La Pattumiera con il Cuoricino (1)

Siccome ogni discorso sull’ambiente finisce inevitabilmente in una discussione sul tipo, “tu ci vorresti far soffocare dalla plastica!”, “e tu invece vorresti far morire di fame i lavoratori!“, vi racconto una storia.

Qui a San Frediano, c’è una fila sempre più lunga di persone che aspettano la distribuzione di pacchi di cibo che fa la parrocchia.

Ma non ne vedi una vestita male: esistono gli affamati, i disperati e i molto preccupati, anche i suicidi, ma non esistono più gli straccioni.

Se oggi vedessi uno in giro conciato così, sapresti subito che è un attore che sta recitando in un film di costume:

Noi ci sentivamo molto bravi, organizzando bancarelle dove le mamme del rione potevano scambiare i vestiti dei figlioli.

Poi un giorno ci siamo accorti che quasi tutte davano senza prendere, perché avevano le case troppo piene, e non sapevano più dove tenere la Roba.

Quando abbiamo smesso, c’erano delle signore che arrivavano al giardino, si guardavano attorno furtivamente, mollavano grosse buste di vestiti usati e poi scappavano.

Ma di solito, queste signore vanno a uno di quei bei cassonetti colorati, dove promettono una seconda vita in Africa per magliette e pantaloni.

Invece di esserci una sanfredianina grintosa con tre figlioli e un cane zoppo che dice, “basta, non siamo una pattumiera!”, trovano il cuoricino che rassicura la signora che non sta commettendo un delitto, anzi che lo fa per amore.

Un giorno, mi contattò un imprenditore tunisino, chiedendomi se poteva comprare un po’ di vestiti usati da noi.

Mi sembrava un’idea carina e virtuosa, e gli chiesi quanti.

Un paio di container al mese, per cominciare”, mi propose con non chalance.

Dopo ho ricostruito.

Grazie al lavoro gratuito di milioni di mamme oltrarnine e affini, innumerevoli container vengono caricati su camion, poi su grandi navi.

Il nome di questo mostro, Evergreen, dice tutto…

Dove si mescolano con i container che portano la nostra plastica, ormai respinta anche in Oriente.

E tutta la discarica d’Occidente si riversa sull’Africa.

A prima vista, quello dei vestiti sembra un bell’esempio di riciclaggio.

Permette a milioni di africani di vestirsi decentemente, a poco prezzo, e dà lavoro anche a tanti ambulanti.

Solo che l’Africa una volta aveva molte imprese tessili, artigiane ma anche industriali, con dietro una grande storia, che sono state così messe in ginocchio.

Per questo motivo, Uganda, Kenya, Tanzania, Burundi, Sud Sudan e Rwanda hanno pensato di mettere dazi sui vestiti di seconda mano: in particolare, la Rwanda avrebbe anche il cotone come materia prima, ma è costretta a esportarne il 70% per colpa delle mamme di tutto il mondo che l’hanno scambiata per la Pattumiera con il Cuoricino.

Negli Stati Uniti, esiste una potente associazione che raccoglie tutti quelli che prendono i vestiti gratuitamente dalle brave signore riciclatrici, e li rivendono in Africa. E siccome non sono fessi, l’associazione si chiama SMART.

Sul suo sito, assicura gli associati che “la SMART è in grado di rispondere con servizi sofisticati di lobbying e di informazione”.

La SMART ha fatto appello al governo degli Stati Uniti, che è intervenuto subito minacciando rappresaglie economiche, se non si accettava la carità dell’Occidente: con l’eccezione della Rwanda, i paesi africani hanno fatto marcia indietro (black countries don’t matter).

Allora, ci possiamo chiedere, da dove sgorga questa immensa fiumana di roba?

Altre grandi navi portano la Roba, ad esempio, dal Bangladesh, che per la via più breve (Canale di Suez) dista 11.000 chilometri da Napoli, ma costa sempre di meno di un’operaia italiana.

Il tessile costituisce l’80% delle esportazioni del Bangladesh, dando lavoro a milioni di donne.

Con l’arrivo del Covid, i consumatori occidentali però hanno smesso di gironzolare per negozi e fare acquisti d’impulso di capi che non indosseranno mai;

uscendo meno di casa, hanno meno bisogno di far vedere a tutti che il martedì si vestono diversamente da come si erano vestiti il lunedì;

non dovendo partire in pieno inverno per i Caraibi, non comprano più abiti fuori stagione.

Gli acquirenti occidentali pagano i bengalesi mesi dopo la consegna, mentre i produttori bengalesi devono pagare subito i propri costi: e così già a luglio, i bengalesi si sono trovati con 1,5 miliardi di dollari in ordini cancellati, e tante fabbriche hanno licenziato il proprio personale, o sono fallite.

Immagino che qualunque persona normale, di destra o di sinistra, cattolica o atea, sentendo questa storia, capisca che c’è qualcosa che non va.

E il non va è di tali proporzioni, e il nostro unico pianeta è così piccolo, che c’è da mettersi veramente paura.

Di solito, a questo punto, qualcuno dice, e allora, che si fa?

Ne riparleremo.

Questa voce è stata pubblicata in ambiente, esperienze di Miguel Martinez, Firenze, resistere sul territorio e contrassegnata con , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

15 risposte a La Pattumiera con il Cuoricino (1)

  1. Z. scrive:

    Miguel,

    — Gli acquirenti occidentali pagano i bengalesi mesi dopo la consegna, mentre i produttori bengalesi devono pagare subito i propri costi (…) Immagino che qualunque persona normale, di destra o di sinistra, cattolica o atea, sentendo questa storia, capisca che c’è qualcosa che non va. —

    Sì, rischia di esserci un disallineamento profondo tra cassa e competenza. Occorre permettere ai cedenti bengalesi di contabilizzare i costi secondo il principio di cassa e di riportare tutte le perdite senza limiti di tempo e di quantum.

    • Miguel Martinez scrive:

      Per Zeta

      Utilizzi un bellissimo trucco retorico:

      “propri costi (…) Immagino che ”

      cioè cucire insieme la frase espressa al punto 10 con quella espressa al punto 92, con i puntini che indicano il taglio di qualche parolina superflua.

      In realtà “immagino che” si riferisce a tutto il complesso di cui si parla nel post 🙂

      • Z. scrive:

        Beh, allora riguarda anche il disallineamento cassa-competenza!

        • supervice scrive:

          Il flusso di cassa lo puoi anche avere per tre mesi di produzione, ma poi le maglie fatte di cotone di merda e con delle tinture che fanno venire l’orticaria agli elefanti non le vendi più, e spero per sempre.

          • Z. scrive:

            E se non ce l’hai per più di un anno? se continui a produrre e non puoi dedurre i costi perché non hanno ancora generato ricavi, e ti restano sul groppone tutte le materie prime?

            questa è la tragedia che denuncia Miguel!

            Solo… che succede se io posso portarmi i costi, ma le perdite non sono riportabili per intero?

            Ogni serio problema ha sempre un lato oscuro, a differenza della Luna (no, la Luna non ha lati oscuri. Lo so, lo sapevate tutti, lo so persino io!).

  2. werner scrive:

    Manca un sistema per compensare le esternalitá ambientali.

    Anche se dubito che avrebbe un impatto significativo sul prezzo delle t-shirt Bengalesi. Su una portacontainer credo ce ne stiano milioni e la loro produzione non mi pare granché inquinante. Peraltro anche producendo le t-shirt in Italia dovremmo importare la materia prima.

    • Francesco scrive:

      perchè dovremmo produrle in Italia?

      la manifattura tessile è la prima che un paese povero riesce a organizzare, il primo passo dello sviluppo economico e della fine della fame come condizione normale di vita

      l’Italia è da tempo un paese ad alto reddito (e non dite che questo vale solo per Roberto, stiamo facendo il confronto con il mondo, non con i desideri) e non ha senso avere qui industrie labour-intensive e a bassa tecnologia

      PS Miguel non vuole compensare le esternalità ambientali, odia proprio il commercio 😉

      • Miguel Martinez scrive:

        Per Francesco

        “l’Italia è da tempo un paese ad alto reddito […] e non ha senso avere qui industrie labour-intensive e a bassa tecnologia”

        Ho capito, in Italia si devono fare Start Up tipo Hoopygang, che ha aperto le sue attività altamente redditizie a cento metri da casa mia:

        https://hoopygang.com/product/

        “Influencer Marketing senza confini.
        Crea e gestisci i tuoi progetti influencer in modo scalabile e su misura con la piattaforma IRM e i servizi creativi di Hoopygang.

        Scopri nuovi talenti e aggiungili al tuo network, analizza le loro performance e coordina molteplici programmi di contenuto influencer da una singolo touchpoint. Tutte le maggiori piattaforme social incluse.”

        Gli altri zappino la terra e facciano vestiti.

        • Miguel Martinez scrive:

          Lo stesso inculator (incubator-accelerator) produce

          “Quickwit – Piattaforma web e mobile multi-gioco per sfidare i tuoi amici.”

          “Rolever –
          One App to ROLE them all!
          Accedi alla lobby delle campagne di RoleEver. Numerosi giocatori cercano ogni giorno sessioni per giocare!
          Sei un master? Crea la tua campagna e seleziona il sistema di gioco!
          Sei un giocatore? Sfoglia la lista delle Storie alle quali partecipare in base alle tue preferenze!
          Non è una semplice chat
          L’app prende automaticamente i valori dalla scheda personaggio!”

        • werner scrive:

          In Italia si fanno le produzioni ad alto valore aggiunto: i macchinari per fabbricare le t-shirt e le navi che le trasportano. E se non siamo ancora falliti è anche perché ce la caviamo in quei campi.

          @francesco. Non era un auspicio, intendevo dire che a livello ambientale non sarebbe cambiato granché.

          • Francesco scrive:

            grazie Werner per aver ricordato che esiste un’economia reale e avanzata, non solo la fuffa internettiana e le miniere di zolfo

            ce la caviamo molto bene in quei campi, oso dire

            PS non so quanto la tassazione sull’inquinamento dei motori delle navi peserebbe sull’economia, sono certo che porterebbe a fare motori marini meno inquinanti – salvo stati canaglia, of course

          • Miguel Martinez scrive:

            Per Werner

            “In Italia si fanno le produzioni ad alto valore aggiunto: i macchinari per fabbricare le t-shirt e le navi che le trasportano. E se non siamo ancora falliti è anche perché ce la caviamo in quei campi.”

            Affermazione credibile, ho visto i cantieri navali a Venezia e a Livorno, e so che ci sono alcune aziende italiane che se la cavano abbastanza bene anche in campo militare, come la Leonardo.

            Pongo delle domande (non conosco le risposte):

            1) quanta percentuale della popolazione rientra in questo campo, o nel suo indotto? (è capitato anche a me di fare traduzioni per quegli ambienti, ma di rado)

            2) cosa succede a quelle aziende appena cambia qualcosa nel mercato mondiale, perché non sono cose che servono all’Italia?

            3) siccome altri paesi come l’India pullulano di milioni di laureati ben più motivati di quelli italiani, perché anche l’India non fa cantieri propri?

            • Francesco scrive:

              1) non tutta, questo è certo. però dovrebbero essere i destinari unici della politica economica, per motivi economici e non politici
              2) quelle aziende vivono sui mercati mondiali e sono incredibilmente brave a seguire i mutamenti della domanda
              3) perchè quando i politici indiani ordinano ai burocrati indiani e ai loro amici imprenditori ammanicati di fare qualcosa, succede tutto tranne che la produzione di quel qualcosa. però c’è un sacco di comitati e di carte (0ggi email) che girano

              😉

  3. werner scrive:

    Sui cantieri navali so pochissimo, ricordo che sono uno dei settori in cui siamo tra i leader mondiali.

    Sul punto tre però posso azzardare una risposta che è valida per tutti i settori ad alto valore aggiunto: lo know-how di tutta la filiera e di tutta la manodopera impiegata. Non solo gli ingenieri, ma anche i tecnici o designer e gli operai specializzati.

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