Roberto Giammanco, un’esperienza americana

Ho già avuto  occasione di parlare di Roberto Giammanco, certamente la persona cui devo di più sul piano intellettuale.

L’altro giorno, mi ha mandato questo testo, in cui lui – toscano – racconta del suo primo impatto con gli Stati Uniti, negli anni Cinquanta.

ROBERTO GIAMMANCO

LINEA BIANCA, OLIO NERO

All’inizio degli anni ’50, in pieno maccartismo, ebbi la ventura di vincere una borsa di studio del programma Fulbright visto che al colloquio dimostrai di sapere l’inglese meglio di tutti gli altri concorrenti.

Il senatore democratico Fulbright era riuscito a far votare dal Congresso il suo programma di scambio tra studenti e laureati degli Stati Uniti e del Vecchio Continente finanziandolo con la vendita dei residuati bellici e con fondi stanziati dal governo americano. Una volta arrivati negli Stati Uniti, prima di presentarsi alle università cui erano stati assegnati, i borsisti europei dovevano frequentare per quattro settimane un corso di lezioni sulla democrazia: quella americana, naturalmente.

Io fui assegnato a Chapel Hill nello stato della North Carolina, considerata una delle migliori istituzioni universitarie del Sud proprio nel cuore di Dixieland, fiore all’occhiello della Confederacy. Arrivai con il treno fino a Durham, centro della produzione del tabacco, di quelle sigarette che per noi europei avevano fatto diventare mitici i nomi delle Chesterfield, Camel, Lucky Strike, Philip Morris. Da Durham dovevo prendere l’autobus per Chapel Hill. Fu allora che mi accorsi come funzionava il sistema dei “separate but equal”, sostituto della schiavitù in vigore da dopo il periodo della Ricostruzione (1865-1873).

La stazione ferroviaria di Durham era un lungo fabbricato, con due ali: una bianca, tutta tirata a lucido; l’altra grigia con cartelli a lettere enormi, nere, dipinte su tavole affumicate “COLORED”. Andai a curiosare. La sala d’aspetto per i negri era arredata con panche di legno consunto e nerastro; non c’erano cartelli pubblicitari e i tabelloni con l’orario dei treni pendevano sbilenchi dai muri scrostati e segnati da ditate e graffiature. Sulla destra c’era l’entrata delle “COLORED WASHROOMS”.

Sentivo che gli occhi di tutti erano su di me, e mi affrettai a ritornare nella zona bianca. Un ferroviere, negro come la maggior parte degli inservienti sui treni, mi guardò con aria interrogativa e mi chiese: “Are you looking for somebody?”. “No, grazie – gli risposi. – Sto solo aspettando di ritirare i miei bagagli per andare alla stazione degli autobus”.

“I am sorry, sir, but you are in the wrong direction: that’s not the area for white.

Follow me, I’ll get a porter for you”.

I facchini erano tutti negri. Indossavano una specie di uniforme militare con le spalline, e un copricapo fra il kepi francese e la bombetta. All’ingresso delle “WHITE WASHROOMS” c’era una fila di lustrascarpe, tutti vestiti in modo inappuntabile e tirati a lucido come lo erano le scarpe dei clienti. Dappertutto si respirava cortesia, deferenza, professionalità.

Alla stazione degli autobus, le stesse cose. Davanti al corpo centrale dell’edificio c’era una pensilina divisa a un certo punto in due in modo che, appena arrivava l’autobus, i passeggeri negri potessero entrare e sistemarsi nella parte posteriore del veicolo, dietro la linea bianca. Si saliva tutti davanti, ma lo sdoppiamento della pensilina faceva sì che le due file dei passeggeri non si confondessero né si ostacolassero a vicenda.

Una volta che i passeggeri negri furono tutti a bordo, fu la volta di noi “visi pallidi”. A quel punto l’autista e il bigliettaio si misero a scherzare con i nuovi arrivati intrecciando conversazioni diverse, dai risultati dei campionati di baseball a piccole vicende delle varie comunità di origine. Ogni tanto si sentivano battute bonariamente razziste, o qualche accenno in chiave patriottica e violentemente anticomunista ai “nostri ragazzi che combattono in Corea per la democrazia”. C’era anche chi teneva accesa una radio portatile, di quelle a pile, magari con un paio di borchie con l’effigie di personaggi di Walt Disney. Per quanto i passeggeri negri erano silenziosi o parlavano a bassa voce, i bianchi sghignazzavano e urlavano. Tra loro c’era il solito buontempone (freshguy) che raccontava barzellette demenziali e tautologiche che venivano chiamate “shaggy dog stories”.

Un esempio: “Ho veduto un leone che non era un leone”. “E allora, chi era?”. “Era la signora del leone, Mrs. Lion”. Un altro raccontava storielle piccanti, tra il volgare e l’allusivo. “Un tale sposa una donna cattolica alla vigilia della Quaresima, e la donna si rifiuta di consumare il matrimonio. L’ultimo giorno della Quaresima, lo sposo bussa alla porta della stanza della moglie. Con voce suadente, la donna dice: ‘Io so perché bussi alla porta…’. E l’uomo: ‘Ma tu non sai con che cosa busso!’ ”.

Io fui uno degli ultimi a salire e, visto che i posti davanti erano in gran parte occupati mentre due o tre file della parte posteriore erano vuote, mi sistemai al di là della linea bianca, un bianco tra i colored. L’autista non se ne era accorto, ma ben presto fu avvertito da un esagitato delle “shaggy stories” che gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, accompagnando le sue parole con un gesto di minaccia. L’autista si fermò a lato della strada, venne da me e mi invitò a cambiare posto e a sedermi fra i bianchi; con gentilezza, visto che aveva capito che ero straniero. A quei tempi, poi, noi italiani indossavamo abiti molto eleganti rispetto ai “bragoni” americani; e per di più io portavo i capelli lunghi, mentre i maschi americani erano rapati alla maniera militare. Risposi che stavo andando all’Università, che ero cittadino italiano, e che non vedevo perché non potessi sedermi dove preferivo. L’autista, sostenuto dal brusio di consensi che veniva dalle file dei bianchi, alzò la voce e, rosso di rabbia, mi comunicò che mi avrebbe portato dallo sceriffo della contea.

E così fu. Dopo una buona mezzora, sotto il fuoco di fila degli sguardi di disprezzo e di odio dei bianchi che, a turno, silenziosi si voltavano verso di me, l’autista mi invitò a scendere. Proprio sotto il predellino c’era ad aspettare lo sceriffo, una specie di copia conforme dei western in voga in quel periodo: “Shane, il cavaliere della valle solitaria” con Alan Ladd, e il mitico “High Noon” con Gary Cooper. Alto, spalle larghe, cinturone con pistola, cartucce, manette, mazzi di chiavi, cappello texano, stella lucente al petto fu assai gentile e per evitare di farmi la multa, visto che avevo l’alibi dello straniero, mi accompagnò lui stesso all’Università a sirene spiegate.

Durante il tragitto non disse una parola, ma all’arrivo si rivolse a me con un ghigno: “Spero che per lei sia stata una buona lezione sulla law of the land. La prossima volta potrebbe essere veramente una cosa molto grave (Next time it could be really bad)”.

All’Università fui ricevuto con gentilezza burocratica e mi assegnarono una camera nel dormitorio del campus. L’altro occupante era un ragazzo dell’Alabama, taciturno e sempre serio che mi domandò subito notizie sull’Europa. Si preoccupava che gli europei non si rendessero completamente conto dell’imminenza di una invasione comunista.

Quel ragazzo dai capelli rossicci che tradivano l’antica origine scozzese dichiarava di essere un confederate e se non fosse stato per la guerra fredda e i complotti degli americani comunisti attori di Hollywood e “teste d’uovo”, intellettuali marxisti, sarebbe stato pronto a mettere a posto “these damned yankees”. Mi tenne fino alle due di notte a parlarmi della Confederacy, dei suoi valorosi generali, e di come il Sud aveva dovuto combattere contro i  carpet baggers, politici e affaristi del Nord che dopo la sconfitta avevano rapinato gli Stati del Sud creando governi fantoccio presieduti da negri. Esaltava la resistenza all’abolizione della segregazione razziale che, secondo lui, veniva imposta dai comunisti. Per questi il mio compagno di camera aveva una drastica ricetta: “Vanno eliminati, e lo stesso vale per i niggers , se non imparano a stare al loro posto”.

Nei giorni successivi, per convincermi meglio, mi regalò due volumi rilegati della History of the Confederacy del presidente Jefferson Davis. Fu per me un testo fondamentale per cominciare a capire che la guerra di secessione era stata un conflitto di natura economica che le élites del Sud avevano mascherato sotto la minaccia dell’abolizione della schiavitù e la pretesa di una superiorità culturale e morale sulle élites del Nord. In fondo, si era trattato di due modi diversi per far funzionare i meccanismi del profitto e dello sfruttamento della manodopera e delle risorse naturali. Ma a che prezzo! La guerra tra l’aggressivo capitalismo del Nord e l’economia della piantagione degli Stati del Sud costò più di seicentomila morti, un milione di feriti e mutilati, e la distruzione di gran parte degli stati che si erano uniti sotto la bandiera della Confederacy.

Al Nord la febbrile industrializzazione degli Stati dell’Unione era alimentata da una manodopera di immigrati dall’Europa che lavoravano in condizioni semi-servili. Negli Stati del Sud, dopo la fine dell’occupazione militare fra il 1873 e il 1875, l’élite tornata al potere ebbe come fonte di approvvigionamento della manodopera gli ex schiavi, divenuti braccianti in cerca di lavoro a qualsiasi condizione. Sopra di essi c’erano i bianchi poveri, che i nordisti chiamavano

white

trash

, spazzatura bianca, che trovavano nella segregazione la conferma della superiorità del loro colore della pelle. Nacque così il Ku-Klux-Klan che con le sue cavalcate, le sue croci ardenti e i continui linciaggi tenne a bada i negri come desiderava il mio compagno di camera, il quale aveva esposto a capo del letto una grande bandiera della Confederacy.

Chi legge questo mio ricordo dovrà tener conto che ci vorranno altri cinque anni perché cominci in tutta la Repubblica un movimento, prima episodico e poi coordinato, per i diritti civili. Il 1° dicembre 1955 una domestica di Montgomery nell’Alabama, di nome Rosa Parks, esausta da una lunga giornata di lavoro si rifiutò di cedere il suo posto sull’auto a un bianco. “Mi fanno troppo male i piedi, e resto a sedere”. Fu per merito suo che la stampa nazionale cominciò a occuparsi dei negri “che non stavano al loro posto”.

Ma torniamo a Chapel Hill. Il giorno dopo il mio arrivo e la lunga notte celebrativa della Confederacy cui mi aveva sottoposto il mio compagno di camera, fui invitato a passare dall’ufficio del rettore dell’Università. Mi ricevette un segretario che mi condusse attraverso l’ala del rettorato – tutta di stile prettamente inglese, con le pareti foderate di legno e vecchie stampe del periodo coloniale – allo studio del rettore.

Mi venne incontro il classico tipo del vero gentleman inglese: l’élite del Sud era tutta di origine britannica, e deteneva il titolo di una raffinata aristocrazia dedita ad attività culturali e garantita da una grande ricchezza e dal mito del paternalismo nei confronti degli schiavi. È l’immagine che viene presentata in versione dolciastra da fotoromanzo nel più grande successo di tutti i tempi, il film

Via col vento

, che fece piangere intere generazioni in tutto il mondo.

Alto, magro, elegantissimo, il rettore si muoveva lentamente e mi tese la mano con un lieve sorriso di cortesia sulle labbra. La nostra conversazione cominciò con i suoi ricordi della Toscana e di Firenze e mi confessò di essere un grande ammiratore del Rinascimento italiano e uno studioso dei suoi rapporti con la cultura elisabettiana. Infatti, come scoprii di lì a poco, il rettore era una autorità internazionale sulla letteratura inglese e su Shakespeare. Poi mi dette ancora una volta il benvenuto dicendo che era molto dispiaciuto di quanto era successo al mio arrivo.

Lei viene dall’Italia, e non si può pretendere che conosca le vere ragioni dei nostri problemi. Al Nord i negri possono votare e circolare liberamente nelle città, ma sono limitati in forme diverse da quelle istituzionalizzate qui da noi. Ogni città del Nord ha un ghetto nero, e rari sono i casi di miscuglio urbano. Del resto, negli Stati Uniti, tutte le minoranze tendono a vivere in zone più o meno separate.

Qui da noi abbiamo posto fine alle difficoltà del passato con la politica del

separate, but equal

. Stabiliamo con chiarezza i confini tra la nostra cultura e le altre: non contrasto, ma una ragionevole sistemazione qui ed ora. D’altra parte i neri americani non sono ancora pronti per diventare cittadini a tutti gli effetti. Per secoli a partire dal 1619, quando arrivarono i primi schiavi nel Nuovo Mondo, non hanno potuto usufruire di condizioni favorevoli alla alfabetizzazione e all’acquisizione di proprietà che garantiscono l’unità familiare e la presenza comunitaria.

I Padri Fondatori della nostra Repubblica avevano ben capito che i negri sono come i bambini: devono essere guidati e tenuti a freno, se necessario, per impedir loro di scatenare l’aggressività e l’eccesso di desiderio sessuale, particolarmente nei confronti della donna bianca. Siamo consapevoli delle loro difficoltà e per questo vogliamo aiutarli in un cammino che sarà molto lungo verso l’emancipazione, prima di tutto da se stessi. Qui da noi i negri hanno le loro scuole, le loro chiese, i loro campi sportivi, i loro ospedali, le loro zone residenziali: insomma un duplicato di quello che abbiamo noi. Spetta a loro farne buon uso e migliorarsi socialmente e moralmente. Comunque bisogna riconoscere che dalla Ricostruzione del 1873 ci sono stati eccessi da una parte e dall’altra. Questi eccessi nascevano dal fatto che i cittadini bianchi meno abbienti si sentivano gli eredi e i difensori della tradizione.”

A questo, punto ricordo con chiarezza, il rettore si fermò e per alcuni secondi rimase come imbarazzato; ma, una volta accesa la pipa, riprese: “Mi riferisco alla spiacevole (

unpleasent

) pratica del linciaggio, di cui però non furono vittime solo i negri: coinvolse anche un notevole numero di bianchi stranieri e criminali comuni. Sicuramente lei ignora che nel 1891 a New Orleans furono linciati quattordici italiani, suoi compatrioti, accusati di essere anarchici. La stessa cosa accadde in altre località dell’Est”.

Da quel suo monologo emergevano due cose fondamentali: l’istituzionalizzazione dell’inferiorità dei negri con tutte le sue necessarie conseguenze e l’abisso tra la classe dominante bianca e la confusa palude del White Trash, i bianchi poveri e ignoranti. Le classi bianche, poveri e ricchi, erano tenuti assieme dalla segregazione razziale.

Queste cose il rettore me le diceva apertamente, tanto era sicuro della mia complicità da rendersi ai miei occhi ammirevole. Ne risultava che la Repubblica americana era l’unico valido modello di democrazia, consapevole del proprio destino, quello che i suoi storici hanno chiamato Destino Manifesto.

Nel salutarmi con squisita cortesia mi strinse la mano e mi disse, testualmente: ”Voi europei ricordatevi sempre che vi abbiamo liberato dai nazisti e che ora vi difendiamo dalla minaccia del comunismo, che è molto più pericoloso e potente di quelli. Per difenderci dobbiamo essere pronti a tutto”. Non disse, devo dargliene atto, “pronti anche alla guerra nucleare”.

Eppure eravamo nel pieno dell’atomic scare, un gigantesco affare commerciale e uno strumento per perpetuare il terrore. Massicci investimenti erano stati subito assicurati alla nuova, colossale industria della sopravvivenza; al tempo stesso, si cercò di mitigare l’impressione che solo i ricchi potevano costruirsi rifugi adeguati. Il “New York Times” ospitava annunci pubblicitari per strutture antiatomiche familiari dai ventimila ai centomila dollari in su. Un decennio dopo il presidente Kennedy tranquillizzerà i cittadini annunciando che si poteva costruire un riparo contro il fallout: uno scudo (shielding), e non un rifugio (shelter).

Ma l’aspetto più grottesco di questa ondata di follia collettiva fu la disputa teologica sulla sopravvivenza. Il 30 settembre 1961 il padre I.C. McHughes pubblicò sulla più autorevole rivista cattolica degli Stati Uniti, «America», un articolo in cui definiva i “problemi morali” che si pongono sulla soglia del rifugio antiatomico. Per esempio: “Se i nostri vicini tentassero di ripararsi nel rifugio che basta a garantire la sopravvivenza della nostra famiglia, sarebbe lecito sparare su di loro?”. Oppure: “Sarebbe lecito gettar fuori gli invalidi e i meno utili, per consentire ai più giovani di vivere qualche giorno di più?”. Oppure: “Se qualcuno, dopo l’attacco atomico, battesse alla porta del rifugio e chiedesse di esservi accolto sarebbe lecito non aprire, se ciò fosse indispensabile per non fiaccare il morale di chi è già dentro?”.

Il reverendo McHughes rispondeva che “in nessun luogo della tradizione morale cattolica si legge che Cristo… abbia escluso il diritto all’autodifesa”. E continuava: “Ritengo insensato affermare che l’etica cristiana imponga, o anche solo permetta, di esporre la propria famiglia al fallout per lasciar entrare nel rifugio dei vicini sprovveduti ”. In questo contesto, sprovveduti sta ovviamente ad indicare coloro che non avevano il denaro per costruirsi un rifugio atomico. “E se qualcuno – anche se si fosse trattato di aggressori terrorizzati – cercasse di forzare la porta, il proprietario legittimo del rifugio era autorizzato a servirsi di tutti i mezzi a sua disposizione per respingerli.”

La lezione che il rettore mi aveva impartito era stata perfetta. Tutto aveva il suo posto: l’immagine di una identità morale per le lotte contro il comunismo e quella della politica separate, but equal erano ottimiste ed equilibrate. La Repubblica era l’umano costretto, se necessario, ad imporre al disumano le sue regole con la bomba atomica, o con l’apartheid e il linciaggio.

Qualche tempo dopo ricorreva una festa nazionale e in quel lungo weekend gli studenti sarebbero andati tutti a casa. Nel campus, si prevedeva, non ci sarebbero rimasti che i guardiani. Avevo fatto amicizia con un laureando in letteratura inglese, un liberal della Pennsylvania. Eravamo diventati amici sulla base del nostro sdegno per il razzismo imperante, ironizzavamo amaramente sull’atomic scare e sugli aspetti più grotteschi della segregazione razziale. Insomma, su quello che i radical definivano “fascismo americano”. Con la maggior parte degli altri era difficile e anche pericoloso criticare il sistema sociale o, ancora di più, la politica degli Stati Uniti. I più appartenevano a quella che sarà poi chiamata the silent generation.

George mi invitò a passare il weekend dai suoi genitori in Pennsylvania. Partimmo di sera tardi per poter arrivare la mattina dopo e non perdere il concerto della grande clavicembalista Wanda Landowska. Anche George aveva studiato musica, e questo era un altro punto in comune tra di noi. Sulle grandi autostrade del Sud-Est la notte apparteneva ai grandi camion Mack, White o GM, coperti da luci di posizione che, ad ogni passaggio, davano l’impressione di correre a fianco di una tuonante striscia di fuoco.

Eravamo arrivati al confine dello stato della Pennsylvania quando decidemmo di fermarci in un’area di servizio per mangiare qualcosa. Saranno state le tre del mattino quando entrammo in una di quelle grandi luncheonette che nello slang popolare erano chiamate greasy spoon, a causa della scarsa pulizia dei banconi e delle sedie, per non parlare poi degli altri servizi. Seduti sugli sgabelli del bancone c’erano tre o quattro camionisti, mentre altri si erano accomodati ai tavolini, alcuni addirittura con i piedi sul ripiano. Erano uomini enormi e portavano stivaletti in cui era infilata una grossa chiave inglese. Avevano i capelli tagliati a zero, alla militare e tatuaggi sulle braccia, quasi tutti con gli stemmi del US Marine Corps. Urlavano, sghignazzavano, si davano pacche sulle spalle; a turno, alcuni facevano il braccio di ferro tra l’entusiasmo degli altri, mentre uno di loro raccoglieva i soldi delle puntate.

George ed io andammo subito al bancone ad ordinare wurstel, patate e coca-cola; poi ci sedemmo a un tavolo all’angolo della grande sala. I camionisti non ci degnarono di uno sguardo. Solo uno di loro ci disse: “So you are students on vacation… Okay, good mama’s boys…”. Più che del disprezzo e dell’invidia, il tono era quello della superiorità fisica di quei giganti tatuati rispetto a noi pallidi e compiti “signorini”.

Due cameriere di mezza età servivano al bancone e partecipavano alle sghignazzate e a un linguaggio fatto di oscenità proprio nei loro confronti: i camionisti rendevano bene. Ogni tanto una delle due spariva nelle toilettes con uno di loro che, al ritorno, diceva: “Only ten dollars for a quick!”. Poi toccava ad un altro.

A un certo momento si aprì la porta e fece il suo ingresso un negro. Era di media statura, intorno alla trentina, ed era infagottato in una tuta da camionista. In testa aveva un berretto con la pubblicità di un olio per motori, e alla cintura teneva un mazzo di chiavi. Il nuovo arrivato si avvicinò – verrebbe da dire con passo furtivo – alla parte libera del bancone, e senza togliersi il berretto restò in attesa della cameriera.

D’improvviso, dal gruppo dei camionisti si staccò uno dei più grossi che si rivolse a voce alta al negro: “Ehi tu, nigger, non saluti tutti questi signori? Lo sai che devi toglierti il berretto, e chiedere il permesso di sederti chiamandomi sir?”. Una delle cameriere cercò di dire qualcosa forse per evitare il peggio, visto che gli altri camionisti stavano rivolgendo la loro attenzione alla scena.

“Vuoi mangiare? E lo vuoi fare senza il nostro permesso? Lo vedi come sei sporco… Ragazzi, avete visto che questa scimmia nera viene qui senza neppure lavarsi? E allora, lo laviamo noi: siete d’accordo?”. Sul bancone c’erano dei contenitori trasparenti con le famose “torte bianche”, proprio quelle che nei film comici vengono spiaccicate in faccia al perseguitato di turno. Il camionista, che sentimmo chiamare Ray – me lo ricordo ancora – prese una di quelle torte e la tenne in equilibrio mentre tutti gli altri ridevano a crepapelle. A un tratto, un secondo camionista gli si avvicinò e gli disse: “Ma come fai a centrarlo da questa posizione? Aspetta, ti aiuto io”. Dal nostro angolo vedevamo la faccia del negro: tremava, ed era diventato grigio.

Il secondo energumeno lo sollevò e lo mise a sedere sul bancone. Fu allora che il primo gli spiaccicò in faccia la torta fra le risate di tutti, comprese le cameriere. Ma non era finita. Il gruppo circondò il negro, sempre seduto sul bancone; ci fu chi gli domandò cosa facesse lì a quell’ora, come c’era arrivato, e tante altre cose che non si capivano in quel tumulto ormai generalizzato.

George ed io eravamo indignati e disgustati di fronte a quella realtà distante ottanta miglia da Philadelphia, la città dell’amore fraterno, della campana della libertà e della non segregazione razziale. Ci guardammo negli occhi e tacitamente concordammo di non intervenire, in nessun modo, perché sicuramente ci avrebbero massacrati. Ben diffuso era l’odio non solo per il colore della pelle, ma per gli intellettuali considerati un-american e nigger-lovers. La Repubblica erano loro, i custodi e gestori della sua violenza e del suo odio di classe e di razza.

Al culmine di questo trambusto, uno dei camionisti uscì e dopo pochi minuti rientrò correndo. “Il nigger raccoglie l’olio usato, nero come lui, e ne ha diversi fusti sul camioncino. Che dite: gli facciamo fare un bagno?”. Sollevarono il poveraccio che sembrava un grosso pupazzo, tanto si era abbandonato al terrore, e lo portarono fuori.

Appena il gruppo rientrò nella sala, George ed io ci alzammo senza aver neppure toccato i piatti che avevamo ordinato e pagato. Nessuno si curò di noi: erano troppo occupati a ridere a crepapelle e a darsi manate sulle spalle.

Una volta fuori nel parcheggio vedemmo il negro che, grondante di olio nero dalla vita in giù, era uscito da uno dei suoi fusti di olio usato. Ci avvicinammo a quel grottesco fantasma e gli offrimmo un paio di asciugamani e qualche straccio che tenevamo in macchina. Il negro si pulì il viso e non disse nulla: tremava e piangeva.

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40 risposte a Roberto Giammanco, un’esperienza americana

  1. MartinV scrive:

    Innanzi tutto grazie per aver condiviso questa magnifica testimoninza…

    C’è pero’ da dire che oggi gli USA sono molto diversi… hanno persino un bravissimo attore nero ad impersonare Mr. President… senza pensare che la stessa carica è stata più volte ricoperta da persone portatrici di pesanti handicap mentali… R. Reagan, G.W. Bush tanto per fare un esempio…

  2. Claudio Martini scrive:

    Camionisti ulsteriani?

  3. Athanasius scrive:

    Forse la differenza principale fra gli Stati Uniti di un tempo e gli Stati Uniti di oggi consiste nel fatto che oggi ci sono nell’ America anche WASP abbronzati? Come il presidente Obama.

  4. A scrive:

    grazie per la preziosa testimonianza di un periodo storico che penso un po’ tutti si augurino essere superato.

    • Peucezio scrive:

      Mah, superata la forma, non la sostanza.
      Mi ci sciacquo le cosiddette del fatto che i diritti civili vengano proclamati con tono a volte isterico e il politicamente corretto sia diventato una religione, se poi i negri (quelli veri, non il mulatto keniota della Casa Bianca) continuano ad essere i più poveri, a riempire le galere, a non contare niente.
      Come al solito gli anglosassoni sono molto bravi nell’impacchettare una cosa dentro un involucro che la fa sembrare l’opposto di quella che è.

  5. Buleghin il vecio scrive:

    America vaffanculo!

    • Francesco scrive:

      Grazie per aver sintetizzato decenni di “studi” e milioni di pagine in due parole.
      Ella meriterebbe il Nobel

      • Buleghin il vecio scrive:

        Grasie per il riconosimento!

        Il Buleghin xè un sintetico ciò! Anca se prima ghà dovuto far una atenta analisi de la storia dei porcon mericani!

        Par esempio nel 1861 il costo di uno sciavo negro xerà di 1 dollaro al giorno mentre il costo de un imigrato desgrasià da la uropa xera di 0,80 dolari al giorno!

        Probabilmente i sciavi neri prendeva qualche frustà sul dedrio de più dei imigra da la urop ma sicuramente magnava tuti i giorni!

        Adeso che xè presidente questa specie di negreto stile sio Tom voglion tornar a magnar tuti giorni ma quel fiol d’un can de meso negreto se meso dacordo con le banche e ci toglie dal piato anca l’hambuger!

        O tempora o mores

        • Francesco scrive:

          parla un veneziano di disobbedire alle banche.

          qui manca il pudore!

          PS c’era un mercato degli schiavi negri come c’è quello del petrolio? e quale era il negro di riferimento? e quanto costava un “apprendista” italiano di 10 anni, nel 1861?

        • Il suo discorso è: per mantenere uno schiavo dovevi pagare 1 dollaro al giorno (cibo, tetto, ecc), mentre il salario minimo era di 80 centesimi.
          Mi convince poco per una serie di ragioni.
          La prima è che in ogni caso entrambi gli uomini (schiavo e lavoratore) dovevano poter disporre del necessario per sopravvivere (altrimenti addio lavoratore e addio sfruttamento!), dunque se il costo minimo dei beni e dei servizi di prima necessità (pane, acqua, abiti e tetto) per lo schiavo era di 1, allora doveva esserlo anche per il libero. Se, invece, il libero poteva essere mantenuto con 0,80, allora anche lo schiavista si sarebbe potuto permettere un risparmio del 20% sui fattori produttivi 😉
          Evidentemente i due conti sono stati fatti su piazza diverse: mantenersi al sud, dove non c’era stata l’industrializzazione, costava di più che al nord, dunque il dipendente nel New England poteva percepire di meno perché comunque la prima produzione di massa riusciva a fornirgli l’essenziale ad un costo inferiore.

          La principale ragione del vantaggio di avere operai liberi piuttosto che schiavi è la maggiore flessibilità: il libero lo licenzi e te ne puoi dimenticare, lo schiavo lo devi mantenere qualunque sia l’andamento dell’impresa e qualunque sia la sua produttività.

        • Ritvan scrive:

          —La principale ragione del vantaggio di avere operai liberi piuttosto che schiavi è la maggiore flessibilità: il libero lo licenzi e te ne puoi dimenticare, lo schiavo lo devi mantenere qualunque sia l’andamento dell’impresa e qualunque sia la sua produttività. Mauricius Tarvisii–
          Dici che se te ne sbarazzavi vendendolo – anche “sottocosto”:-) – lo schiavo “improduttivo” il sindacato degli schiavi piantava grane?:-)
          Per non parlare poi del fatto che se nessuno lo voleva comprare gli poteva sempre capitare:-) un “incidente sul lavoro”…o dici che gli ispettori del Ministero del Lavoro avrebbero poi indagato a fondo sul rispetto delle misure di sicurezza sul lavoro nella piantagione?:-)
          P.S. Parlando seriamente, se agli schiavisti del Sud fosse convenuto – e avranno avuto anche loro uno straccio di ragioniere che sapesse far du conti, cribbio! – avere dei salariati al posto degli schiavi avrebbero potuto risparmiarsi quel popò di guerra civile…e poi io credo che qui si stia applicando un po’ troppo ed esclusivamente il criterio “marxista”, ovvero strettamente economico, senza tener conto di altri fattori come la tradizione (“mio nonno aveva gli schiavi, perché io non dovrei averli?”) e la brutta abitudine umana di comandare a bacchetta il prossimo senza lasciargli alcuno scampo per spiegare l’attaccamento dei sudisti all’abominevole pratica.

        • Sì, Ritvan, la convenienza di cui parlo, ovviamente, riguardava gli industriali del Nord (parlavo di operai e non di braccianti, infatti), che avevano a che fare con una produzione e una domanda di tipo variabile, e non i piantatori del Sud che godevano della maggiore regolarità della produzione agricola (il campo, salvo eventi eccezionali, produce sempre più o meno la stessa quantità di frutti).
          Vendere si poteva, ma serviva qualcuno che comprasse (e in tempi di crisi economica, ci sarebbe stato un numero di schiavi in esubero inassorbibile) e centinaia di infortunii sul lavoro nel periodo della chiusura di una grande fabbrica sono più scomodi di un licenziamento collettivo.

          Possibile che si stia applicando troppo il criterio marxista: la storiografia economica anglosassone è abbastanza influenzata dall’ossessione marxista dell’analisi degli aspetti economici delle vicende storiche.
          In realtà credo che avessero più ragione gli annalisti (francesi) che davano pari rilievo agli aspetti meramente produttivi e a quelli culturali, che si influenzano a vicenda.

  6. roberto scrive:

    essere passati in appena un paio di generazioni da questa situazione ad eleggere un presidente nero è veramente straordinario

  7. Francesco scrive:

    Interessante e ben scritto.

    Hai niente sulle abitudini sessuali degli Hittiti?

    🙁

    • astabada scrive:

      Non ho capito bene la tua critica al post, pero` gli Hittiti avevano abitudini sessuali molto interessanti.

      Esisitevano ad esempio delle leggi scritte (tra le piu` antiche al mondo) dove si regolavano i rapporti sessuali tra uomini ed animali.

      Purtroppo non ho il testo di riferimento al mio fianco: quando sono emigrato non ho pensato (erroneamente, a questo punto) che avrei avuto bisogno di consultarlo.
      Si parla (per dare un’idea) di rapporti “accettati” di un maiale con un uomo, ed altri “sanzionati”, ad esempio con la morte quello tra un uomo e un toro.
      C’erano anche casi di chiara discriminazione, in cui se era l’animale a svolgere il ruolo attivo era prevista una certa pena, un’altra a parti invertite.

      Non ti facevo un amante degli Hittiti, da porre certe domande.

      • PinoMamet scrive:

        Grazie Astabada!
        Devo dire che non credevo gli Hittiti avessero delle abitudini così interessanti… comunque ho controllato su Wikipedia in inglese e pare che almeno nel “Code of Nesilim” (scrivo in ingglese perché non so se in italiano sia noto con un altro nome) i rapporti con cani e maiali fossero proibiti, con cavalli e muli permessi
        (ma ci sono altri codici); questo per quanto riguarda la bestialità;

        invece sui rapporti extramatrimoniali, o su quelli tra liberi e schiavi (sia libero e schiava che viceversa) gli Hittiti avevano idee piuttosto tolleranti.

        A prima vista è tutta roba abbastanza simile a quella che si trova nella Bibbia, comunque.

        Ciao!!

      • Francesco scrive:

        Critica? che critica?

        🙂

  8. Antonio Coda scrive:

    Vividezza e peculiarità, questa testimonianza ha una resa letteraria di gran pregio.

    Io non so quale sia adesso il livello del rispetto e della civiltà delle greasy spoon oggi in America, so però che il tasso di violenza nei bar notturni in Italia spesso è frequentato da individui che non si accontentano di provocare umiliazioni per appagare la propria goliardia da cerebrolesi.

    La violenza fisica diventa sempre più il linguaggio corrente di chiunque vuole stare sulla scena e non solo lo sfogo di chi non sa ammettere a se stesso le sue impotenze civile e culturali.

    Un saluto!
    Antonio Coda

  9. Marcello Teofilatto scrive:

    Allora, ricapitoliamo. Giammanco è considerato un “cattivo maestro” da prestigiosi intellettuali del calibro di Massimo Teodori (devo mettere le faccine, Ritvan, o si capisce che la frase è ironica?).
    Ha curato l’autobiografia di Malcolm X, della quale esistono due versioni, Einaudi e Rizzoli. Solo in quella Einaudi c’è un suo importante saggio introduttivo. Indovinate quale delle due edizioni è esaurita.
    Sempre a proposito di Malcolm X, il libro su di lui è l’unico testo di Giammanco attualmente disponibile (almeno secondo Ibs, Libreria Universitaria e Amazon.it).
    Non c’è che dire: se mai c’è stata un’egemonia culturale della sinistra, ho idea che sia scomparsa da un pezzo.
    Un saluto da Marcello Teofilatto

  10. Ritvan scrive:

    —Giammanco è considerato un “cattivo maestro” da prestigiosi intellettuali del calibro di Massimo Teodori (devo mettere le faccine, Ritvan, o si capisce che la frase è ironica?). Marcello Teofilatto—
    Beh, non si capisce bene:-) se la tua “ironia” voglia significare che in realtà Giammanco non è considerato affatto un “cattivo maestro” da chicchessia oppure se è applicata esclusivamente alla definizione “prestigiosi intellettuali del calibro di Massimo Teodori”…sai mica siamo obbligati a sapere in che considerazione tu tenga in realtà il Teodori, eh!:-). Ecco, nel caso tu – per ragioni di cui non devi render conto a nessuno -non abbia esattamente un’opinione lusinghiera del livello intellettuale del Teodori, Ritvan ‘O Dispensatore Di Faccine Buffe:-) ti consiglia poco umilmente:-) di metterne una (o più, a tua discrezione) dopo “prestigiosi intellettuali”.
    Cuntent?:-)

    • Marcello Teofilatto scrive:

      Poi non dire che non ti voglio bene:
      Versione 1, senza faccine ma con virgolette:
      “prestigiosi” intellettuali del calibro di Massimo Teodori.
      Versione 2, ancora senza faccine ma con punto interrogativo:
      prestigiosi (?) intellettuali del calibro di Massimo Teodori.
      Variazione:
      prestigiosi intellettuali (?) del calibro di Massimo Teodori.
      Variazione 2, lievemente ritvaniana:
      prestigiosi intellettuali (segno a piacere) del kalibro di Massimo Teodori.
      Spero che ora il livello di considerazione che ho di Teodori sia sufficientemente chiaro 🙂 (oops, mi è scappato).
      Un saluto da Marcello Teofilatto

      • Ritvan scrive:

        —Poi non dire che non ti voglio bene:Marcello Teofilatto—
        Sì, quasi quanto ne vuoi a Teodori:-)

        —Versione 1, senza faccine ma con virgolette:
        “prestigiosi” intellettuali del calibro di Massimo Teodori.—
        Si, il “prestigiosi” viene mandato in vacca:-), ma resta sempre serio il “intellettuali”…o che tu mi fai, mi lasci la qualifica di intellettuale a Teodori??!!Vade retro, eretico und scismatico!:-)

        —Versione 2, ancora senza faccine ma con punto interrogativo:
        prestigiosi (?) intellettuali del calibro di Massimo Teodori.—
        Punto interrogativo?! Ovvero dubbio. Ma su Teodori – come su tutto il resto sotto questo cielo – dovresti avere solo granitiche certezze, infedele e miscredente che non sei altro!:-)

        —Variazione:
        prestigiosi intellettuali (?) del calibro di Massimo Teodori.—
        Idem come sopra, con patate:-)

        —Variazione 2, lievemente ritvaniana:
        prestigiosi intellettuali (segno a piacere) del kalibro di Massimo Teodori.—
        “Ritvaniana” ‘n par de ciufoli, se permetti: il segno non è “a piacere”…ah, se per “ritvaniana” intendi la “k” al posto della “c”, allora d’accordo:-)

        —-Spero che ora il livello di considerazione che ho di Teodori sia sufficientemente chiaro (oops, mi è scappato).—
        A me resta ancora qualche dubbio in merito:-):-)

        Ciao

  11. Peucezio scrive:

    “prestigiosi intellettuali del calibro di Massimo Teodori”

    Direi che l’ironia è in re. Indipendentemente dall’intenzione di chi la scrive, un’espressione simile è intrinsecamente ironica.

  12. maria scrive:

    Di Giammanco ricordo anche Blak Power, pubblicato da Laterza nel 1967, un libro splendido che fa parte certamente della mia cultura politica.
    Quando si ricorda Massimo Teodori non c’è bisogno di disegnini più o meno qualitativi o ironici, chi sia lo sanno tutti:-)
    maria

  13. Mondo cane scrive:

    Nonostante gli sganascianti commenti, trovo che la leggerezza con la quale vengono ancora appellati gli afroamericani sia disgustosa! Consiglio, a coloro che usano ancora le espressioni negro o mulatto (mulatto può andare bene solo per gli animali da soma), di andare in america, magari in qualche ghetto per vedere l’effetto che fà.
    Obama, non ha niente della cultura afroamericana. E’ solo un bianco, per cultura, solo più scuro. Ovviamente per coloro che si sono limitati alla sua esteriotà, sopratutto gli afroamricani, queste cose non hanno avuto peso. E il tonfo del sogno infranto, per la minima giustizia sociale, è stato fragoroso. Quando si è trattato di scegliere tra gli interessi delle elite e quelli della povera gente, tutta, si è visto l’ago da quale parte è andato. Certo si può credere che siano stati i repubblicani ad impedire che obama lavorasse (mi ricorda qualcosa!), ma credo che siano stati i soliti interessi (bipartisan che diamine!) ad impedirlo.

  14. Sc scrive:

    La parola negro viene dal latino e significa nero. Non ha alcun connotato razzista, se non quello importato dall’america. Infatti si utilizza nella lingua spagnola. Cambiare il nome alle cose é solo debolezza culturale. Invece di perdere tempo ad importare sensi di colpa stranieri si potrebbe parlare di quello che abbiamo fatto noi ai “negri” , in libia, in etiopia ecc e di quello che stiamo facendo con questi cpt, che sono centri di concentramento, con le stragi in mare. Altro che america vaffanculo, italia vaffanculo!!

    • Mondo cane scrive:

      Trincerarsi dietro l’etimologia non credo serva a molto, e non cambia la sostanza. Resta il fatto che quando qualcuno vuole offendere un africano la prima parola che dice è negro, anche qui in italia. Negare questo è non voler prendere atto che questo appellativo, al giorno d’oggi, è offensivo. Certo per lo spagnolo è un pò piu complicato, ma resta il fatto che anche loro possono dire africano, afroamericano, etc… . A mio avviso, chi usa questo termine, non puo sentirsi offeso, sopratutto se è “bianco”. Lo si dovrebbe chiedere a chi lo subisce se lo ritiene offensivo.

      • Peucezio scrive:

        Questo è così solo da qualche anno, perché qualcuno a un certo punto ha stabilito unilateralmente che il termine “negro” è offensivo.
        Chi ha la sufficiente libertà intellettuale per non conformarsi alle mode linguistiche usa la parola “negro” senza intenti offensivi e infischiandosene del fatto che qualcuno possa offendersi.
        Ma ovviamente, accanto alla libertà e agli uomini liberi c’è il servilismo, il conformismo, l’acquiescenza.

        • Mondo cane scrive:

          Cioè se io ti offendo lo faccio da uomo intelletualmente libero, senza servilismo, conformismo, o acquiescenza? Certo tutto si può dire con le dovute maniere, ma forse “i negri” a cui viene detto possono non capire le sfumature e farti diventare “bianco” di paura, ma da uomini liberi, ritenedola un’offesa. Io non ho idea di quanti “negri” tu conosca, ma ti assicuro che quelli che conosco io, sarà l’esperienza, si arrabbiano un tantino. Certo sanno modulare la reazione a seconda di chi così li chiama. Ad esempio, distinguono se è una persona anziana, sapendo che un tempo era quasi la sola parola per riferirsi a una persona di colore (anche questo termine non molto gradito), ma è inaccettabile se detto da persone più giovani, ritenedo che siano, pensa un pò te, più acculturate. Poi se ti senti un uomo intellettualmente libero nel continuare ad offendere, non ci posso fare niente.

  15. Miguel Martinez scrive:

    La questione del termine “negro”…

    credo che il problema, come sempre, stia nello stigma che si associa a ciò che si definisce, non nel termine che si sceglie per chiamarlo.

    Ad esempio, definire chiunque venga dall’estero “marocchino” pare brutto… e quindi si dice “extracomunitario”, che è una fredda definizione burocratica, priva di ogni giudizio.

    Adesso sento che una questura ha deciso di vietare l’uso del termine “extracomunitario” perché offensivo, e sostituirlo con “straniero”.

    Un po’ la stessa cosa che avviene con “zingaro” e “rom”. Vero che il secondo è il termine con cui gli interessati definiscono se stessi, ma perché posso chiamare Angela Merkel una “tedesca” e non la devo chiamare, che so, una “doiccia”? E perché non devo chiamare i greci “elleni”?

    Semplicemente perchè le condizioni stesse di extracomunitario, zingaro, ecc. sono portatrici di stigma.

    E non si risolvono certo dicendo “rom” anziché “zingaro”. Anzi, nell’immaginario collettivo, “rom” vuol dire solo parassita e ladro, almeno “zingaro” ha un che di libero e allegro.

    “Negro” – in inglese – era il termine usato anche dagli stessi neri americani decenni fa, e veniva usato anche nei nomi delle loro associazioni. Il problema non sta nel termine, bensì nel fatto che lo stesso essere di pelle nera fosse considerata una vergogna indelebile, qualunque termine gli si assegnava.

    Insomma, io uso in genere i termini più “corretti” – “rom” o “nero” – ma non li ritengo affatto delle panacee.

  16. Miguel Martinez scrive:

    Ovviamente, i termini hanno anche un riflusso: proprio perché i termini “zingaro” e “negro” sono stati sostituiti perché ritenuti, secondo me incorrettamente, offensivi, molto spesso chi li usa, li adopera in maniera deliberatamente offensiva.

    E questo è forse l’unico motivo serio per evitare di usarli.

  17. Miguel Martinez scrive:

    Sempre a proposito di termini…

    Leggo una banale scritta a pennarello su una panchina, PIERO GAY.

    Evidentemente si tratta di un insulto, tra ragazzini di scuola media. E siccome le parole “vecchie” per definire gli omosessuali sono ormai tramontate, tabuizzate o diventate semplicemente dialettali, utilizzano l’unico che conoscono: il politicamente-corretto-e-pure-inglese “gay”. Che per loro significa esattamente ciò che significava il vecchio buho toscano.

    • Mondo cane scrive:

      Hai ragione, però il buho-gay può essere anche “negro”. Alla fine degli anni settanta girava questa storiella: In america, chi è il più odiato dai membri del KKK? Un negro ebreo buco e comunista!
      Perdona la bruttura.

  18. Mondo cane scrive:

    MM.
    Quanto dici è sicuramente vero, ma prendiamo ad esempio il termine Marocchino, di per sè dovrebbe indicare la nazionalità o la religione, o Ebreo, ma l’uso ne ha fatto un’offesa, non sempre ovviamente. Quasi che la sola parola fosse la summa delle nagatività associate a una particolare etnia. Molti però, sembrano scordare, per la parola “negro”, che c’è una cosa che si chiama colonialismo e deportazione di schiavi, questa è uno degli aspetti dell’esperienza a cui mi riferivo. E se anche non esiste più la deportazione, o l’occupazione violenta (?), questo termine, inteso come negativo, ha assunto un valore quasi universale per il continente africano e per gli afroamericani. certo, in america, si chiamano nigger tra di loro, ma non accettano che siano altri a farlo, proprio per stigmatizzare il fatto che tra loro non ha più la valenza dispregiativa, al contrario è inclusivo. Poi è certo, è il tono che fà la musica. Ad esempio se detto in maniera discorsiva, tranquillamente, qualcuno può pensare di non offendere chicchessia, ma se, con dei “neri” presenti, prestando attenzione, avrà l’opportunità di vedere lo sguardo imbarazzato di chi sà di non potersi arrabbiare in quelle circostanze, ma proprio contento non è. Tenere conto delle sensibilità altrui non è segno di debolezza. Forse sono io che sbaglio, non essendo molto istruito…
    Comunque, ringrazio tutti per il tempo dedicato.

  19. Miguel Martinez scrive:

    Per Mondo Cane

    Comunque la vicenda della parola “negro” è interessante in italiano. Nel senso che nel Sessantotto, era normale anche tra i più accaniti sostenitori di Malcolm X dire, in italiano, “negro”.

    La tabuizzazione della parola passa certo attraverso un’esperienza negativa generale (come appunto “marocchino”), ma è soprattutto il riflesso di una vicenda americana: “negro” è stato sostituito da “nero” copiando la sostituzione di “negro” con “black”.

    Poi è ovvio che il buon senso detta di usare la parola che attualmente meno offende, ci mancherebbe. Ma senza farne una panacea.

    Tra i Rom, ho sentito definizioni di ogni sorta, anche perché la percezione delle diversità “interne” è molto maggiore della percezione delle similitudini – così “noi” possiamo essere “slavi”, “jugoslavi”, “serbi”, “albanesi”, in base allo stato di provenienza; oppure “zingari”, magari con una lieve ironia; ma raramente “rom”. In genere, basta dire, “la nostra gente”.

    • Mondo cane scrive:

      Per gli africani è lo stesso, sono togolesi, nigeriani etc.. Senza addentrarsi dentro la costellazione di identità tribali. E’ la parola che pare voler negare ogni identità, di spersonalizzare. Negli anni sessanta, dove l’immigrazione era quasi inesistente e tutto sommato colta, essendo per lo più formata da studenti, e il legame era la lotta di liberazione al colonialismo, per l’africa, e la lotta per i diritti civili in america. Le sostituzioni lessicali penso fossero dovute, almeno in america, alla presa di coscienza, all’istruzione e alla voglia di affrancarsi “in ogni modo” dalla cultura dominante. Secondo me questo processo è stato messo in moto dagli “afroamericani”, ed il politically correct, in questo frangente, preteso dalle comunità.
      Lo sparpagliamento delle tribù del popolo rom, come per quello ebraico, che nel tempo ha dato luogo a molte differenze, ma non ha fiaccato il senso di identità, non puo essere paragonato al furto di esseri umani che gli africani hanno subito e le conseguenze che questo ha avuto per i neri americani. Ma tu questo lo sai meglio di me. Io non parlo di panacea, ma di quella consapevolezza, che spesso, pare abbandonarci nell’uso di quelle piccole parole che quotidianamente usiamo, dimenticando che forse, sarebbe bene limitarsi a fare riferimento ad una generica appartenenza continentale, se non conosciamo la proveninza nazionale, anche se riduttiva. Vedi a me è piaciuta tutta la dissertazione su Kate Omoregbe, proprio perchè, per chi si è accorto di questo, sei entrato in profondità nel macrocosmo infranazionale dei popoli africani (seppur limitato alla nigeria). Insomma la mia è solo un’idea, forse qualcuno la può definire priva di fondamento o bislacca, e forse lo è, ma una cosa è certa, e non vuole essere un’offesa, non mi sono limitato a guardare solo la parola sul vocabolario o nell’enciclopedia. Ognuno è libero di esprimersi con i termini che vuole, basta farlo con consapevolezza.

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