Amor iliscus (II)

Alla prima parte

Di ‘ishq, diversamente pronunciato, si impregna tutta la poesia della Persia.

Nel furore dei nazionalismi occidentalizzati, si dimentica che la Persia non fu tanto una nazione, quanto un registro.

Da Istanbul a Delhi, si parlavano mille lingue. Iraniche, ma anche neoindiane, semitiche, turche, caucasiche e altro ancora; e tra queste lingue, la lingua persiana codificata – a differenze delle forme spontaneamente parlate – , la  “lingua degli angeli“, offriva un registro particolare, quello della poesia.[1]

La poesia persiana, che esteriormente copiava le strutture di quella araba, trasforma coloro con cui entra in contatto: la poesia urdu come pashto, armena come turca, ne riprende in pieno lo spirito.

Poesia? Non so se sia la stessa cosa che noi, oggi e qui, chiamiamo con questo nome.

Salvo rare eccezioni, la poesia è il dominio della démiculture di provincia. Forse l’esponente supremo di quella démiculture è un pensionato toscano che si vanta di essere Accademico Onorario dell’Accademia “Artisti Europei” di Salerno e cittadino altrettanto onorario della Città di Kudjianda nel Tagikistan; e cerca il più che può di pubblicizzare i propri libri di versi: Luce di stelle alpine, Riccioli d’oro nel vento e, mirabile ultimo, Ho finito l’inchiostro. Sopratutto, si vanta di essere un membro dell’Accademia dei Micenei, imperdibile raccoglitore di ex-insegnanti di Reggio Calabria affetti da musite.

Fa un certo effetto pensare che quell’anziano signore si chiami Licio Gelli, lasciandoci nel dubbio – era tutto un abbaglio dei complottisti, oppure si può essere insieme cialtroni e pericolosi?

La poesia, colta o popolare, del mondo che andava dall’India ai Balcani è stata chiaramente altra cosa: un elemento cruciale della cultura, dell’ideologia, della religiosità, della vita collettiva e individuale.

Arabo, turco e persiano sono lingue diverse tra di loro quanto l’italiano, il somalo e il giapponese; eppure la poesia persiana li fonde in un’unica lingua, il cosiddetto turco ottomano,  l’idioma evanescente della corte dei sultani di Istanbul.

Trovo noiosa in traduzione quasi tutta la produzione poetica del registro persiano. Sembra mancare la narrazione; ogni singolo verso ci sembra un elemento a sé, che potrebbe stare in qualunque ordine con gli altri versi; e ricorrono sempre le stesse metafore -il cipresso, il coppiere, la luna piena, il neo…

Per apprezzarne la ricchezza, occorrerebbe conoscere perfettamente la lingua, cogliere i ritmi nascosti, i sottilissimi giochi di immagine, i rimandi mistici, le infinite piccole originalità inattese, cosa che non mi sarà concessa in questa vita.

Per dare un’idea di questa fusione culturale, presento quindi non un brano classico, ma un testo in prosa rimata di Halit Ziya Uşaklıgil (1866-1945),  autore decisamente moderno, che visse il grande passaggio dal mondo ottomano a quello repubblicano, ma usava ancora la scomparsa lingua ottomana, discioltasi poi nell’attuale turco.

Scritto in lettere arabe, tutto è pronunciato con suoni turchi e con la peculiare musicalità turca, e segue una sintassi turca; ma è costruito con parole turche, arabe e persiane, a loro volta in parte arabe, ognuna delle quali rimanda ad altri mondi di immagini.

Solo per dare una pallida idea di questa commistione, ho messo in rosso le parole arabe, in verde parole (e costruzioni) persiane, lasciando in nero quelle turche:

“Sahranın derin bir noktasında – ellerinde şimşir-i dirahşan şems-i garibin eşya-i haziniyle iltima ederek – süvariler mehip atlar üzerinde geçiyorlardı.
Önlerinden bir gubar-i kesif kalkarak etrafı istilâ etmekte, orduya bir ejder-i tayyar şeklini vermekte idi.”

“In un punto profondo dell’aperto deserto – nelle mani spade che scintillavano ai tristi raggi calanti del Sole – i cavalieri erano passati, su feroci cavalli.
Una spessa polvere che si alzava da loro invadeva la terra circostante, dando all’esercito la forma di un drago che volava.”

Nota:

[1] Prima che mi si accusi di nostalgia, va da sé che lingue e nazioni erano irrilevanti finché i popoli erano semplicemente oggetto di dominio e non protagonisti; quando i turcofoni erano solo braccianti e carne da cannone, i mercanti armeni, greci ed ebrei potevano vivere in pace a un piano leggermente superiore.

(Continua…)

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16 risposte a Amor iliscus (II)

  1. NonStoConOriana scrive:

    …Solo che i “mercanti armeni, ebrei e greci” erano minoranza assoluta in gruppi culturali -poi promossi a millet, nientemeno!- che, lì come altrove, penavano da Capodanno a San Silvestro per mandare avanti la baracca. Senza neanche la soddisfazione di potersi sfogare con qualcuna di quelle furibonde bestemmie che solo la lingua toscana permette di ideare!

  2. kelebek scrive:

    Per Nonstoconoriana n. 1

    Sicuramente. Volevo solo sottolineare come il nazionalismo, con annessi genocidi, sorge solo quando c’è un livello minimo di istruzione e di autocoscienza.

    Sta proprio qui l’ambiguità del problema.

    Miguel Martinez

  3. utente anonimo scrive:

    “Era tutto un abbaglio dei complottisti, oppure si può essere insieme cialtroni e pericolosi?”.

    La seconda che hai detto, mi sa.

    Ciao da Marcello “Teofilatto” Bernacchia

  4. NonStoConOriana scrive:

    Dai tempi dei nazionalismi furibondi sono stati sicuramente fatti molti progressi: l’anno scorso, quando chissà chi ammazzò chissà come un poliziotto a Catania, un sito di “tifosi” chiuse ipocritissimamente per qualche giorno le proprie bacheche aperte, accampando la necessità di una “pausa di riflessione”. Il 999 per 1000 dei messaggi ivi postati era appunto una testimonianza del progresso occorso nell’ultimo secolo: per promettersi -e all’occorrenza porre in opera- trattamenti da grand guignol, non occorrono più neppure quel poco di autocoscienza e di istruzione che servivano a dar l’aìre a un pogrom!

  5. BarbaraLattanzi scrive:

    speldido come dietro a una cultura ce ne sono altre e dietro a quelle, altre ancora … e così via all’infinito

  6. BarbaraLattanzi scrive:

    i cialtroni sono spesso pericolosi. qualcuno ha letto le poesie di gelli?

  7. irSardina scrive:

    splendido come dietro a una cultura ce ne sono altre e dietro a quelle, altre ancora … e così via all’infinito

    Oddio, Barbara, proprio all’infinito non direi… O vogliamo escludere quando Madre Terra stava beatamente in pace senza il formicolare dell’uomo sulla sua pancia? 🙂

    Ciao Sardina

  8. utente anonimo scrive:

    Hegel lo leggeva, ma Goethe lo amava e fa di lui suo modello e maestro. Chi? Il poeta persiano Hafez. Chez lui i cipressi sono diventati ,Agni, fuoco sacro, come nei quadri di Van Gogh, o nei paesaggi di toscana.(solo colui che ama e conosce Hafez sa cio che ha contato Calderon. parole di Goethe). A mio avviso lo spirito europeo, abbassato da secoli di mezze verità non puo percepire la bellezza quando gli appare, e vorrebbe ridurla a cosa qualunque mettendola in un cassetto o in un’altro…ma quest’essenza non puo essere rinchiusa e gira nell’etere per rendere folli tutti quelli che cercano il cuore. “Vedrai il segreto della coppa del Graal, mettendoti negli occhi il Kajal della taverna” Hafez. Bene questo kajal è alam al-mithal, l’immaginazione “vera” cioè il mundus imaginalis. Senza poesia Persiana il mondo non è mondo. chok teshekur ederim! jamiyla

  9. BarbaraLattanzi scrive:

    In effetti sarebbe interessante approfondire quei simboli persiani del cipresso, coppiere, luna piena e neo.

    Miguel, ti prego di smentire (o confermare) quanto scritto dall’anonimo!

    ciao a tutti

  10. kelebek scrive:

    Per Barbara n. 9

    1) Credo che Falecius potrebbe scrivere meglio di me un’analisi specifica degli elementi simbolici.

    2) No, c’è il solito cretino rancoroso che vuole seminare zizzania. Cancellato, ricomparirà ciclicamente.

    Miguel Martinez

  11. falecius scrive:

    Per barbara e miguel. Ho dato l’ultimo esame di letteratura persiana tre anni fa e la mia memoria non è così salda.

    La luna piena è una metafora del viso tondo ed imberbe dellAmato/a (la lingua persiana non conosce genere grammaticale, il che permette di scrivere testi amorosi ambigui; comunque la figura oggetto d’amore è frequentemente un ragazzino adolescente, spesso lo stesso coppiere -saqi, parola araba con dietro una lunga storia: saqe, era il nome di una carica del sistema imperiale assiro che aveva origine come coppiere del re ma divenne un ruolo politico, come i “maggiordomi” franchi).

    Il ragazzo imberbe era ovviemente una convenzione simbolica, e non un segno di “perversione” dei poeti.

    Bausani scrive che la pederastia letteraria della persia medievale era in parta causata proprio dalla segregazione di genere propria degkli ambienti urbani agiati: le donne erano ovviamente velate e quando ce se lo poteva permettere vivevano nei ginecei; era molto difficile che si creassero tra uomo e donna quella relazioni che sono tipiche del nostro mondo cortese, che era assai più promiscuo. Questo accadeva invece, nelle corti (e stiamo parlando di poeti al servizio delle corti) con paggi, servi ragazzi solitamente di sesso maschile, a volte schiavi (frequentemente turchi o slavi).

    La luna piena è anche spesso associata allo specchio; si ha quindi la metafora volto-specchio e la relazione secondaria barba-ruggine (entrambi segni della corruzione del tempo; si sta naturalmente parlando di specchi metallici).

    Il cipresso è un simbolo di forza, bellezzza, alta statura e snellezza; come la luna rappresenta la purezza e la perfezione del viso, così il cipresso del corpo. Nella tradizione persiana il cipresso è il “re degli alberi” un po’ come la quercia da noi e la palma in quella araba. Ovviamente il coppiere e l’Amato/a hanno anche un valore mistico: l’Amato/a può essere inteso come Dio, mentre il coppiere, spesso verso nella coppa un “vino” mistico che è la conoscenza mistica, la Gnosi, ed è quindi il portatore di una sapienza sacra e superiore che si collega a figure come l’enigmatico Khidr che instruisce Mosé nel Corano.

    Del neo non so dire molto, a parte che ha un relazione simbolica con i punti diacritici della grafia arabo-persiana e quindi tutto il mondo di metafore dell’ inchiostro, della scrittura, della penna ecc.

    Questo ovviamente non esaurisce il discorso e sono solo un po’ di cosine che mi ricordo.

  12. BarbaraLattanzi scrive:

    Grazie, Fal.

    preziose informazioni 🙂

  13. controlL scrive:

    Sembrerebbe una poesia per immagini ricorrenti quella di cui parli, miguel, “petrarchesca” per una molto larga approssimazione con la letteratura italiana. Ma la mescolanza di lingue, più che al petrarca fa pensare ai poeti siciliani, di cui oggi si sa che usavano un misto di siciliano “alulico”, raffinato e sfrondato dagli usi più vernacolari, certi latinismi curiali e imprestiti provenzali, di cui seguivano i modelli letterari. E la realtà era reinventata attraverso pietre e animali fantastici e personificazioni di stati d’animo e fuzioni fisiologiche. Anche questa poesia sembra procedere per minimi scarti e variazioni dentro una precisa rete di figure e significati; in profondità piuttosto che in estensione.p

  14. falecius scrive:

    Per p. Le letterature medievali islamiche ed europee erano un continuum, tanto che si teorizza un’influsso della letetratura arabo-persiana su quella siciliana e provenzale. In un momento successivo invece le letteratura e la storia europee divergono sensibilmente da quelle dell’Islam (e della Cristianità orientale) e direi che questo accade non prima del Rinascimento (in realtà ci sono concordanze tra lo “stile indiano” di persia e il Barocco europeo). DIrei, ma è spannometria, che l’affermazione definitiva della borghesia europea fece emergere la “nostra” letteratura.

  15. BarbaraLattanzi scrive:

    E’ andato perso anche quel “parlare per immagini” che tanto desiderava ritrovare Jung. Anche se a volte Wahduda ce ne da un assaggio ….

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