Gandhi non è loro…

Moreno Pasquinelli, oltre a essere uno dei più temuti terroristi del pianeta, tanto da non aver bisogno di presentazioni, è anche un ottimo cuoco.

Riporto qui una sua riflessione su Gandhi, ispirata anche alla sua conoscenza diretta dei movimenti rivoluzionari dell’India.

Lo spunto è una domanda posta da una compagna a proposito della scoperta cosiddetta “nonviolenza” da parte del piroettante Bertinotti, e quindi contiene alcuni riferimenti interni alle polemiche di sinistra che potranno non interessare tutti.

I contenuti però mi sembra che vadano molto oltre, e aiutino a liberarci da molti luoghi comuni.

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Lasciami dire anzitutto che Gandhi è una figura controversa quanto straordinaria. Per semplificare: una versione indiana del poverello di Assisi, o per essere più precisi un sufi induista. Per cui a me viene da vomitare a sentire adesso i bertinottiani che parlano di imitarlo, fattaccio che m’era già successo quando i radicali, liberisti americanisti e filoustascia ne fecero il loro portabandiera (sic!) e Pannella scambiava i suoi scioperi della fame con le Satyagraha gandhiane.

Impossibile comprendere il pensiero e l’azione di Gandhi con le lenti occidentali e laiciste. Se oggi nascesse un Gandhi lo prenderebbero per pazzo. Esattamente come se riapparisse Gesù o Buddha.

Dovremmo quindi stare attenti a non trascinare quest’uomo, che per gli indiani ( tranne che per I fondamentalisti hindù) era ed è un santo (Mahatma, “Grande anima”), che andava in giro seminudo (si era svestito come Francesco!), difendeva strenuamente i “mahar” (gli intoccabili, che lui chiamava Harijan, figli di Dio), che fondava comuni agrarie comuniste, che fini in galera innumerevoi volte e che quando l’India ottenne l’indipendenza (contestualmente alla sanguinosissima guerra fratricida tra indù e musulmani che diede vita a qull’assurdo geopolitico che è il Pakistan), andava a leggere il Corano nei templi hindù e iniziò l’ennesimo sciopero della fame per protesta contro la persecuzione dei musulmani e disse: “La morte sarebbe per me una gloriosa liberazione: meglio questo che essere testimone impotente della distruzione dell’India, dell’induismo, del sikhismo e dell’Islam” (11 gennaio 1948). E infatti venne ammazzato pochi giorni dopo da un fanatico hinduista.

Gandhi era un religioso, anzi un mistico, che la storia gettò sul terreno politico, certo che l’India dovesse avere un ruolo mondiale spirituale contro una modernità capitalistica che disprezzava.

Gandhi era un asceta politico, uno che mise la sua vita a disposizione della lotta di liberazione degli oppressi. La sua tecnica di battaglia, la Satyagraha (letteralmente: “afferrarsi alla verità), era certamente una forma di lotta e di disobbedienza civile al potere non violenta. Ma stabilire un parallelo tra la sua non violenza e quella che adesso va di moda nel “movimento” è come confondere Cristo con Papa Woytila.

Il Satyagraha non può essere compreso fuori dal contesto di profonda religiosità indiana. La mera lotta politica era per Gandhi secondaria, subordinata all’elevazione spirituale (ma anche sociale e civile), ad una visione cosmogonica fondata sul rispetto per ogni forma vivente (ahimsa), di qui la meditazione, il digiuno, il silenzio, il recupero delle tecniche yoga prearie.

E c’era in Gandhi, come in Gesù e Francesco, l’idea che solo la povertà integrale avvicinasse l’uomo al divino, che quindi soltanto i poveri siano, tra i figli di Dio, quelli prediletti.

La “pazzia” di Gandhi fu che egli volle sfidare il più grande impero del tempo con la potenza della sofferenza, della meditazione, dell’ascesi. Egli non cessava mai di ricordare ai propri seguaci “… più pura è la sofferenza (tapasya) maggiore è il progesso. Per questo il sacrificio di Gesù bastò a liberare un mondo sofferente… Se l’India vuole vedere il regno di Dio in terra (e non quello di Satana in cui e’ invischiata l’Europa), sappiano i suoi figli e le sue figlie… Che dobbiamo soffrire”. Per Gandhi l’ahimsa, la non violenza, non era anzitutto una forza negativa, essa aveva una forza positiva, l’amore, e mediante la potenza dell’amore egli esortava gli satyagrahin a “convertire” il cuore dei propri avversari, a conquistare la loro anima.

Gandhi era insomma un Gesù più immanentista che trascendente però – e quindi io dico senz’altro più rivoluzionario di Gesù, che non si immischiò mai con gli zeloti e predicava l’indifferentismo poliico. Un profeta religioso comunque, che mise la sua spinta mistica a disposizione della causa rivoluzionaria della liberazione indiana (anche se solo all’ultimo e sotto la pressione del nazionalismo radicale (e armato), si converti all’indipendentismo, mentre fino agli anni ‘40 perorava una mera Svaraj, una autonomia nell’ambito dell’impero inglese). Liberazione a cui diede un contributo decisivo ma che avvenne più come conseguenza dei devastanti avvenimenti bellici della seconda guerra mondiale, del tramonto dell’imperialismo inglese e delle strordinarie lotte popolari indiane (più spesso violente che non violente) che per il successo della sua strategia. Strategia, al contrario, che negli anni 1944-47 subi un totale fallimento.

Che pagliacci come Pannella e Bertinotti dicano di volersi rifare al suo esempio è una autentica vergogna! Loro cosi imbevuti di narcisismo borghese, loro che sguazzano nei palazzi romani, loro che con uno dei propri vestiti firmati potrebbero sfamare un intero villaggio di Sumatra, loro che sbavano per diventare ministri. Inutile ti dica che l’infatuazione bertinottiana per la non violenza è solo un trucco, una carnevalata, un alibi per giusitificare il suo reingresso, come Figliol prodigo, nel circo del potere.

Che nel PRC ci siano giovani che usino la memoria di Gandhi per contrapporlo alla tradizione rivoluzionaria, questo è invece soltanto ridicolo, poiche’ essi non hanno capito né l’uno né l’altro. Ne potrebbero mai imitare, né l’uno né l’altro, almeno fino a quando non si sbarazzeranno del sozzume culturale borghese e psicologico che li ammorba.

L’uno e l’altro distanti in maniera siderale ma vicini tantissimo perché entrambi hanno dato la loro vita per gli ultimi, i diseredati, e la loro liberazione. Certo, Lenin aveva poco a simpatia l’ascetismo spiritualista e trascendentale (che avrebbe definito, ahime’, pretesco). Lui, uomo e stratega dell’azione rivoluzionaria, se fosse stato in India, avrebbe combattuto politicamente Gandhi, ma, ne sono certo, con lui avrebbe marciato in più occasioni, tranne quando, e accadde più volte, il Mahatma ondeggiò e giunse a disastrosi compromessi tattici coi colonialisti inglesi. Errori che comprese e tentò di non commettere più, entrando quindi in un conflitto insanabile con il Partito del Congresso di Nehru e con la Lega Musulmana di Jinnah.

Tuttavia, dopo il 1917, molti erano gli indiani che stabilirono un improbabile parallelo tra Lenin e Gandhi. Ogni volta che sono andato in India ho cercato, invano, un libro del 1920 dal titolo “Gandhi e Lenin”, che fu scritto da un dirigente comunista, Shripat Amrit Dange, nel quale l’autore pur apprezzando quanto Gandhi andava facendo per il suo popolo, sosteneva che solo Lenin fosse un “vero rivoluzionario”. Ed aveva ragione, ma oggi sappiamo con quanta prudenza occorre prendere il predicato “vero”.

Insomma non penso che per attaccare l’opportunismo ondivago di Bertinotti si debba strapazzare Gandhi, né trascinarlo in queste beghe da comari che fanno fibrillare il PRC.

Riguardo alle simpatie di Gandhi per il Fascismo molto si è detto, a sproposito — certe insinuazioni sono sempre venute dal mondo anglofono dato che in India se ne fregano della paranoie antifasciste spesso attizzate dai sionisti. Bastava assistere alla appassionata partecipazione delle leghe contadine indiane all’antimerialista Mumbay Resistance Forum del gennaio del 2004, tutte gandhiane, per capire quanto sia solido il prestigio del Mahatma tra gli oppressi. E basta sapere che i naxaliti (maoisti) del Bihar, di Orissa o dell’Andrha Pradesh, che praticano la guerra popolare, se cooperano, lo fanno proprio con le associazioni gandhiane.

Il problema di fondo è che il movimento indiano di liberazione nazionale aveva come nemico principale l’oppressore inglese. Se nella prima guerra Gandhi cessò le ostilità per sostenere lo sforzo bellico antitedesco degli inglesi (parti infatti volontario), in occasione della seconda guerra non commise lo stesso madornale errore e nell’ottobre 1940 diede inizio ad una nuova satyagraha, ovvero adottò la tattica della renitenza alla leva all’esercito inglese—tieni conto che gli inglesi reclutarono centinaia di migliaia di indiani che mandarono a morire sui vari fronti dall’Europa all’Asia per difendere i loro interessi coloniali.

Gandhi, con tutto il movimento nazionale, continuò la lotta antinglese nonostante l’Inghilterra fosse in guerra col nazismo. E io penso che fu giustissimo (mentre i filosovietici del PC indiano ebbero torto perché chiedevano la cessazione della lotta di liberazione nazionale… per non indebolire la “causa antifascista”… Dell’imperialismo inglese, aggiungo io), e proprio questa tenacia portò all’indipendenza successiva e impedi agli inglesi di perpetuare il loro dominio coloniale. Diverso fu il caso dell’INA (Esercito Nazionale indiano) di Subhas Bhose, vecchio amico di Gandhi, che non esitò ad accettare gli aiuti giapponesi per condurre la sua guerra di guerriglia antinglese ed e’ vero che egli nel 1941 si recò a Berlino ed ottenne alcuni appoggi da parte di Hitler. Solo voglio ricordarti che per andare a Berlino passò per Mosca, nel 1941 ancora alleata alla Germania nazista. Bhose venne poi ucciso dagli inglesi, diventando un’eroe nazionale, una specie di Garibaldi indiano.

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17 risposte a Gandhi non è loro…

  1. talib scrive:

    se cucina così come spiega, beati i suoi ospiti 😉

    Iniziano a diventare tantini gli indizi che disegnano Fausto aggrappato con le unghie al cadreghino, io dall’ultimo congresso di RC ne sto vedendo veramente troppi. Pare proprio che pensi “ma vedi te, devo restare col culo per terra solo io?”

  2. RIPENSAREMARX scrive:

    Gandhi è stata una figura emblematica della lotta chi è costretto a difendersi (in qualche modo) per sopravvivere. Tuttavia bene dice Pasquinelli che l’esportazione di certe esperienze non sempre è possibile e, soprattutto, utile (odiosa quando invece è strumentale alle mire politiche dei vari Bertinotti o Pannella). Personalmente credo alla prosaicità poco pretesca di Lenin. Un pò più forte una espressione del rivoluzionario nero G. Jackson “Non si possono ignorare gli attacchi, se chi attacca è armato. Gandhi e gli altri santoni erano tutti dei miserabili idioti”.

    E’ molto dubbio che le masse di un gruppo oppresso possano “amare” il loro oppressore. Le naturali reazioni all’ingiustizia, all’oppressione e all’umiliazione sono il risentimento e il rancore. La forma che tale rancore assume deve essere necessariamente e apertamente violenta, tuttavia l’erosione dello spirito umano coinvolto risulta inevitabile” K. Clark

    “L’insubordinazione del colonizzato contro il colonizzatore è fisica innanzitutto, psicologica, culturale e soprattutto violenta. E’ una violenza che nasce dal contesto umano stesso del colonizzato, vale a dire da un contesto reso subumano, e che non può più tornare indietro all’umanità della civiltà borghese- disumanizzante per sua stessa natura”.Fanon

    Ecco i milli modi di combattere contro gli oppressori e per quanto si possa essere pacifisti prima o poi la rabbia sfocia in violenza. A meno di non essere santi, ma come Gandhi ce ne sono pochi.

  3. utente anonimo scrive:

    Certo che dare del pensatore a Pasquinelli è una vera violenza alla semantica.

    E non mi dire che dovrei controbatterlo punto per punto, che una simile sequela di scempiaggini, intervallate da dati storici che stonano nel contesto, basta a se stessa. Ogni fatto è inutile ai fini di questo tipo di analisi.

    Però sarebbe interessante un’analisi storico-linguistica: chissà perchè mi suona all’orecchio una fortissima somiglianza con articoli della Pravda degli anni ’30 e ’40 … sarà una malformazione di noi teoconi.

    Ciao

    Francesco

    PS belle le beghe interne al PRC, meglio che quelle dentro l’UDC.

  4. RIPENSAREMARX scrive:

    Credo che non solo Pasquinelli sia un pensatore, ma soprattutto è l’esempio di come si distrugge la figura inutile dell’intellettuale borghese (della separazione culturale, ben descritta da Debord) che non rischia in proprio. Pasquinelli invece lo fa, onore a lui!

  5. kelebek scrive:

    Francesco,

    la tua presenza su questo blog serve a noi per tenerci svegli, e a te pure.

    Con un commento del genere, direi che stai dormendo di sonno profondo.

    Miguel Martinez

  6. utente anonimo scrive:

    Dai, non dirmi che ti fai confondere da questo linguaggio da Futurista di sinistra!

    La sostanza va trovata sotto la superficie brillante (e non tanto) delle invettive generosamente dispensate.

    E io non ne vedo proprio, visto che non si coglie l’elemento effettivamente notevole di Gandhi: il sacrificio di sè come via per convertire l’avversario e restituirlo alla sua umanità, il fallimento pratico già nelle lotte anti-inglesi, il disastro della vittoria indipendentista, magari i limiti nella concezione populista e reazionaria dell’India spirituale contrapposta all’Inghilterra mercantile. Solo baggianate sulla lotta al colonialismo e qualche gratuita provocazione, come la rivendicazione del patto Molotov-Ribbentrop.

    Ciao

    Francesco

    PS effettivamente non dormo da più di un mese …

  7. utente anonimo scrive:

    Io non casso l’articolo di Pasquinelli come fa Francesco, lo trovo piuttosto interessante, ma mi permetto un’osservazione: non riesco a vedere tante affinità tra un personaggio come Lenin, e uno come Gandhi. Anche se quest’ultimo non è stato poi un vero e proprio ‘santo’, come pure lo credono tutt’oggi, e ha commesso errori umanissimi, mi sembra molto lontano dalla figura di Lenin, almeno da quella che risulta dalla lettura di “Arcipelago Gulag” di Solzenicyn: tutt’altro che un “santo” davvero, nel suo caso. O forse è un testo di cui non ci si può fidare?

    Francesca 31082

  8. utente anonimo scrive:

    “entrambi hanno dato la loro vita per gli ultimi, i diseredati, e la loro liberazione”

    Ora, uno di questi entrambi è Lenin.

    Essendo io un cattivissimo teocon, un cinico, un cattolico che guarda all’aldilà, posso leggere questa frase senza mettermi a vomitare.

    Ma sarebbe l’unica reazione umanamente adeguata. Perchè tutti possono sapere, e con facilità, cosa ha fatto Lenin. E nessuno può sostenere che lo abbia fatto a beneficio “degli ultimi e dei diseredati, per la loro liberazione”.

    O meglio, lo si può sostenere alla maniera con cui i sofisti ateniesi potevano sostenere qualsiasi cosa un giorno, e il suo contrario il giorno dopo.

    Caro Miguel, mi hai costretto a rileggere tutto l’articolo con attenzione e quasi ti sono grato, che questa chicca mi era passata davanti e non l’avevo colta.

    Ma anche all’alienazione da mondo parallelo, come quello dei blog, c’è un limite.

    Saluti

    Francesco

  9. RIPENSAREMARX scrive:

    Non pretendo che tu riconosca la grandezza di Lenin, del resto avresti subito il comunismo da avversario quale ti proponi. Conta però il verbo subire (non possiamo convincere tutti)che per me è invece indice della fine di una barbarie determinata dalla supremazia capitalistica sulle classi dominate. Non ho timore a dirlo del resto non mi sento affatto una educanda borghese!

  10. utente anonimo scrive:

    Insomma quello che scrive Solzenicyn è tutto una frottola? E’ una frottola che già Lenin, ben prima di Stalin, ben prima dell’avvento del Nazismo, parlava di “epurazione” etnica e politica? Io non ho qui con me il libro, ma se mi date un po’ di tempo vi riporto il passo…

    Francesca 31082

  11. kelebek scrive:

    E così stasera ho scritto qualcosa su Lenin, poi la metto su domani mattina.

    Buona notte!

    Miguel Martinez

  12. utente anonimo scrive:

    Rip,

    la grandezza di Lenin emerge con cruda verità dalla fine che ha fatto il suo sforzo, realizzato a prezzo di sangue (altrui e moltissimo). O vuoi sostenere che il compagno Stalin fu uno sfortunato incidente, una svolta imprevedibile, qualcosa di cui non chiedere conto a Vladimir?

    Francesco

    PS alla fine, del golpe d’Ottobre e delle sue conseguenze restano la grandezza, la brutalità e l’inutilità del massacro. Non è molto.

  13. RIPENSAREMARX scrive:

    Scusa se mi permetto un attimo: Se tuo figlio commette un omicidio potranno mai mettere te in galera? Se a tuo figlio insegni l’educazione, ma lui interpreta tutto con altre chiavi di lettura, la colpa sarà mai totalmente tua? La cosa che mi fa specie è che dapprima fate discorsi (robinsonate) sull’incredibile forza autopoietica dell’individuo che si pone accanto ai suoi simili come monade, poi, invece, quando volete buttare a mare chi non vi fa comodo operate una reductio che distrugge le individualità al fine di mettere tutto in un unico calderone. Se non vedi differenza tra Vladimiro e Giuseppe direi che è il caso di informarsi meglio.

  14. utente anonimo scrive:

    Carissimo,

    senza Lenin, la sua brutalità, il suo disprezzo per la vita altrui e per ogni forma di rispetto, la sua spietatezza in nome del superiore ideale del comunismo, Stalin non sarebbe neppure stato pensabile.

    E non ho qui la possibilità di riprendere le molte accuse a Lenin di avere iniziato i massacri, poi portati avanti da Stalin. Solo che il secondo è stato mollato da quasi tutti i comunisti e il sangue gli è addebitato in proprio, il primo è ancora uno che ha agito a fin di bene …

    I precedenti e gli strumenti li ha messi in atto Lenin, l’altro li ha sfruttati.

    E non accusare un cattolico tradizionalista e conservatore di considerare gli individui delle monadi che agiscono a prescindere dai loro antecedenti ;))

    Ciao

    Francesco

  15. utente anonimo scrive:

    Lenin forse non sarà responsabile di quanto ha fatto Stalin, ma di sicuro è responsabile delle proprie azioni. O vogliamo ignorare che aveva le mani lorde di sangue (e non parlo dei Romanov)?

    Filippo

  16. utente anonimo scrive:

    X Francesca (quella col numero dietro:-) )

    Solzhenitzyn è un nazionalista russo, molto religioso anche un po’ mistico mi pare. E fa il solito “giochetto” di ogni buon patriota che si rispetti:”Noooo! Ma quando mai! Quella cosa zozza e brutta che è il comunismo è in contrasto con l’anima nobile della Grande Russia, e roba da Grande satana 8per dirlo alla Naked King:-) ) Occidentale!”. Ma per favore! Sicuramente ci sarà anche una pletora di nazionalisti cinesi, vietnamiti, cambogiani, cubani, ecc., ecc. che diranno le stesse cose sulle virtu dei loro rispettivi popoli, virtù incompatibili col bieco comunismo. E invece il comunismo nasce dalla bestia che sonnecchia in ognuno di noi, bianco, giallo, nero verde che sia. Quella bestia si chiama INVIDIA. E appena le congiunture storiche lo permettono, la bestia si materializza come DITTATURA DEL PROLETARIATO. A prescindere dalla vera o presunta animaccia del popolo.

    Ciao

    Ritvan

  17. utente anonimo scrive:

    x RipensareMarx

    Beh, in tutta onestà, devo dire che, a mio avviso, paragonare Lenin a Stalin somiglia un po’ a paragonare Marco Aurelio a Caligola:-) o – per venire a tempi più recenti – Mussolini a Hitler. Stesso sistema, stesso apparato, ma molta differenza fra i personaggi di ogni “coppia”.

    Prendo solo un aspetto: il terrore. Lenin lo attuò, certo, la CEKA la inventò lui e l’affidò al fido Djerdjinsiki. Ma non dimentichiamo che si era in piena guerra civile, quando l’esistenza stessa del regime era seriamente minacciata.

    Il pensiero di Lenin sul “terrore rivoluzionario” si può facilmente desumere da quanto scriveva a Molotov nel 1922:

    “Uno scrittore esperto in questioni di Stato (si riferiva con tutta probabilità a Machiavelli -n.d.r.) ha detto giustamente che se è neccessario ricorrere a determinate violenze per realizzare un dato obiettivo politico, bisogna attuarle con estrema energia e nel più breve tempo possibile, perché le masse non tollerano l’applicazione prolungata della brutalità” (da “Lenin- l’uomo, il leader, il mito” di Robert Service, Mondadori, 2001).

    Stalin, invece, – che probabilmente non aveva letto l’illustre politologo fiorentino – inaugurò l’era del terrore permanente in tempo di pace. Ed è già una bella differenza….

    Ciao

    Ritvan

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