Mériben pâ kâmmoben

Mî ghíom adûro dyéseri tán
Te o Gorgio vias to látcher mán:
Son sélno pátrinor ‘pré o shock;
Sos kûshto táller i rûkkor lock;
Yûv díckda a méngy sâ kâmeli –
Kek jindas mî shómas Rómmani.O kâm péshed rínkeno ‘pré mendûi:
Yùv díckdas ‘dré mîro kâlo mûi,
Mîrî kâli yâkkor, mi kâlo fem:
Yùv Penda: “Avéss’ fon a wâver tem –
Fon a tàtto tem bûti-dûr avrî?”
Kékker pûkkdom mi shómas Rómmani.

“Avèss’ sâr màndy!” yùv mânged ajâ:
Man mûkkerdom dàdas te dye te sâ;
Kekkûmi ghiom kéti tan tûlàk,
To pûkker i pàlyor kûshto bâk.
Yùv rùmmerdas màndy sâ tàcheni,
Âwer kékker jínned shómas Rómmani.

Jivâv’ ‘drin o rinkeno kér kennâ,
Âwer shom bût tràsheni sârasâ:
Yeck divvus mî rye shûnélla, shyàn.
Leskri chi sos beeno adrín a tàn;
Te i fóki ‘vel pûkker sâ vàssavi –
Dick o mûsh so rùmmered a Rómmani!”

Sî shûnella ke man shom kek Górgio,
Yùv te vel sâ làj lester kókero,
Yùv’ll kâm to gàver adrín o kér
Oh kâmlo rom, màndy’d sîgger mér!
Mandy’d sîgger jâl sârasâr avrî
Ténna kair tût’ làj ap i Rómmani.

Yói ghias sâ sîg kéti doéyav;
Yói pûkkdas kéckli o rýas nàv
Yói hàtchdas adói pâsh o pànni kin.
Te wûsserdas kókeri sîg adrín:
” Pâ tiro kâmmoben – âvali –
Merâva kennâ, tîri Rómmani.

Lontano dalla tenda di mia madre vagai;
da sola attraversai l’oscuro bosco:
dove le foglie crescono verdi, dove gli alberi sono alti.
Ci incontrammo all’ombra, io e il mio amore.
Così gentile e dolce mi guardò –
Ma non sapeva che io ero una Rom.

Mi portò dove splende il sole,
guardò il mio volto scuro
mi guardò negli occhi e mi prese per mano
disse, “vieni da una terra lontana –
da un paese più caldo oltre il mare?”
Non gli dissi mai che ero una Rom.

“Vieni, amore!”, mi disse. Quando lo sentii chiamare
lasciai mia madre e la casa e tutto:
non tornai più alla tenda
per dire addio alla mia gente
il mio gagiò mi sposò fedelmente
ma non seppe mai che ero una Rom.

E ora vivo qui come una signora,
ma non sono mai al sicuro da un pensiero di paura:
un giorno diranno, con scherno, a mio marito
della tenda in cui nacque sua moglie;
e la gente griderà quando passa, “guardate,
l’uomo che si sposò con una Rom!”

Se sapesse che sono della razza degli zingari
non potrebbe mai più guardare in faccia i gagè
sarebbe contento di starsene nascosto in casa tutto il giorno:
o marito! Preferirei andare lontano,
e la morte sarebbe più facile per me
che vederti che ti vergogni della tua Rom.

Lei si alzò e arrivò al ruscello;
ma quando vi arrivò, sussurrò il nome di suo marito:
stette per un po’ accanto al corso d’acqua
poi si gettò  tra i flutti.
“E’ per amore di te!” disse
ora la Rom non ti farà vergognare.

Questa poesia, in quel curioso misto di antico indiano e parlata inglese di campagna che una volta caratterizzava i Rom dell’Inghilterra, fu scritta nell’Ottocento da Janet Tuckey.

Janet Tuckey – come si può cogliere anche dallo stile romantico – non era una romnì, piuttosto era una di quelle incredibili donne anglosassoni di quei tempi, che sarebbe diventata famosa per la sua biografia di Giovanna d’Arco, ispirando non solo Mark Twain, ma anche qualche altra incredibile donna anglosassone della mia famiglia. Segnando, magari in parte, anche il mio di destino.

Janet Tuckey scrisse questa poesia in onore di una ragazza che si era suicidata davvero perché, come raccontavano i sui parenti, “She was alaj her rye would latcher she was Rommany”, aveva paura che il suo uomo scoprisse che era una romnì. Janet Tuckey, con l’occhio onesto e partecipe dell’estranea, cerca così di dare parole a qualcosa che fu nuda vita e nuda morte.

Il testo si trova a p. 45 di un’antologia intitolata English-Gipsy Songs, e gli altri autori sono Charles G. Leland e Edward Henry Palmer (Lippincott & Co., Philadelphia, 1875).

Solo per dare un’idea – Edward Henry Palmer, impiegato, un giorno si stufò, vivendo prima con i Rom, poi curando i manoscritti orientali dell’Università di Cambridge. Attraversò il Sinai a piedi – facendo ovviamente gli interessi del proprio governo – , scrisse dizionari di hindostani, arabo e persiano e tradusse il Corano.

Charles Godfrey Leland, studente americano a Parigi, combatté nella rivolta del 1848, si batté per l’emancipazione degli schiavi negli Stati Uniti, inventò le scuole pubbliche professionali e si occupò dei tradizioni di nativi americani; poi, in Europa, dei Rom, fondando la prima organizzazione al mondo a occuparsene scientificamente, la English Gypsy-Lore Society; infine si trasferì a Firenze, dove incontrò una lettrice di tarocchi, tale Maddalena, che a suo dire gli avrebbe trasmesso un testo segreto, Aradia o il vangelo delle streghe: la sua (presunta) traduzione di questo testo sarebbe rimasta dimenticata fino al 1968, per poi improvvisamente trasformarsi nel testo chiave della stregheria wiccana.

Difficile non restare affascinati da certi personaggi di quello strano secolo che cambiò il mondo come nessun altro.

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8 risposte a Mériben pâ kâmmoben

  1. utente anonimo scrive:

    e ancora te ne duoli, di quel cambiamento, vecchio reazionario che non sei altro 🙂

    ciao

    Francesco

  2. controlL scrive:

    Sei magnifico kel quando disseppellisci per noi queste gemme letterarie sepolte dalla frana di parole usitate.

    Per quell’uomo è più facile concepire che si possa superare l’oltremare che l’oltrebosco. Anche la donna dovrà accorgersi che quella breve distanza è incolmabile. O meglio, la distanza sembra colmabile in direzione mitica: l’amore che fa apparire l’uomo essere “dove splende il sole”. Ma in direzione storica, diventato il posto luogo di residenza, la via è chiusa da ambo le parti: non potendo né restare né tornare, la donna sceglie di sparire.

    Ma sembra così anche nel verso contrario. Vediamo l’incipit di “sally” di de andré, ripresa da una filastrocca inglese: Mia madre mi disse non devi giocare/con gli zingari nel bosco.

    Il “buon senso” storico della madre, quello che tormentava la rom di janet tuckey, dissuade d’inoltrarsi nel bosco. Ma è il bosco in questa canzone a essere la terra del mito: Ma il bosco era scuro l’erba già verde/lì venne Sally con un tamburello/ma il bosco era scuro l’erba già alta/dite a mia madre che non tornerò.

    E fin da subito anche de andré afferma che non c’è ritorno. Sennonché anche questa terra mitica ha una dimensione storica e gli eventi sembrano dar ragione al buon senso materno: Seduto sotto un ponte si annusava il re dei topi/sulla strada le sue bambole bruciavano copertoni/sdraiato sotto il ponte si adorava il re dei topi/sulla strada le sue bambole adescavano i signori./Mi parlò sulla bocca mi donò un braccialetto/dite alla quercia che non tornerò./Mi baciò sulla bocca mi propose il suo letto/dite a mia che non tornerò.

    È l’esito finale del viaggio in “sally”, e la protagonista dal bosco mitico è finita nel sottobosco storico della città, che fuori dal centro e persino nella, una volta, campagna è ormai immensa periferia.

    La terra resta mitica solo se si taglia con la storia e l’oltrebosco è addirittura oltremonte:

    L’impietrito e il velluto

    Ho scoperto le barche che molleggiano

    Sole, e le osservo non so dove, solo.

    Non accadrà le accosti anima viva.

    Impalpabile dito di macigno

    Ne mostra di nascosto al sorteggiato

    Gli scabri messi emersi dall’abisso

    Che recano, dondolo nel vuoto,

    Verso l’alambiccare

    Del vecchissimo ossesso

    La eco di strazio dello spento flutto

    Durato appena un attimo

    Sparito con le sue sinistre barche.

    Mentre si avvicendavano

    L’uno sull’altro addosso

    I branchi annichiliti

    Dei cavalloni del nitrire ignari,

    Il velluto croato

    Dello sguardo di Dunja,

    Che sa come arretrarla di millenni,

    Come assentarla, pietra

    Dopo l’aggirarsi solito

    Da uno smarrirsi all’altro,

    Zingara in tenda di Asie,

    Il velluto dello sguardo di Dunja

    Fulmineo torna presente pietà.

    È l’ultima poesia di Giuseppe ungaretti. Solo in questa terra fuori dal mondo, che la città/civiltà non conosce più, la sapienza zingara sembra essere salvifica. Potremmo ricitare il de andré di khorakhané: saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in un palmo di mano/segreti che fanno paura.

    La lingua della poesia ottocentesca è uno splendido esempio di “parole cangianti”, che aiutano ad attraversare quei “segreti che fanno paura”.

    Ringrazio kel per avermi dato la ventura di soffermarmi un poco su d’una riflessione che ormai è travolta da troppe altre cose.p

  3. kelebek scrive:

    Per ControIL n. 2

    Se posso scambiare un complimento, ho la sensazione strana che tu sia una delle pochissime persone a capire quello che voglio dire.

    Grazie del parallelo con De Andrè, è straordinario e non ci avevo pensato.

    Miguel Martinez

  4. utente anonimo scrive:

    Miguel

    più che di capire, si tratta di condividere l’interesse.

    A Pasolini interessavano le lucciole e il dialetto friulano, solo che nessuno osava dire “e a me che me ne frega, scusa?” perchè erano altri tempi.

    O meglio, si mantiene un rispettoso silenzio accennando al massimo qualche battuta.

    Ciao

    Francesco

  5. controlL scrive:

    Non lo so, miguel; forse in alcune cose c’è affinità di sguardo. Quanto a faber, era zingaro d’elezione. Sugli zingari sono le cose ovvie che sfuggono anzitutto. Perché mai a nessuno è venuto in mente uno stato zingaro per risolvere la loro “questione”? Perché sono inadatti allo stato. Una comunità che si regola senza stato. Com’è possibile? È questo lo stupore che soffia da ogni polemica politica che li riguarda. Noi ce ne siamo dimenticati come si fa. Per questo sono così scandalosi.p

    Cvava sero po tute

    i kerava

    jek sano ot mori

    i taha jek jak kon kasta

    vasu ti baro nebo

    avi ker

    kon ovla so mutavia

    kon ovla

    ovla kon ascovi

    me gava palan ladi

    me gava

    palan bura ot croiuti

    (khorakhané): http://it.youtube.com/watch?v=5KwmV9KhJ7o

    Poserò la testa sulla tua spalla

    e farò

    un sogno di mare

    e domani un fuoco di legna

    perché l’aria azzurra

    diventi casa

    chi sarà a raccontare

    chi sarà

    sarà chi rimane

    io seguirò questo migrare

    seguirò

    questa corrente di ali

  6. RitvanShehi scrive:

    >Sugli zingari sono le cose ovvie che sfuggono anzitutto. Perché mai a nessuno è venuto in mente uno stato zingaro per risolvere la loro “questione”? p.< Perché gli stessi zingari non l’hanno chiesto. Oppure perché le popolazioni del posto in cui sarebbe sorto lo Zingarland – a meno che non si fosse deciso per l’Antartide, il deserto del Gobi o altro simile simpatica regione totalmente disabitata – molto probabilmente non l’avrebbero presa molto bene. Così sarebbero “insorti”, e qualche emulo di Miguel avrebbe fatto il diavolo a quattro per questo “furto della terra” agli indigeni abitanti. (ogni riferimento a una situazione simile in atto è puramente…voluto:-)). >Perché sono inadatti allo stato.< La stessa identica cosa che dicevano i sciovinisti serbi e greci degli albanesi agli inizi del XX secolo. >Una comunità che si regola senza stato. Com’è possibile?< Possibilissimo. Pure gli albanesi, per quasi 5 secoli si son regolati così. Poi, agli inizi del XX secolo, quando l’Impero Ottomano è defunto e la scelta era dividersi fra gli amati:-) serbi e greci o fare il loro Stato, fecero il loro Stato. >È questo lo stupore che soffia da ogni polemica politica che li riguarda. Noi ce ne siamo dimenticati come si fa. Per questo sono così scandalosi.< Mah, io direi che sono “scandalosi” per ben altri motivo. Il primo dei quali è quello di considerare gli insediamenti di nosotros “gage” un po’ allo stesso modo in cui li considerano le zanzare femmine:-).

  7. controlL scrive:

    Difatti, gli zingari sono estranei a questa forma mentis, appunto. Imperdonabile.p

  8. PinoMamet scrive:

    Beh, tutto sommato credo che a qualcuno l’idea dello stato zingaro sarà venuta, prima o poi.

    Anzi, sono quasi sicuro di averla letta in qualche sito tipo “Romanestan” o robe del genere; un certo nazionalismo Rom mi sembra che stia nascendo, comunque.

    Se l’idea dello stato zingaro ha ricevuto, come pare, pochissima o nulla adesione è perché i Rom hanno ben altri problemi da risolvere, e credo che qualunque dibattito del genere passerebbe sopra la maggioranza della popolazione rom, che non interesse, e spesso credo neanche mezzi, di conoscerlo.

    Comunque non credo che siano “scandalosi” perché si regolano senza stato (qualunque comunità ci riesce benissimo, peraltro) ma perché la stampa è assetata di emergenze e capri espiatori e loro purtroppo si prestano benissimo a entrambi i ruoli.

    Ciao!!

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