Il senso dei filosofi contemporanei per la neve

Non so chi sia il signor Fabrizio Bocca. Magari è famosissimo, e certamente ha tutti i requisiti intellettuali per esserlo.

Sulla prima pagina di Repubblica, un link mette ben in evidenza il suo blog, che presumiamo sia quindi retribuito economicamente.

Sul suo blog, il signor Fabrizio Bocca scrive oggi un post, che riportiamo integralmente per profondità di contenuti, e perché affronta uno dei problemi ritenuti decisivi dei nostri tempi.

Neve sul calcio, prendiamola con filosofia. Una partita rimandata non è un problema

Venerdì 3 febbraio 2012 Il calcio e il maltempo, la neve che copre gli stadi. Arrivato alle 19 di un venerdì lungo e difficile per troppe persone, mi sembra giusto prenderla con filosofia. Qualche partita rimandata è veramente l’ultimo dei problemi. Certe polemiche su giochiamo sì, giochiamo no, mi sembrano proprio una stupidaggine.

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42 risposte a Il senso dei filosofi contemporanei per la neve

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  2. Buleghin il vecio scrive:

    Se trata de pansieri filosofaci profondi ostaria!
    Sono degni del zornal gazeta de la ripublica del furbachion debenedeti!

  3. corrado (qualc1) scrive:

    Io invece sottoscrivo in pieno. Sarò radical-shit, ma chi se ne fotte se rimandano la partita?!

  4. Miguel Martinez scrive:

    Per Corrado

    Ma la conclusione è irrilevante.

    Ciò che è interessante é.

    1) l’esistenza stessa di un simile dibattito

    2) il fatto che tale dibattito sia l’unico modo in cui l’italico medio percepisce la caduta della neve dal cielo

    3) l’appello alla Filosofia

    • corrado (qualc1) scrive:

      Capisco. Però per quel che riguarda i primi due punti non è colpa del giornalista e l’appello alla filosofia e puramente gergale.

      • Ritvan scrive:

        Concordo con corrado.

        P.S. Però, caro corrado, devi cercare di capire Miguel: per lui il giornalista italico, specie se di Repubblica, è la fonte di ogni male:-), ruolo che nell’ambito internazionale è riservato esclusivamente agli USA.

        • Peucezio scrive:

          Perché, non è vero?
          Esiste forse qualche categoria più dannosa?

        • Francesco scrive:

          x Peucezio

          ci sarebbero i sindacalisti, i presidenti delle province, gli intellettuali

          la lista dei ruoli socialmente dannosi è lunga

          ciao

        • Ritvan scrive:

          —Perché, non è vero? Esiste forse qualche categoria più dannosa? Peucezio—
          Ma come, hai dimenticato così presto i Perfidi Giudei??!!:-):-)

        • Peucezio scrive:

          Francesco:
          “ci sarebbero i sindacalisti, i presidenti delle province, gli intellettuali”

          Sì, ma fanno tutti meno danni dei giornalisti. Forse i magistrati sono perniciosi quanto i giornalisti.

          Ritvan:
          parlavo di professioni, non di etnie, comunque ci sono anche i giornalisti giudei 🙂
          Che, contrariamente a quanto potresti pensare, non mi sono tutti antipatici, per esempio Mentana mi sembra un buon giornalista, intellettualmente abbastanza onesto.

  5. maria scrive:

    E su queste tre righine ci sono ben 104 commenti!
    maria

  6. Francesco scrive:

    mode Prezzolato ON

    insomma, quanto odio! quanta acrimonia! quanta ostilità!

    è solo un modo di dire “prenderla con filosofia”

    come quando un giudice gli ha regalato 580 milioni di euro, loro li hanno presi con filosofia!

    mode Prezzolato OFF

    chi se ne frega della neva, il dramma è che il Milan con le grandi fa schifo e metà squadra è infortunata

    😀

  7. Moi scrive:

    A PROPOSITO DI NEVE …

    *** Riporto dal sito ComingSoon (che presenta anche film vecchi) “La Neve nel Bicchiere”, vecchio sceneggiato di Florestano Vancini del 1984 (“ficchscion” non si diceva ancora) tratto da un romanzo di Nerino Rossi ***

    _______________________________________________

    E’ la cronaca delle vicende di una famiglia contadina della “bassa” ferrarese dal 1898 al 1927: tre decenni e tre generazioni di creature, per le quali la povertà, lo scarso cibo, le malattie (pellagra e malaria), la dura fatica, i lutti (ma anche le semplici gioie) procedono in una con il lento trascorrere del tempo, il lavoro, la unità del nucleo familiare, i valori, gli affetti ed i ritmi conseguenti si inquadrano da prima nel volgere delle stagioni, poi, volta a volta, negli avvenimenti di più largo respiro e di diversa importanza: le prime lotte salariali dei braccianti e mezzadri, le prime Leghe, rosse e bianche, la Grande Guerra (che lascia anche nella “bassa” larghi e dolorosi vuoti, le prime manganellate di ispirazione agraria e di netta marca fascista. Capostipite è il vecchio Nullo, uomo onesto e lavoratore indefesso che morirà appoggiato alla sua falce tra le stoppie; dei figli suoi, è Venanzio a raccogliere il testimone, con il fratello Ligio (morirà appunto in guerra) e Medea, destinata anche lei a lavorare e a sfiorire, restando nubile; e poi la calda e solida Mariena, che dà a Venanzio due robusti ragazzi, oltre alla piccola Edvige, la quale perderà la sua innocente vita in un abbeveratoio sull’aia di casa. Dalla condizione piu’ umile e dura – quella di “scarriolanti” – la famiglia passa, poco dopo l’inizio del nuovo secolo, alla ambita qualifica di mezzadro del parroco del lontano paese, per arrivare infine – sempre dopo difficoltà, lavoro e dolori – all’incerto approdo cittadino di una Bologna fine anni Venti: con la sospirata acquisizione, per gli uomini, di piccoli posti e di modestissimi impieghi, ma anche con la perdita – per tutti – delle cose semplici e naturali e del senso di libertà della civiltà della terra, lasciata alle spalle, ma tuttavia non morta nella memoria degli anziani: con tutte le sue incognite, ma anche con il rassicurante ritmo delle stagioni ed i suoi riti tradizionali quanto irripetibili. Tutto è raccontato dalla voce fuori campo di un nipote di nonno Venanzio, ormai cittadino, nel ricordo nostalgico della nonna, che un giorno gli preparò la neve nel bicchiere insaporita dal rosso del vino della “saba”: ancora un piccolo rito contadino di una perduta condizione umana, dura, ma non infelice.

  8. Moi scrive:

    Indimenticabile per me anche la scena della vecchia nonna morente di pellagra, che “delira” di voler assaggiare un misterioso frutto esotico detto “portogallo” che da piccola vide degustare da parte dell’ allora coetanea “Figlia del Padrone” mentre lei ne faceva “al murbìn”* (il “capriccio”, il “voglino” dell’ infanzia) … poi si scopre che tale misterioso esotico frutto non era altro che una oggi (!) banalissima arancia !

    —-
    * Voce Ferrarese, in Bolognese è “murbén”.

    • PinoMamet scrive:

      Nei dialetti parmensi l’arancia è normalmente “al partugàl”
      (molti nomi di frutta e verdura sono un po’ strani, c’è un “sènnar” che dovrebbe essere credo il cetriolo, e una “bonièrba” che è il prezzemolo, oltre ai francesizzanti “articiòc” e “pom-da-tèrra”)

      • Peucezio scrive:

        Più o meno si dice “portogallo” nella maggior parte dell’Italia. Lo sapevo per il napoletano, alcuni dialetti della Capitanata e alcuni dialetti del nord, ma, guardando la relativa carta dell’AIS, si nota come tale forma sia diffusa in tutto il nord, escluso il nord-est, nell’Emilia settentrionale (ma non in quella appenninica, né in Romagna), sporadicamente in Umbria e Marche, più diffusamente nel lazio, in forma pressoché esclusiva in Abruzzo, Molise, Capitanata, Campania, Lucania, Calabria settentrionale, sporadicamente in Sicilia. Altrove si dice “arancia”, “marancia”, “narancia”, “melarancia”…

        • corrado (qualc1) scrive:

          In Siciliano è “partuvalla”, idem in Napoletano.
          Da qui il proverbio «Simmo tutte “partuvalle”», che indicherebbe una sorta di koiné meridionale, ma sbeffeggiato in un’antipatica e razzista barzelletta siciliana, in cui un carico di arance rosse di sicilia cade in mezzo al Golfo di Napoli e due stronzi galleggianti – trovandosi in mezzo alle arance – pronunciano questa frase.

      • Roberto scrive:

        In greco portokali

      • roberto scrive:

        e già che ci penso in olandese sinaasappel…

        • Ritvan scrive:

          In albanese la comune varietà dolce viene chiamata “portokalle”, mentre la varietà amara “naranx” (dove la “x” non si legge “ics” o “cs”, eh, bensì ha lo suono della “z” in “zio”)…Perfetta pav condicio:-).
          P.S. I siti specializzati sostengono che il nome “arancia” derivi addirittura dal sanscrito e che in tale lingua significhi più o meno “(frutto) gradito dagli elefanti”.

        • Peucezio scrive:

          “zio” con zeta sorda o sonora? Cioè quella corretta e toscana o quella che usano i milanesi?

        • Ritvan scrive:

          —“zio” con zeta sorda o sonora? Cioè quella corretta e toscana o quella che usano i milanesi? Peucezio—

          Mi spiego meglio: come la pronuncia della “z” in “zenzero”.

        • Moi scrive:

          “zio” con zeta sorda o sonora? Cioè quella corretta e toscana o quella che usano i milanesi?

          Peucezio

          _____
          A Bologna, per trascrivere con fonetica Albanese [v.di wikipedia, a parte Ritvan ovviamente …], si dice “lo xio” in Italiano e “al cio” in dialetto … chissà però perché.

          In realtà sono entrambe interdentali, perciò andrebbero trascritte con le rune aggiuntive dell’ alfabeto dell’ Islandese: Þ ; þ (come “THing” in Inglese) & Ð ; ð /(come faTHer in Inglese) …

          Però è anche vero che la copia minima essendo solo “sonora vs sorda” Daniele Vitali si è limitato a “z” semplice per la sorda e “ż” con puntino sopra per la sonora. Idem per “s” e “ṡ” senza e con puntino sopra.

        • Moi scrive:

          A volte (anzi, spesso) mi vien da pensare komplottistikamente 🙂 che l’ Italiano manchi di segni diacritici per permettere a chi di dovere di lucrarci sopra con la dizione. 😉 🙂

        • PinoMamet scrive:

          L’italiano manca di troppi segni diacritici per permettere a ognuno di pronunciarlo come cazzo gli pare… che è sempre una gran bella cosa!!
          😉

        • Moi scrive:

          In realtà per una buona dizione basta parlare come nei film e cartoni animati doppiati, meglio se vecchiotti. 😉

        • Peucezio scrive:

          Moi:
          “In realtà sono entrambe interdentali”

          Interdentali? a Bologna? Ma ne sei sicuro? A me risulta che semmai la pronuncia emiliana in genere delle alveo-dentali è molto arretrata, pienamente alveolare, quasi palatalizzata, tutt’altro che interdentale, che semmai è molto comune nel Veneto centrale.

  9. Moi scrive:

    Mmmh … tuttavia è indubbio che l’ odierno Calcio di Serie A svolga una funzione di “distrattore sociale” affine all’ antica Arena Gladiatorum .

  10. Miguel Martinez scrive:

    Per Peucezio

    “Più o meno si dice “portogallo” nella maggior parte dell’Italia. “

    Al mercato di Siracusa, si dice pattualla, al mercato di Alessandria d’Egitto si dice burtuqaal. Alla faccia di quelli che pensano che “arancia” sia un arabismo (eppure, lo è…).

    • Moi scrive:

      Una voce compilata in maniera davvero esaustiva:

      http://it.wikipedia.org/wiki/Citrus_%C3%97_sinensis

      C’è un po’ tutto quel che abbiamo detto, sì: anche “al burtuqaal” …
      Ma, soprattutto: e bravi gli Albanesi, popolo di botanici !

      Il nome scientifico si riferisce alla Cina … perciò, “a istinto”, direi il termine in Olandese “Mela della Cina” (?) è il ” più meglio ” 🙂 .

      PS

      @ Pino

      Forse non l’ ho specificato bene: il discorso inizialmente era anche già a fine Ottocento (!) perfino in campagna (!) era in atto una massiccia “toscanizzazione lessicale” dei “nostri” idiomi … il “tuo” è indubbiamente meglio “toscoresistente” 🙂 di tanti altri , mi chiedo il perché !
      … il “cum é-la ?” ! 😉 , visto che il “parché” andrebbe usato solo per rispondere.

    • Moi scrive:

      Forse bisognerebbe fare qualche distinguo sul concetto di “Arabismo”: cioè se parliamo di parola “araba pura” o di “versione arabizzata di una voce di altra origine”, visto che l’ Arabo è stato una lingua “veicolare” delle culture.

      Purtroppo però non è facile (che io sappia) trovare ricercatori filologici “obbiettivi” … la tendenza è _ tra eccessivo zelo pro Islam ed eccessivo astio anti Islam_ da un lato ad attribuire all’ “Arabo Puro” più del dovuto, dall’ altro ad attribuirgli invece meno del dovuto.

  11. Peucezio scrive:

    Ricordo che una volta, in una favola irpina che faceva parte di una raccolta motlo bella che trovai anni fa sul web, lessi a un certo punto “‘nu pere ‘e purtualle” e l’espressione mi lasciò un po’ interdetto. Poi, con un po’ d’intuito, capii che questo fantomatico “piede di Portogallo” altro non era che un albero di arance.

  12. ernesto scrive:

    Per Peucezio
    “Più o meno si dice “portogallo” nella maggior parte dell’Italia. sporadicamente in Umbria e Marche, più diffusamente nel lazio, in forma pressoché esclusiva in Abruzzo, Molise, Capitanata, Campania, Lucania, Calabria settentrionale, sporadicamente in Sicilia.”

    Anche nella parte centrale e meridionale della Calabria si usa lo stesso termine. In particolare a Catanzaro e provincia (con le differenze del caso) si dice “portuallu”, mentre a Reggio e provincia si dice “purtuallu”. Se non erro in greco si dovrebbe dire “portokàlos”, vista l’importanza della cultura greca in zona non potrebbe derivare da lì il termine?

    • PinoMamet scrive:

      Beh, visto che si chiama “portogallo” un po’ dappertutto in Italia, o c’è la stessa influenza greca ovunque, oppure i greci hanno preso il termine da dove l’abbiamo preso noi!

    • Peucezio scrive:

      Io comunque ho attinto dai dati dell’AIS, che sono un po’ da prendere con le molle, perché già allora il proponimento era di registrare il dialetto vivo e nojn quello arcaico, che è un altro modo di dire che, anche se il dialetto è corrotto o italianizzato, cioè di nessun interesse ai fini scientifici se non per un minimo di curiosità sociolinguistica, va bene comunque.
      E tali processi di corruzione e italianizzazione all’inizio del ‘900 erano molto meno avanzati di oggi, ma già fortemente operanti.
      Inoltre è noto il limite di questo tipo di opere: si ha uno o al massimo due informatori per località e si trascrive ciò che dicono, anche quando hanno esitazioni, sbagliano, confondono, sono davanti a un parlante (l’intervistatore) colto e che parla in lingua, quindi inevitabilmente si manifestano interferenze con l’italiano o comunque con registri e varietà che non sono quelli del loro parlato spontaneo e familiare.
      E tutto ciò malgrado la competenza di chi ha condotto le indagini (il Rohlfs per l’Italia meridionale, lo Scheuermeier per quella settentrionale e il Wagner per la Sardegna) e gli indubbi pregi e il valore generale dell’opera.

  13. Moi scrive:

    @ TUTTI

    Ma che voi sappiate, ci sono altre zone del mondo ove si faccia _ o almeno si sia fatto in passato_ un uso dolciario della neve ? … E’ una cosa che mi piace pensare come universale, nei limiti climatici ovviamente.

    • PinoMamet scrive:

      Sull’uso dolciario della neve non sono preparato
      (credo sia la lontana origine del gelato?)

      però la cosidetta “sapa” (che dovrebbe essere poi una roba romana antica citata da Virgilio, non ricordo dove) fatta con la neve mi suona nuova.
      Da queste parti la si faceva come sottoprodotto dell’uva torchiata, un sugo mi pare bollito e unito (penso) a farina.
      Me la offrivano a volte da piccolo e non mi è mai piaciuta particolarmente.

    • ernesto scrive:

      Quando la neve era ancora candida e non inquinata dai vari fumi tossici, la mia nonna preparava la “scirubbetta”. Praticamente faceva riempire una ciotola di neve e poi la “condiva” o con succo d’arancia o con vino cotto. Ti parlo della provincia di Catanzaro non so se altrove si usi . Parlandone con altri non ho mai trovato nessuno che conoscesse questa usanza. Ciao

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