Il commentatore Peucezio, che spesso ha riflessioni paradossali ma brillanti, scrive:
“Gli architetti sono per definizione dei nemici del genere umano.”
Gli rispondo.
Di architetti ne abbiamo tanti tra le nostre fila, che non li contiamo più, e la maggior parte di loro sono persone ottime.
Però non è che Peucezio abbia tutti i torti.
L’architetto, escluso un certo numero di psicopatici che in una società normale verrebbero mandati a zappare, è in genere una persona con bellissimi ideali (talvolta con qualche svolazzo di troppo) che campa di briciole gettategli da ricchi che non hanno bellissimi ideali.
Quello che ci serve per sopravvivere sono urbanisti popolari, invece.
Quando sente l’aggettivo popolare, chi è cresciuto a televisione pensa subito a un misto di Stalin, Hitler e Sanremo, ma questo è un problema di chi è cresciuto a televisione.
Quando io che non ho questo problema dico popolare, penso semplicemente ai miei maestri di urbanistica.
Nessuno di loro è architetto, ma ve li presento lo stesso. Alcuni, perché sono proprio tanti.
Renzino sotto sfratto a ottant’anni,
Sauro l’artigiano che ha visto i residenti messi in fuga a migliaia,
l’insopportabile Andrea che ha indagato per capire quali speculatori ci fossero dietro tutte le singole trasformazioni del nostro rione,
la Fernanda che guarda Via della Chiesa dall’alto della sua terrazza,
Giovanna la restauratrice di statue del Cinquecento che ha cercato di capire perché nella sua strada hanno chiuso tutte le botteghe,
la Maria che è diventata urbanista il giorno in cui hanno molestato sua figlia per strada e lei ha cominciato a cercare di capire in che mondo vive.
Gli urbanisti popolari, a differenza degli architetti, sono persone che non devono aspettare di essere pagate da qualcuno, per dire la loro sulla città in cui vivono.
I gechi vivono sui muri, e capiscono i muri.
I pesci palla vivono nell’acqua salata, e capiscono l’acqua salata.
Noi viviamo nelle città, e non capiamo le città.
Mentre blateriamo la nostra su Juve-Fiorentina, musulmani contro cristiani, froci contro bigotti omofobi, israeliani contro palestinesi, deleghiamo la comprensione della città a urbanisti, architetti e assessori.
E il bello è che ci fidiamo pure.
Ma da quand’ è che la parola “Architettura” è stata degradata nel sentire comune ad “arredamento creativo” ?!
Io non lo so.. ma presumo che sia da quando gli architetti stessi hanno cominciato ad inondare il mondo con pallosissimi libri pieni di foto di seggiole di plexiglass!
Da quando architettura e’ diventato sinonimo di design
A proposito di “creatività” e presunta “socialità” :
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Io quando sento “popolare” penso alle banche popolari della mia regione e della Lombardia, ai Popolari di Sturzo e De Gasperi e al PPE. Insomma, al mondo politico e associazionistico cristiano-sociale.
Comunque credo che chiunque di noi abbia un po’ di pazienza sia in grado di condividere con gli altri un frammento di verità della città in cui vive. La cosa difficile è accettare che il proprio frammento è appunto soltanto un frammento, e metterlo insieme agli altri.
“Io quando sento “popolare” penso alle banche popolari della mia regione e della Lombardia”
comprensibile, ma si tratta di un’astrazione.
Ma la cosa difficile è accettare che invece di pontificare su cose che non si conoscono, si possa dire qualcosa di ponderato su ciò che si conosce.
E qui non so se si tratti di una dote toscana, ma i miei maestri di urbanistica sanno parlare molto bene, sanno ragionare in modo complesso, sanno cogliere le obiezioni e rispondere e cercano sempre di capire il quadro generale. In genere, meno hanno studiato, più sono precisi e distaccati.
“E qui non so se si tratti di una dote toscana”
no 😀
Verissimo: la mia è un’astrazione, dovuta alla mia formazione politica e personale. Del resto anche “popolo” è un concetto astratto, che è stato definito in molti modi diversi.
“In genere, meno hanno studiato, più sono precisi e distaccati.”
Chissà come mai, la cosa non mi meraviglia affatto 😉
“L’uomo si era stancato di soffrire. E, sia pur in modo inconsapevole, in virtù di un meccanismo che ne aveva avuto ragione, aveva trovato la soluzione nella fuga dalla realtà. Se qualcuno, come lui, aveva qualcosa da ridire su quell’annullamento di sé in un mediocre Nirvana, non cercato ma subito, la cosa non aveva alcuna importanza. Erano fatti suoi. Era la visione del mondo di un singolo. Di un isolato. Di uno sconfitto.
Sconfitto. Una parola che gli si rimescolava dentro con morbosa dolcezza. Un languore impudico che gli attorcigliava le viscere. Lui era da sempre dalla parte degli sconfitti. I diseguali. Gli anomali. Gli svillaneggiati. I derisi. I vilipesi. Gli “umiliati e offesi”. Ed era anche con quelli cui la Storia, questa opinione comune dei vincitori, aveva dato torto e condannato per sempre.
Aveva pietas per gli uomini, anche per i vincitori perchè era consapevole del nulla su cui poggia la loro arroganza, ma si chinava su di loro solo nel momento della sconfitta. Quando l’uomo, spogliato del potere, dell’applauso, del consenso, della retorica, dell’ipocrisia, è solo con se stesso, davanti, senza più infingimenti, alla tragedia. Che è comune a tutti, vincitori e vinti, uniti da un ineluttabile destino comune.
Aveva pietas per i vincitori ma non poteva fare a meno di detestarli. Era più forte di lui. E nel suo tempo il vincitore era proprio il popolo delle cuffie, ruminante, biascicante, gonfio del nulla. Incapace del silenzio, pago di sé, senza dubbi, disumano. O forse, nell’eterno pendolo di chi, in assenza di assoluti e di senso, non può avere certezze, troppo umano.
Lui comunque stava da un’altra parte. Qualcuno avrebbe potuto obbiettare cge non c’era nessuna nobiltà, ma piuttosto una necessità, nella scelta di campo di Matteo. Perché era uno sconfitto. Ma Matteo avrebbe potuto rispondere che parteggiava per gli sconfitti fin dall’inizio, prima di sapere come si sarebbe svolta la sua vicenda umana e che correre in aiuto dei vincitori non era poi così difficile se solo lo si fosse davvero voluto. Probabilmente era una questione di carattere, forse addirittura genetica, di cui non c’era da menar vanto ma nemmeno da portar colpa.
Ma se detestava soprattutto QUEI vincitori, senza grandezza e senza epica, era perché gli avevano tolto lo slancio vitale, gli avevano impedito di vivere. Con la sua complicità. Per cinquant’anni aveva mentito a se stesso e agli altri cercando, con uno sforzo che aveva logorato, di mimetizzarsi nella maggioranza pur non facendone parte.”
Massimo Fini, Il Dio Thoth, pp. 144-145
Stavo per dirti “bel post” e poi mi sono fermato sulla frase del geco.
Il geco non ha la minima idea di cosa sia un muro, di come si costruisca e a cosa serve.
Si limita a usarlo.
🙂
parlo per biechi motivi di interesse personale
NESSUNO capisce di economia, tranne gli economisti (di cui io sono un pessimo esempio)
ma NESSUN economista è capace di far funzionare un’impresa o una pressa o un ministero
però sono certo che senza gli economisti, quelli che sono capaci non lo sarebbero affatto
giusto per dirti che discordo totalmente dal principio teorico da cui parti e oso dirti che ci sono bravi architetti e cattivi architetti ma che i gechi (e gli urbanisti popolari) non c’entrano
ciao
“Di architetti ne abbiamo tanti tra le nostre fila, che non li contiamo più, e la maggior parte di loro sono persone ottime.”
Come al solito mi piace fare affermazioni forti, un po’ a titolo di provocazione, per cogliere un po’ l’essenza delle cose, senza soffermarmi sui dettagli.
Non ho difficoltà a credere che ci siano tanti architetti ottime persone.
Il problema è l’impatto dell’architettura sul nostro mondo.
In questo senso, l’urbanistica popolare cui fai riferimento, non esito a credere che farebbe molti meno danni.