.
Vorrei che ammutolissero i potenti
e la strada pulissero con la lingua
davanti il più straccione dei pezzenti.
P.S. Non so bene come stia la faccenda dei diritti in questi casi… credo che sia un bene che il mondo conosca Massimo Ferrante, che non gode certamente di circuiti preferenziali. E mi auguro che qualcuno acquisti i suoi nuovi CD. Comunque, se ci fossero problemi, tolgo il brano.
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Un quartiere storico e povero di quale città?
Ca io a ‘na sula cosa trovu spiziu:
c’ha di vinì ‘nu forti terremotu
opuramenti ‘u jiornu du jiudiziu.
“Mala nova! Avia a veniri un tirrimotu cu li occhi ev’avi a ‘mmazzari a vui birbanti e a tutta Missina!”
Attribuita alla madre di un imputato, tribunale di Messina, 27 dicembre 1908.
Dài va’ là … che di Prof. Roberto De Mattei uno solo basta e avanza !
Ebbi ad imbattermi in uno scritto del signor De Mattei mentre cercavo di documentarmi sulla Turchia contemporanea.
Lo lessi per intero faticando molto per rimanere serio: la recensione è in link
http://www.iononstoconoriana.com/libri/38-libri/349-roberto-de-mattei-la-turchia-in-europa-beneficio-o-catastrofe.html
Bellissima.
Nimici tiegnu assai ppè ‘ssu paise,
amici nun ne ciercu e nun ne vuogliu
e chini tocca a mmia ci fa le spise.
Questa vorrei farla mia…
Splendida; e trovo che descriva una delle anime popolari italiane (la mia, sinceramente) molto meglio di tante altre cose retoriche.
Bello!
Forse non ci rendiamo conto di quale “Genocidio Culturale” rappresenti la distruzione [in parte minimamente recuperata con spirito ecologista, tipo come per il Condor Californiano ;-)] degli “Zanni” …
Una rara “adunata” di Zanni:
http://www.youtube.com/watch?v=7imDEaAyA80
Ma chi sono?
Non sei mai stato a Modena per il Carnevale a sentire lo “Sproloquio” di Sandrone-Pulonia-Sgurghìghel ?!
Da me queste cose sono in effetti estinte;
pochi tentativi di rivitalizzare la tradizione delle “maschere locali” si sono risolte in poco e niente, perché ormai tutta la faccenda “dialettale” ha assunto una coloritura borghese che ne ha smorzato o dirottato la carica eversiva.
Invece questa carica la si trovava intatta in certi “matti” (o, per dirla in modo molto brutto, “disadattati”… disaddattati a cosa?? molto meglio matti) che erano piuttosto frequenti nei paesi.
Ancora quando ero studente ce n’erano almeno una decina solo nella cittadina dove stavo, ognuno con la sua personalità e la sua “stranezza”, in realtà tutt’altro che disadattati e integratissimi, a modo loro, nella vita di tutti.
Bhe, queste sono le parti di Tommasini (uno di quelli che ha “slegato i matti”, non solo da noi ma anche ad esempio in Grecia) e gli effetti della Basaglia devono essersi fatti sentire, visto che in zona c’era un proverbiale (per noi) manicomio.
ciao!
Ca io ‘na sula cosa trovo spiziu:
c’ha di vini ‘nu forti terremotu
opuramenti ‘u jiornu du jiudiziu.
…anche lui aspetta le profezie Maya 2012???
ciao,ciao
Il nome mi hanno dato di *** giudeo ***
perché rispetto non porto a nessuno,
nemmeno alla carne e al sangue mio.
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Qualcuno me lo spiega ‘sto “giudeo” ?
… E’ anche questo “AntiSionismo” ?!
Potremmo chiamarlo antisemitismo popolare. Diciamo che nei secoli gli ebreo non devono aver fatto molto per rendersi simpatici ai contadini e al mondo rurale (ma probabilmente anche urbano) italiano.
Dalle mie parti, di uno che ha un aspetto inquietante, sgradevole, che suscita paura, si dice che sembra “nu ggedè”.
“gli ebreo”… lapsus freudiano (tanto per cambiare, non poteva non essere uno di loro il geniale dottore viennese)… si vede che inconsapevolmente li considero emanazioni di un unico individuo, tentacoli che rispondono a un’unica testa.
E questo dimostra che gli ebrei non li conosci proprio…
un’unica testa… ma quando mai!!
Per quanto riguarda l’antisemitismo popolare, mi permetto di dubitare della tua interpretazione: infatti pare che ci sia dalle tue parti (non Milano, ma la Puglia) dove di ebrei da un certo punto in poi ce ne sono stati pochissimi, mentre non ce n’è qua, dove quasi ogni cittadina aveva almeno una via “ebraica”.
O i contadini di qua erano più tolleranti, o i giudei meno… perfidi?? 😉
Peraltro, sono sicuro che in tempi recenti (pre Shoah) alcune famiglie ebraiche di qua si dedicavano proprio all’agricoltura.
Infatti non ho detto che SONO un’unica testa, ma che inconsciamente li vedo così. D’altronde io vedo così tutti i popoli, persino noi italiani, così individualisti. Non perché i popoli siano omogenei al loro interno, ma perché ciò che mi interessa è più ciò che gli appartenenti a un popolo hanno in comune di ciò che li distingue.
Sull’antisemitismo popolare, che ti devo dire, si vede che era una specie di antisemitismo in absentia. Molto probabilmente è legato all’immaginario iconografico di Anna e Caifa, degli ebrei come deicidi, che non agli ebrei contemporanei a loro. Comunque è raro che gli ebrei si siano resi simpatici alle popolazioni gentili fra le quali abitavano, guarda i polacchi…
Peucezio,
dai, tu parti un po’ prevenuto, ammettilo… 😉
sulla Polonia non mi pronuncio, però spero che l’esperienza delle mie parti, di convivenza tutto sommato felice (fino alle leggi razziali, perlomeno) possa far cambiare idea al tuo subconscio!
Comunque, per dimostrati che non ho pregiudizi, ti posto questa splendida interpretazione di “perfido giudeo della via crucis” 😉
http://www.youtube.com/watch?v=CXxB6U7TltI
Il nome mi hanno dato di *** giudeo ***
perché rispetto non porto a nessuno,
nemmeno alla carne e al sangue mio.
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Qualcuno me lo spiega ‘sto *** giudeo *** ?
… E’ anche questo ” AntiSionismo ” ?!
e dai, che una volta dire “giudeo della via crucis” indicava proverbialmente il massimo della malvagità umana
e ce lo sai, scommetto
Dalle parti di Moi non so,
ma dalle mie non esiste niente del genere. E di espressioni popolari e dialettali, anche e soprattutto a sfondo religioso, ne ho sentite parecchie.
Mi stupisce invece la diffusione di questa terminologia “giudeofobica”: pare che ci sia al Sud, dove dal Cinquecento in avanti gli ebrei erano pochissimi, mentre manca da noi, dove le comunità ebraiche erano piuttosto diffuse e anche visibili.
A meno che non sia una terminologia più antica ancora delle idee spganole sulla limpieza de sangre ecc., e da mettere in relazione con una fase medievale in cui le comunità ebraiche nel Sud erano molto numerose, ma onestamente ne dubito.
Comunque, ripeto, da noi non c’è niente del genere. Boh!
Per Pino Mamet
Qual’era la condizione degli Ebrei nel Ducato di Parma?
E i loro rapporti con la maggioranza cristiana? Gli Ebrei erano indigeni da lungo tempo o piuttosto immigrati sefarditi o askhenaziti?
ciao
Mi mancano i particolari
(ne avevo letto su Morasha o su qualche altro sito di cultura ebraica)
comunque credo che, a parte gli inevitabili alti e bassi, l’accoglienza ufficiale fu piuttosto buona, visto che comunità ebraiche, anche piccole, si trovavano in un discreto numero di comuni.
Mi pare che per un periodo non poterano risiedere nel capoluogo, il che probabilemnet ne favorì il radicamento nei comuni minori.
Tutt’ora a Soragna è in funzione un Museo di cultura ebraica che raccoglie testimonianze un po’ di tutto il territorio.
La maggioranza era costituita da ebrei italiani, di rito italiano, che non è proprio ashkenazita e neanche sefardita, ma più una via di mezzo (c’è chi sostiene sia all’origine del rito ashkenazita), con alcuni arcaismi, testimonianza dell’antichità della presenza ebraica in Italia.
Però dovevano esserci sicuramente anche degli ashkenazita di origine “tedesca”, visto che nella Biblioteca Palatina c’è un discreto fondo di testi yiddish, forse uno dei maggiori in Italia.
Sui rapporti con la popolazione di religione cristiana, a me pare si possa dire fossero buoni: di “antisemitismo popolare”, ammesso che ce ne fosse, non sono rimaste tracce, quindi suppongo che la cosa non dovesse andare al di là della fisiologia dei rapporti tra gruppi più o meno diversi.
Trovo interessante il fatto che alcune famiglie ebraiche si dedicassero all’agricoltura: probabilmente la scarsa o nulla distanza sociale tra i due gruppi religiosi facilitava i buoni rapporti.
Ciao!
Ebrei in Sud Italia dopo il medioevo non ve ne furono proprio, così come nel Ducato di Milano. Tra la metà del ‘500 quando gli spagnoli li espulsero tutti (regno di Filippo II, ma in linea con disposizioni di Carlo V e Ferdinando il Cattolico che avevano constretto alla conversione o all’esilio la maggioranza delle comunità), e il ‘700 (quando il ritorno delle comunità fu limitato ad alcune città, al sud praticamente solo Napoli, ma nell’900 vi fu un rarissimo caso di conversione collettiva di una comuntà all’ebraisimo, nel Gargano a San Nicandro).
In Sud Italia prima erano molti, sopratutto a Trani, Napoli e Siracusa, una delle città con la più lunga storia giudaica d’Europa (280-260 a.c-1560 d.c.), e con piccole comunità rurali in Calabria.
Molti rimasero “cripto-giudei” per alcune generazioni, tanto che alcuni rituali funerari e di veglia calabresi dell’ ‘800 stupirono gli antropologi perchè erano di evidente derivazione giudaica.
Anche negli stati pontifici gli ebrei subirono (come a Venezia ed altrove) la ghettizazione cinquecentesca, venendo limitati a Roma, Ancona e forse ad un paio di altre piccole località, l’annessione di Castro nel 1649 portò all’espulsione di quelle comunità.
Un po’ meglio andava per gli ebrei toscani, comunque liberi solo a Livorno ed in parte a Pisa, ma autorizzati in alcuni casi a possedere della terra (fatto raro in Europa).
Altre comunità in Trentino, Ticino, e, con espulsioni e riammissioni, negli stati Sabaudi; mentre la grande comunità Mantovana fu quasi completamente distrutta nelle guerre del ‘600.
Eppure il termine “ghetto”, oramai universale, sembrerebbe derivare dalla Lingua della Serenissima …
A Bologna invece il destino del “Bulgnàis” è stato paradossale:
La stessa Intellighenzia di Sx che l’ aveva combattuto con ogni mezzo e disprezzo finché le masse lo parlavano in nome del principio revanchista ” il Lavoratore deve sapere l’ Italiano meglio dei Padroni” … ne ha fatto un vezzo per motivi “culturali” con tanto di (ben fatta, devo dire …) standardizzazione ortografica con opportuna schiera di diacritici; vuoi per rendere fomemi non presenti in Italiano, come ” å ” che per ritrovare in una lingua ufficiale d’ Europa bisogna andare in Svezia (!), vuoi perché il tipico “alfacismo non etimologico” crea pseudo-omofoni distinguibili solo per quantità vocalica, ad esempio /saak/ significa “sacco” e /sak(k)/ significa “secco”
Invece da queste parti il dialetto scritto sta decisamente seguendo la “brutta china” intrapresa da quello parlato.
Nel capoluogo sono ormai incapaci di distinguere (e anche di pronunciare) le N velari finali di parola, e pronunciano e scrivono il parmigiano come fosse milanese
(visto che di parmigiano vitale e di uso comune tra i minori di cinquant’anni rimane solo il turpiloquio e certe espressioni fossile, ti faccio gli esempi di “culà”- culattone- a Fidenza è, correttamente, “culàn”; e “dabò”, “davvero”, rectius et fidentinius “dabòn”)
In compenso, mentre l’odiosa Gazzetta di Parma, quando pubblica qualcosa in dialetto (di solito borghesissime poesiole sui “vecchi tempi”) è correttissima dal punto di vista ortografico,
al contrario il foglio vernacolare fidentino (il Numero Unico, esce in corrispondenza alla festività del patrono) è ormai un’orgia di sinecismi e di segni diacritici usati alla cazzo di cane.
La ä, usata per indicare il suono di e molto aperta che assume la “a” lunga accentata, è usata ormai indiscriminatamente per ogni singola “a”, col risultato che i testi (oltre ad essere ormai scipiti e privi di mordente; la pubblicazione, veneranda, serviva per prendere in giro i personaggi locali, ma l’aumento della suscettibilità, e la differenziazione etnica della popolazione, la rendono ormai inutile) sono completamente illeggibili.
Ciao!
Ovviamente “culà” scritto non si trova sulla Gazzetta, dove suppongo sarebbe reso correttamente, ma in un migliaio circa di toilette pubbliche… 😉
Ma questa ricchezza fonetica vocalica superiore a quella toscana, tipicamente gallo-italica, anche a Parma e dintorni è importante per evitare equivoci ?
Potrei farti ancora l’ esempio della quantità vocalica di coppia minima bolognese con /paas/ con significato di “passo” e /pas(s)/ con significato di “pesce” …
E le consonanti sonore e sorde, quanto sono importanti per evitare equivoci a Parma e dintorni ?
Ad esempio in Bolognese “zàint” con z di zaino significa “gente” e “z’àint” con z di “azione” significa “100” … in entrambi i casi a “e” italiano cirrisponde “ài” per alfacismo.
at salud 😉
Sì, anche a Parma e dintorni la lunghezza vocalica è distintiva in parole altrimenti omofone:
“pan” pane e “paan” panni, per esempio.
(Scrivo così per semplicità, in realtà non è che in “panni” si usino due a; è proprio una a lunga, contrapposta a quella breve di “pane”)
Pesce da noi si rende di solito con “pèss”, quindi l’equivoco non c’è, ma credo che nella Bassa la pronuncia sia più simile a quella che trascrivi tu; in ogni caso le vocali sono in assoluto la parte più variabile dei “nostri” dialetti, anche a distanza di pochi chilometri.
Manca quasi completamente la dittongazione bolognese:
“gente” è “genta”, “cento” è “sent” o “cent”;
a proposito di numeri, da noi sento due varianti di “cinque”: “alla francese”, “sénc”, e “alla spagnola”, “sinco”;
un altro spagnolismo è “merèss” o “merìss”, che corrisponde esattamente allo spagnolo “merece”, e ovviamente la “carpetta” nel senso di fascicolo di carta o cartone- in eBay spagnolo “i miei files” diventano “mi carpetas”- che si ritrova credo in alcuni dialetti meridionali, ma che tipicamente i professori di altre parti del nord Italia non capiscono quando sentono pronunciare dagli studenti (“l’avevo messo nella carpetta…” “dove??”);
e ho anche dei seri sospetti su “guzzare”, ma non sono sicuro.
Hai ragione, Pino … “pàss ” pesce va traslitterato in /pas(s)/ e “pâs” passo in /pa:s/
Cmq, chi ha fatto il buon lavoro sui diacritici è tale Daniele Vitali … prima si sentiva demenzialmente dire che “il dialetto, se proprio, va trascritto come l’ Italiano !” … il punto è che assolutamente l’ Italiano è inadeguato.
Si arrivava al paradosso di scrivere il nome stesso della città “Bulògna” … che è invece Romagnolo !
La trascrizione giusta della “riforma vitaliana” è “Bulåggna” visto che la “nh” (come si trascrive in Portoghese per non star a cercare “n con tilde” in Spagnolo) è doppia !
Nemmeno la ” å ” ripescata dal Vitali dallo Svedese è un orpello secondario, poiché rende la pronuncia diversa di “mànd” (“mando”, voce verbale) e “månd” (“mondo”, sostantivo) o “a sån” (“sono”, sottintendeno “mé”, chiaramente “io”) e “a sän” (“siamo”, sottintendendo “nó” o “nuèter”, chiaramente “noi” o “noialtri”)
Oppure, prima di Daniele Vitali, addirittura si vedeva scritto “al scalètt” per dire “la scaletta” … che negando il peculiare alfacismo Bolognese “al scalàtt” era involontariamente Modenese.
Invece Daniele Vitali è stato così zelante da iniziare a trascrivere foneticamente “ganba” per “gamba” … e giustamente !
Av salud ! 🙂
foNemi ovviamente, refuso eh …
Per Moi
“Qualcuno me lo spiega ‘sto “giudeo” ? … E’ anche questo “AntiSionismo” ?!”
Dubito fortemente che l’autore di questa strina (non so quanto sia di Ferrante, o quanto di altri molto prima di lui) avesse in mente la questione israelo-palestinese.
Piuttosto, in un luogo come la Calabria, ogni essere umano si riconosceva come membro della Cristianità.
L’unica eccezione, che poteva raramente capitare di incrociare, era appunto qualche ebreo. Che non condivideva il Luogo Comune generale.
In questo senso, “giudeo” mi sembra una logica autodefinizione del cantante che si pone deliberatamente fuori dal Luogo Comune condiviso.
Interessante …
Verissimo, anche al mio paese per indicare l’essere umano si dice “cristiano” indipendentemente poi se costui lo sia davvero o non piuttosto musulmano o ateo,
quanto a questa specie di antisemitismo meridionale in assenza di ebrei, al mio paese c’è un clan (nel senso di gruppo di famiglie imparentate, non in senso camoristico) che da generazioni portano il soprannome di “giurei” (come spesso capita in napoletano o almeno in certe sue varianti la d passa ad e, ad es. per “domani” vi sono due varianti, “dimane” e “rimane”, da non confondere con la voce del verbo rimanere, da dire che come sempre la ultima parola quando non accentata tende ad essere atona), chiesi a dei miei parenti se per caso questo soprannome non accennasse ad una loro eventuale origine di conversi o marrani, ma mi risposero “sono malvagi peggio degli ebrei del Vangelo, ecco perché si chiamano così”, quando passa uno di loro non si dice “ecco Antonio (e relativo cognome)” ma “‘Ntonio o’ giureo”.
Ho trovato interessantissimi gli interventi sulla ortografia delle varianti emiliane, quello che mi cruccia dell’ortografia napoletana è che è invalsa da tempo l’uso di una scrittura molto simile a quella italiana, che ne perde parte della fonetica, anche se certamente aiuta perché nel parlato, sempre per la caduta della vocale finale, molti termini si riconoscono dall’articolo, ad es. o’ lietto (il letto) ma e’ lietti (i letti), in entrambi i casi il parlante dirà qualcosa come “liett”.
Salutoni, Karakitap
A che ti riferisci quando parli di “una scrittura molto simile a quella italiana”?
Molto interessanti comunque le osservazioni fonetiche e grafiche sui dialetti emiliano-romagnoli.
Da quel che ho potuto vedere nei testi di letteratura campana la grafia consolidata (perché a quel che ne sonon c’è mai stata una stabilizzazione formale) è molto simile a quella che si usa per l’italiano, ad es. vengono scritte le vocali finali anche se non si pronuciano (ad es. “tempo” viene reso con “tiempo” anche se ovviamente la pronuncia è qualcosa come “tiemp”, così come “casa” (uguale sia in italiano che in napoletano, solo che si pronuncia “cas” con quella specie di “e” semimuta che dovrebbe rendersi con il segno ” ë “, o “il mio cuore” che si scrive “o’ core mio” mentre dovrebbe essere “o corë mië”, questa discrepanza non viene avvertita da chi non conosce la differenza tra lo scritto e il parlato (e lo si nota quando un non campano vuole cantare una canzone napoletana leggendo il testo, pronuncerà immancabilmente le vocali finali).
Salutoni, Karakitap
Rinnovo i ringraziamenti per i commenti per il dibattito sull’emiliano- romagnolo, ho sempre trovato interessante l’area linguistica gallo- italica, non fosse altro perché ha un nome proprio, noi campani ci dobbiamo accontentare d’essere definiti “dialetti meridionali”, e poi perché (sarà una mia impressione fallace) mi sembra che quei dialetti abbiano un’intonazione molto diversa da quella cui sono abituato a sentire, in qualche modo mi sembrava più “dolce” all’orecchio.
Ora ho capito cosa intendevi. Quella cui ti riferisci è la grafia tradizionale del napoletano, quella che si è più o meno sempre usata il cui iato con la pronuncia si è andato ampliando coi secoli. Infatti, come spesso avviene in idiomi con una tradizione letteraria plurisecolare, la grafia rispecchia una fase più arcaica della lingua e quindi si trova a non corrispondere alla pronuncia.
E’ che le finali si pronunciavano probabilmente ancora in pieno nel medioevo e nel ‘600 Basile usa ancora la -i finale, che nel napoletano attuale non si scrive più, ma si sostituisce con la -e (‘e figlie “i figli”, ‘e ffiglie “le figlie”, dove l’unica differenza sta nel raddoppiamento sintattico della f-). Probabilmente ancora nell”800 c’erano tracce della -o finale, se non a Napoli città, in altre zone della Campania, mentre la -a è stata senz’altro l’ultima a sparire, tanto che nelle canzoni classiche è ancora avvertita la sua pronuncia piena in interpreti novecenteschi dallo stile più tradizionale, che pure parlando non penso la pronunciassero più.
La grafia attuale è sicuramente poco pratica, rispetto per esempio a quella in uso in Puglia e in Abruzzo, in cui la vocale indistinta viene sempre rappresentata come ‘e’. Tuttavia io sarei del parere che convenga mantenerla per il suo prestigio consolidato, per lo stesso motivo per cui in lingue come il fancese o l’inglese si usa una grafia farraginosa e ormai lontanissima dalla pronuncia e nessuno pensa seriamente di riformarla. E’ pur sempre la grafia di Eduardo De Filippo, di Di Giacomo ecc.
Semmai un accorgimento molto utile e che si potrebbe suggerire di adottare in modo sistematico agli autori che non lo fanno è quello di segnare con accento acuto o grave, secondo il suono, le vocali ‘e’ e ‘o’ toniche, in modo che non ci possano essere incertezze nella pronuncia e ogni fonema abbia una rappresentazione grafica definita, come si trova in certi dizionari dialettali.
E’ comodo infatti per un non napoletano sapere che si pronuncia ‘mèttere’ e non, come in italiano, ‘méttere’, cosa che oltretutto ha conseguenza sulla metafonesi, infatti si dice ‘tu miétte’, mentre, se avessimo ‘é’ chiusa avremmo ‘mitte’, come in altri dialetti meridionali.
Al fatto che la grafia conserva le vocali finali mentre il parlato le ha perse (o non le ha mai avute).
Salutoni, Karakitap
Rinnovo i complimenti per la discussione sulle varianti emiliane, al mio orecchio poi i dialetti gallo- italici mi sono sempre parsi molto “dolci” all’ascolto, ma non so se è una mia impressione oppure no.
Purtroppo ho sbagliato a inviare i commenti, meglio cancellare il riassunto del primo.
Salutoni, Karakitap (un po’ confuso).
Karakitap
credo che il suono della vocale finale nei dialetti campani sia quello della “vocale brevissima”, che esistiva in proto-indoeuropeo e per la quale i linguisti hanno preso a prestito il nome ebraico di “shva” (esiste anche in quella lingua infatti, in ebraico moderno però mi risulta muta per quel poco che so, almeno nel parlato israeliano dei miei amici).
Mio padre, grande appassionato di canzoni napoletane (anche se la meridionale di origine è mia madre), la pronunciava correttamente quando cantava (cioè spessissimo…), però in effetti è un suono un po’ particolare;
ipotizzo sia stato la fase precedente alla caduta di quasi tutte le vocali finali dei dialetti gallo-italici.
Non per reciprocità, ma per pura e semplice sincerità, ammetto di aver sempre trovato più gradevoli e interessanti i dialetti meridionali!
Ciao! 🙂
Per PinoMamet,
grazie infinite per la risposta , mi fa piacere che apprezzi i dialetti meridionali (a quanto pare, per parafrasare un noto proverbio, “il dialetto dell’altro è sempre più dolce”)
Salutoni, Karakitap
PS. Quanto all’insieme gallo- italico (e veneto) ho sempre trovato particolare l’uso della prima persona singolare, che a quanto ne so è dappertutto “mi”, non so se c’entri qualcosa la preferenza che gli è stata accordata rispetto all’ego che ha portato all’io italiano.
Sì, si tratta della vocale indistinta, cioè una vocale centrale di media apertura, in genere rappresentata come ǝ nei sistemi di trascizione fonetica (o come una ‘e’ con un cerchietto sotto nella grafia ascoliana oppure come ë, di provenienza albanese, in forme di trascrizione non scientifica, un po’ artigianale, per così dire).
In effetti è una sorta di stadio intermedio fra il dileguo che avviene nei dialetti piemontesi, lombardi, emiliano-romagnoli e parzialmente veneti e la conservazione tipica del toscano, dei dialetti centrali o di quelli calabro-siculo-salentini. Anche se questi meccanismi non sono lineari, per cui in tutto l’ambito settentrionale si è mantenuta sempre l’-a finale, mentre nel sud Italia anch’essa si è volta a indistinta, tranne in alcune zone (Abruzzo interno, parte del Lazio, località della Campania interna e del Gargano, zone di confine con aree di conservazione delle atone).
Ad essere precisi, lo schwa indoeuropeo viene convenzionalmente identificato con un’indistinta nel modello del vocalismo classico, anche se nessuno credo ne abbia mai specificato la natura articolatoria precisa, ma nel ‘900, già almeno da De Saussure, vige la teoria delle laringali, ammessa sia pure con differenze da tutti gli indoeuropeisti contemporanei, per cui lo schwa non sarebbe che la vocalizzazione o lo strascico vocalico di un suono laringale, di una sorta cioè di aspirazione.
In Emilia Romagna “mi” si dice, credo, solo a Ferrara (con una intonazione vagamente veneta, ma l’ idioma è emilianissimo) per tendenza al Veneto nel resto del territorio (considerando che l’ ultimo baluardo fonetico gallo-italico è Senigallia in provincia di Ancona, dal nome “esplicito” appunto di “terra di Galli Senoni”) dovrebbe essere sempre “mé” o “mè” …
Per Peucezio
Sì, questi sono i “difetti” di un’ortografia storica e non foentica, anch’io sarei per la conservazione della grafia tradizionale, magari con gli accorgimenti proposti (a volte però mi capita di pensare che quando il dialetto campano si sarà estinto o sarà evoluto in qualcos’altro, non fosse altro perché nel medio-lungo teremine siamo tutti morti, qualcuno potrebbe equivocare, ma per fortuna le registrazioni sono dovrebbero evitare questo problema), grazie per aver illustrato il cambiamento fonetico avvenuto nel passaggio dai vari sermo vulgaris ai dialetti, purtroppo non sono mai riuscito ad approfondire bene quel tema e trovare una spiegazione chiara come la tua è stata un’ottima cosa.
Per Moi,
grazie dell’informazione, ero convinto che si dicesse ovunque “mi” (forse perché l’ho sentito sia a Milano che nel genovese di De Andrè), comunque anche le varianti citate mi pare che siano simili.
Salutoni, Karakitap
Una volta ho scaricato da internet una tesi di dottorato in pdf sul dialetto de “Lo cunto delli cunti” che, partendo dall’analisi linguistica del testo, ne approfittava per fare un più generale excursus storico del napoletano.
Se vuoi te la posso passare: lì c’è molta carne al fuoco.
Per Peucezio,
sarebbe interessantissima, mi puoi passare il link? Grazie fin d’ora.
Per PinoMamet,
scusa l’immonda curiosità, ma per caso conosci le differenze tra dialetto parmigiano di città e quello di provincia? Mi spiego, tempo fa ho avuto il piacere di intrecciare una corrispondenza on line con una persona che dichiarava di scrivere da un punto sito tra Montechiarugolo e Traversetolo, le feci questa domanda ma mi rispose che lo conosceva poco (sic) essendo solo italofona.
Salutoni, Karakitap
Karakitap,
il link non ce l’ho più. Se mi dai una mail o un recapito telematico qualunque, ti invio direttamente il pdf.
Peucezio,
va bene, anzi meglio così dato che con il mio PC scaricare i pdf è un po’ come prendere un terno, mi piacerebbe la inviassi a questo indirizzo:
gfg7709@libero.it
Salutoni, Karakitap
Il massimo dell’ Antisemitismo Popolare che mi venga in mente d’ aver udito è “rabén / rabéin” , chiaramente “rabbino”, per taccagno …
Probabilmente è un’ assonanza casuale ma ho sentito spesso l’ espressione “ciapèr la strina” o “caz’èr la strina” nel senso di “venire sconfitti clamorosamente” o “sconfiggere clamorosamente” in contesto di competizione sportiva … o elettorale, in cui da queste parti lo spirito di tifo è molto simile.
Come stigmatizzò Miguel, “i giocatori/candidati possono essere intercambiabili, gli spettatori/ i votanti no”
Mmm
credo che “strina” nel senso di canto natalizio sia da collegare a “strenna”;
invece “strina” nel senso che dici tu mi sembra un derivato da latino “urere”, bruciare, come “ustrinum” (luogo dove si brucia, pira).
Nell’italiano locale (ignoro… ehm… se anche in quello ufficiale) “strinare” vale “bruciare leggermente o superficialmente”.
Sento spesso dai vecchi espressioni tipo “andava tanto forte che sapeva di strino”,
cioè, tradotto, “andava così forte da lasciare odore di bruciato”.
Ciao!!
A meno che nei tuoi esempi non valga proprio “prendere la strenna”, in senso ironico (paragonare la sconfitta a un bel premio, un bel regalo natalizio) anche se mi pare strano, perché la strenna da noi (non so neanche bene se il termine sia in uso) dovrebbe essere qualcosa tipo “strènna”
(in caso di consonanti doppie, più che il raddoppiamento di queste ultime si sente nel dialetto l’abbrevviamento estremo della vocale precedente; ma scrivere “strena” non darebbe affatto idea della pronuncia).
Sempre per Pino Mamet
“al Sud, dove dal Cinquecento in avanti gli ebrei erano pochissimi, mentre manca da noi, dove le comunità ebraiche erano piuttosto diffuse e anche visibili.
A meno che non sia una terminologia più antica ancora delle idee spganole sulla limpieza de sangre ecc., e da mettere in relazione con una fase medievale in cui le comunità ebraiche nel Sud erano molto numerose, ma onestamente ne dubito.”
La presenza ebraica da noi è piuttosto antica. Almeno intorno all’epoca di Gesù, dovevano già esserci comunità ebraiche, stanziate lungo la via Appia.
Nel Medioevo i rapporti con la maggioranza cristiana furono altalenanti, e soprattutto in periodi di crisi di governi o di rivolte popolari, gli Ebrei ne risentivano.
Vi furono alcune persecuzioni in epoca bizantina, come nel 930, quando l’imperatore Romano I Lecapeno ordinò la consegna dei testi sacri e qui a Bari, vi furono dei rabbini che vennero uccisi per non obbedire all’ordine. Questa persecuzione in Longobardia minor si inseriva in quella più vasta scatenata in tutta la Romània (a cui allora eravamo legati) e che scatenò minacce di rappresaglia da parte del Khan dei Khazari Giuseppe, che avvertì Romano che avrebbe a sua volta perseguitato i cristiani residenti in Khazaria.
E tuttavia, a parte queste sporadiche persecuzioni, la condizione dei Giudei fu abbastanza buona, almeno nei rapporti col potere. Bari e Oria, presso Brindisi, furono sedi di importanti comunità da cui uscirono studiosi di altissimo valore. E, caso raro in Occidente, nell’XI secolo, in città come Venosa, abbiamo Ebrei che coltivano i propri campi!
A Bari vi erano almeno due sinagoghe, a Trani quattro e a Napoli addirittura otto!
La condizione del giudaismo meridionale subì un primo duro colpo all’epoca angioina, quando Carlo II, nel 1294, impose la conversione al cattolicesimo. Furono sguinzagliati gli inquisitori domenicani, alcuni come Matteo da Putignano, essi stessi giudei convertiti. Qui a Bari, molti Giudei convertiti a forza, per salvarsi, mettevano le loro persone e i loro beni sotto la protezione della Basilica di San Nicola, come fece nel 1302 un certo Nicola di Bari con la sua famiglia.
La condizione degli Ebrei migliorò sotto le regine Giovanna I (1343-1382) e Giovanna II (1414-1435), probabilmente per ragioni fiscali, in quanto durante i loro regni, il Regno di Napoli fu sconvolto da violente lotte di successione. Sotto queste due regine, molti Giudei convertiti a forza, tornarono apertamente alla loro fede e ad essi si aggiunsero circa 100000 profughi cacciati da altri regni del Frangistan.
Il numero e la potenza degli Ebrei era tale che all’Aquila, riuscirono a far allontanare da Giovanna II, il celebre San Bernardino da Siena, focoso predicatore antigiudaico!
Nella sola Calabria, nel XV secolo gli Ebrei erano 60000 su una popolazione di 300000 abitanti! La borghesia, soprattutto quella imprenditoriale, come a Catanzaro, era quasi esclusivamente ebraica, e anche in piccoli centri. A Martirano, la popolazione ebraica era superiore per numero a quella cristiana!
Anche sotto gli Aragonesi, a differenza dei loro parenti spagnoli, gli Ebrei prosperarono, e sempre per motivi fiscali.
Le cose cambiarono alla morte di Ferdinando I d’Aragona (1494), il quale aveva accolto anche profughi dall’Aragona, dalla Sicilia e dalla Sardegna!
A partire dall’effimera spedizione di Carlo VIII di Francia, e poi con l’inglobamento del Regno di Napoli nel blocco polisinodale spagnolo asburgico, la presenza ebraica si ridusse. Ferdinando il Cattolico nel 1510, consentì solo a 3000 famiglie ebraiche la permanenza nel Regno, finchè Carlo V, temendo, o giustificandola come tale, che gli ebrei napoletani potessero diventare la quinta colonna del Sultano ottomano, espulse tutti gli Ebrei, tranne coloro che si erano convertiti al Cattolicesimo.
Molti di questi Ebrei si rifugiarono proprio nell’Impero Ottomano, a Salonicco e soprattutto ad Edirne, dove, ancora ai primi del XX secolo, vi erano le sinagoghe Puglia, Napoli, Messina, a dimostrazione del tenace attaccamento al ricorda dell’avita patria da parte di questi Ebrei napoletani.
ciao
Grazie a tutti per gli splendidi commenti.
La discussione linguistica, e quella sugli ebrei del Sud, meriterebbero ben altro spazio che questo angolino dei commenti.
è indiscreto chiederti in che città sicula hai vissuto?
Tanto che par, può puro pé puah.
Chissà—
Arrèmba su la strinata proda .
le navi di cartone, e dormi
fanciulletto padrone: che non oda
tu i malevoli spirti che veleggiano a stormi.
Nel chiuso dell’ortino svolacchia il gufo
e i fumacchi dei tetti sono pési
L’attimo che rovina l’opera lenta di mesi .
giunge: ora incrina segreto, ora divelge in un buffo.
Viene lo spacco: forse senza strepito.
Chi ha edificato sente la sua condanna.
È l’ora che si salva solo la barca in panna.
Amàrra· la tua flotta tra le siepi.
montale usa il verbo in una famosa poesia
Per me invece la regione linguisticamente più affascinante d’ Italia è costituita dalle Marche … perché “riassume” tutta l’ Italofonia, almeno nei tre gruppi linguistici dialettologici principali : Romagnolo Gallo-Italico fino a Senigallia, “Mediano” Umbreggiante ma non (troppo) altro rispetto al Toscano nelle province di Ancona e Macerata, forse anche la “neonata” Fermo … e Ascoli Piceno è già Abruzzese Meridionale a tutti gli effetti !
@ Karakitap …
Al tempo: il Genovese, come tutti i dialetti della Liguria, costituisce qualcosa di a sé stante … NON Gallo-Italico: Ligure e basta !
Diverso il discorso in Lunigiana, ove il Ligure è stato pesantemente reso “impuro” 😉 🙂 da influssi del Toscano e dell’ Emiliano in versione “Muntanèr” …
Va bene, però allora bisogna correggere, tra l’altro, la pagina della Wikipedia che ne parla, dove viene classificato, sia pure con alcune peculiarità, nel novero dei dialetti gallo-italici, queste poi non sono dovute solo al sostrato prelatino al relativo isolamento della Liguria dal resto delle parlate della famiglia, ma anche da motivi storici (con afflusso di termini dovuti all’intensa vita commerciale della repubblica), ho sempre trovato interessante che il ligure (o meglio, dialetti di tipo ligure) siano parlati anche al di fuori della regione, in Piemonte, nella Lunigiana, e a Bonifacio in Corsica e a Carloforte nell’isola di San Pietro in Sardegna (e che una forma di ligure, il monegasco, sia lingua ufficiale accanto al francese a Monaco, credo sia l’unico dialetto “italiano” ad essere lingua ufficiale di uno stato).
Salutoni, Karakitap
Monegasco che però, mi sembra che non sia più parlato nel Principato, così come purtroppo, l’idioma ligure a Nizza e a Mentone.
ciao
Verissimo, credo che l’uso del monegasco si limite a qualche tabella stradale e al fatto che Alberto II faccia gli auguri anche in quella lingua (del resto da quelle parti hanno ben altro a cui pensare che non al loro dialetto).
Quanto al nizzardo, leggevo tempo fa su un libro di parte (una grammatica provenzale) che in realtà sarebbe un dialetto occitano, in cui sarebbero presenti elementi liguri, cosa confermata anche dalla Wikipedia.
Salutoni, Karakitap
Ad essere precisi a Nizza, a differenza di Mentone, non si è mai parlato un idioma ligure ma un semplice dialetto provenzale.
Il luogo comune che il nizzardo sia ligure non è linguisticamente fondato, ma molto duro a morire.
La diversità dei dialetti liguri può essere dovuta ad un differente sostrato prelatino.
I Liguri preromani erano un popolo diverso sia dai Celti che dagli Etruschi.
Probabilmente si trattava di un popolo preindoeuropeo, forse di lontana origine nordafricana, mescolatosi in epoche successive con elementi celtici giunti da nord.
Interessante il discorso sulla Lunigiana, antica area ligure anch’essa, abitata dai fieri Apuani, contro i quali dovettero lottare duramente i Romani, ma oggi in gran parte appartenente alla Toscana, e in parte anche al Ducato di Modena nel XIX secolo.
ciao
Il fatto che in Lunigiana si parli un idioma ligure, seppure imbastardito, può essere la prova che le deportazioni degli Apuani da parte dei Romani nel 180-179 a.C., di circa 50000 persone, dovette essere parziale oppure le cifre fornite dalla storiografia romana furono ingigantite.
ciao
Già nell’appennino parmense, da una certa altezza in poi, gli influssi liguri si fanno pesanti.
Per esempio, qua gli emigrati all’estero (in alcuni paesi, un’enormità) sono affettuosamente definiti “strajé”, part. pass. del verbo “strajér”, penso affine all’inglese “stray”
(come in “stray cats” o… in”whiskey you’re the devil… you’re leading me astray”).
Il verbo vuol dire “spargere, disperdere”… “strajé” si dice anche di una persona disordinata.
Insomma, a Borgotaro l’immigrato è invece un “bestraiau” (“bestraiai” al plurale).
Non ho idea di dove provenga la “be-” iniziale, se sia una variante del verbo, o se sia invece qualche forma di aumento o di prefisso per il passato (sarebbe interessante…)
Leggasi “l’emigrato”…
ho sempre fatto confusione tra i due termini, anche perché in fondo è solo una questione di punti di vista.
Borgotaro mi sembra che si dica Borgtar in Parmigiano, e Burgu nel dialetto locale.
ciao
Burgu nel dialetto locale, confermo;
in parmigiano a dire il vero non saprei, perché non lo sento praticamente mai pronunciato in dialetto…. penso Borgtér (scrivo così per semplicità, fa conto che abbia usato la a con le dieresi) o Borgotér…
Infatti su wikipedia Borgtar è scritto con la dieresi sull’a.
“Per PinoMamet,
scusa l’immonda curiosità, ma per caso conosci le differenze tra dialetto parmigiano di città e quello di provincia? Mi spiego, tempo fa ho avuto il piacere di intrecciare una corrispondenza on line con una persona che dichiarava di scrivere da un punto sito tra Montechiarugolo e Traversetolo, le feci questa domanda ma mi rispose che lo conosceva poco (sic) essendo solo italofona.
Salutoni, Karakitap”
In realtà di dialetti parmigiani di città ce ne erano fino all’Ottocento almeno tre distinti:
quello popolano dell’Oltretorrente, con un vocalismo peculiare; quello borghese del centro città, più o meno affine (absit iniuria!) al reggiano; e quello della nobiltà, che poi era campagnolo (perché in campagna trascorreva gran parte dell’anno).
Rimane solo la versione popolana, per inciso ormai assente proprio dall’Oltretorrente.
Comunque le differenze con i dialetti delle zone circonvicine sono minime.
Invece a Ovest del torrente Taro il dialetto cambia decisamente: sparisce la “-da” finale del part. pass. femminile (il parmigiano distingue “andé” e “andéda”, andato e andata, il fidentino no, o per meglio dire, non più), compare la ü che prende il posto della u
(cosicchè la o chiusa viene sostituita da “u”)
es. cojòn parmigiano, cujòn fidentino.
Ormai scomparsi in entrambi i dialetti i passati remoti, che si usavano nell’Ottocento.
Il lessico è in gran parte lo stesso, ma la mia parte di famiglia “settentrionale”, cioè emiliana, per contigiuità geografica e origini miste, conosce di molti oggetti di uso comune due termini (spesso completamente diversi) uno “parmense” che si usa a est del torrente Stirone, e uno “piacentino” che si usa a ovest del medesimo
(es, l’imbuto, “lorèt” o “piriòl”… solo che non ricordo più quale sia l’uno e quale l’altro…)
Anche il fidentino vero e proprio (“borghigiano”) ha un suo vocalismo peculiare, con le e mutate in o (“bisiclòtta”, sempre con o brevissima) ma nessuno lo usa più.
Discorso a parte la Bassa, della quale so nulla.
L’Appennino, come scrivevo prima, declina decisamente verso il ligure. Curiosamente non poche famiglie locali hanno origini liguri o toscane (ne rende testimonianza anche Attilio Bertolucci nelle sue poesie) ma ormai perse nella “notte dei tempi”, cioè i trisavoli…
Ciao!
Anche a Bologna il passato remoto fa o meglio faceva molto ottocentesco … circa il femminile in “da” del participio passato, ho notato che è praticamente obbligatorio sempre in Modenese, mentre in Bolognese è assai raro e indica quasi solo opposizione del tipo “Ai é andèda lì … an (a)i menga andè ló … ”
A Modena il “pronome relativo nonché locativo universale” è “agh” come mi risulta essere anche a Reggio Emilia, Parma, Piacenza e pure Ferrara , a Bologna è invece “ai” mentre in Romagna (da Dozza Imolese a Senigallia) è “u-i” … con lo iato netto.
Av salud !
Grazie mille, davvero ottima risposta, davvero molto interessante vedere come in una città potesero coesistere tante varianti dello stesso dialetto.
Salutoni, Karakitap
Oggi mi sono ricordato di un’altra differenza importante ed evidente nel parlato:
la desinenza della prima persona plurale,
“-èma” o “-émma” in parmigiano (uso questo termine per semplicità per i dialett ia est del Taro)
“-ùmia” per il fidentino (idem per i dialetti a ovest dello stesso torrente)
“Cosa facciamo?” diventa rispettivamente
“co’ femma?” e
” ‘sa fùmia?”
(da notare che ognuno dei due dialetti elide una parte diversa di “cosa”; ma non è una regola, solo una preferenza, entrambe le forme sono in uso nelle due parti della provincia)
Un’altra cosa che mi incuriosisce dei “nostri” dialetti è la terza pers. plurale del verbo essere
“i én” o “éni”
non riesco a farla derivare dal sunt latino; possibile che abbia ripreso qualche altra forma italica concorrente, o che abbia ricostruito la voce per evitare confusioni con la prima persona sing.
(che dalle mie parti è il latinissimo “sum”)
o forse, chissà, una forma celtica? o un’influenza di sostrato greco-bizantina?
(greco moderno “einai”, pronc. “ine”, ma credo che “eni” sia la forma del griko).
Ciao!!
Specifica “a monte” che nei dialetti gallo-italici abbiamo una coniugazione interrogativa diversa da quella affermativa … non darlo per scontato, che mica tutti lo sanno !
Ad esempio in Bolognese “facciamo” affermativo è “a fàn” mentre interrogativo diventa “fàggna ?” … con suono di doppia “gn” .
Ma nei dialetti del parmense questa distinzione non c’è
(a proposito di roba celtica, mi sembra proprio di parlare del gallese, con le difficoltà di coniugazione e le differenze tra la parlata del nord, quella del sud e quella letteraria…)
In compenso, il fatto che nella coniugazione sia sempre presente una forma prenominale, ha permesso la sopravvivenza parziale del latino “es” (sec. pers. sing. di sum), che in italiano è stato sostituito da “sei”
a sum
a t’e (esiste anche a t si, comunque)
a l’e
a sumia (o semma)
a siv (la “v” finale, che richiama il pronome “voi”, permette di distinguerlo dalla seconda versione della sec, pers. sing.)
i en
ciao!
e.c.
“an (a)i é menga andè … “
A voler essere precisi, il “mica” a Bologna può essere sia “menga” che “méa” che “mégga” a seconda delle zone … in ogni caso è la negazione enfatica, tipo “point” in Francese, mentre la negazione standard tipo “pas” in Francese è “brisa” … più zelantemente trascritto anche con ” ṡ “, con puntino sopra, per indicare che la s intervocalica è pronunciata come in Francese o in Portoghese, NON come in Spagnolo o in Toscano o in un Dialetto “Mediano” …
… e a Parma e dintorni come funzia ?
“Miga” a Parma e est del Taro, “mia” a Fidenza e Ovest del Taro…
ma si sta diffondendo anche a Parma, forse perché i pochi giovani che parlano (se fa ppe dì…) dialetto con una certa imestichezza sono oriundi della provincia, o forse per l’influenza del noto barzellettiere Cantoni
http://www.youtube.com/watch?v=nPdxkJDavWc
(sono disponibile per la traduzione)
“Brisa” si usava ai tempi di mio nonno (lo so perché lo sentivo dire da quelli della sua generazione), virtualmente scomparso.
Anche la pronuncia, ne sono certo, si sta scempiando o addolcendo:
“c’me” è sempre più spesso pronunciato come ” ‘me”, perfettamente omofono del pronome personale; invece ricordo che da piccolo sentivo una C bella forte e marcata.
Ciao!!
http://www.youtube.com/watch?v=N3DfYF1hmv4
Cartone Animato 3D in Bolognese sottotitolato …
Scusa, come devo intendere “c’me” come … “come” ?
Che io sappia, un po’ in tutta la regione il “cmé” o “cmè” è generalmente proclitico e coesiste con “cunpàggna” o “cunpâgn/a a” generalmente comparativi enfatici che introducono dei paragoni altisonanti, tipo essere grassi come l’ Animale Totemico 🙂 😉 … poi ci sono anche “cum” e “comm”, generalmente interrogativi.
Pino, é-l axé / acsé anca a “cà tô “? 🙂 😉
Più o meno; ma non vorrei trasformare i commenti di Miguel in una monografia sui dialetti emiliani;
direi che abbiamo abbondantemente deragliato, dai.
Ciao!
No, no, gli argomenti linguistici sono sempre ben accetti qui!
Per Karakitap e Peucezio
Grazie per le delucidazioni sull’idioma nizzardo. Pensavo in effetti che l’Occitanico fosse parlato nell’entroterra della Contea di Nizza, ma non a Nizza città che sapevo essere linguisticamente ligure con influenze occitaniche e non il contrario.
Mi viene da chiedermi se Garibaldi nella sua infanzia e tra i suoi concittadini parlasse in occitanico, oltre che in ligure….
Sperando che interessi un po’ tutti e sottolineando con una punta d’orgoglio che è stato il Bolognese Daniele Vitali a inaugurare _con un lavoro immane, preso a esempio da tutti gli altri autori, di fonetizzazione e di grammaticalizzazione, ovviamente soggette a un sacco di varianti da tollerare_ a inaugurare, si diceva, questa nuova stagione di rivincita dei dialetti :
http://www.vallardi.it/catalogo/collane/lingue/dizionari+regionali.html
… naturalmente, onore anche alla benemerita casa editrice A.Vallardi
http://www.vallardi.it/catalogo/collane/lingue/dizionari+regionali/page/2.html
Sì, io possiedo il napoletano, il genovese e il milanese. Sul genovese non sono in grado di esprimermi, ma il milanese e, ancor più il napoletano, sono fatti veramente bene.
Il napoletano tra l’altro adotta in modo sistematico quell’indicazione delle ‘e’ e ‘o’ con accento grave o acuto, secondo il suono, cui facevo riferimento a proposito della grafia napoletana.
Il milanese invece fa riferimento alla grafia proposta da Beretta, anch’essa molto precisa, e che si basa anch’essa sulla grafia tradizionale, ma con degli accenti in più, che in quest’ultima quantomeno non sono obbligatori, ma invece sono molto utili per conoscere l’esatta pronuncia.
Notare che mentre esistono, ad esempio, un “Piemontese”, un “Veneto”, un “Friulano” ecc … non esistono tere un “Lombardo”, un “Emiliano”, (ma un “Romagnolo” invece sì: da Dozza Imolese a Senigallia), un “Ligure” ecc …
In realtà non esistono neanche un piemontese, un veneto, un friulano: sono comode sintesi per indicare un insieme di dialetti affini.